Il 6 giugno 2011 moriva, a Mola di Bari, suo paese d’origine, Enzo Del Re. Di
origine contadina -il padre era venditore di frutta – Enzo Del Re è
stato uno dei compositori e cantautori più radicali della scena musicale
italiana degli ann i ’60/’70. Quella, per intenderci, facente capo alla
controcultura di ispirazione comunista, anarchica, maoista, che si
imponeva, con vigore creativo, contestatario e dissacratorio, in quel
fervido e difficile periodo di aspre e sacrosante lotte sociali. Lotte
alle quali, il mondo della cultura e dell’arte non faceva certo mancare
il suo importante contributo, gravido di idee e il suo impegno
militante.
Tempi
che sembrano remoti, se si considera un presente fatto di intellettuali
ed artisti pronti ad inchinarsi all’ideologia dominante del mercato e a
quei piccoli Principi di turno, dai quali attendono, come mendicanti,
le briciole di un profitto costruito sulla sabbia mobile e viscida del
compromesso.
Di
tutt’altra stoffa era fatto Enzo Del Re. Suonava senza strumenti
musicali, accompagnandosi con sedie, tubi, cassette per la frutta, e con
la lingua. Il “linguafono”, lo chiamava, ossia il rumore prodotto dallo
schiocco della lingua sul palato, modulato dalle aperture-chiusure
della bocca.
Dunque, un comunista, un cantastorie – collaborò, a lungo, anche con Dario Fo – autore di brani musicali
attraversati dalla tragedia umana del lavoro e del sacrificio; dalla
sarcastica vena di chi disprezza il mondo borghese e dei capitani
d’impresa; dallo sberleffo, irriverente, verso un potere opprimente e malvagio. Brani che cantavano e celebravano, in dialetto o in volgare, la sua terra, i diseredati, la classe operaia e lavoratrice, facendosi beffe, allo stesso tempo, di padroni, padrini, sfruttatori del lavoro altrui, borghesi.
Come cachet, Enzo chiedeva l’equivalente del salario giornaliero di un metalmeccanico,
e non voleva saperne di suonare meno di otto ore. Se pensiamo ai cachet
di certi artisti, per mezzora di ospitate insulse, beh viene davvero la
voglia di “mettere mano alla pistola”!
Una delle sue ultime apparizioni, fu al Concerto del Primo Maggio, a Roma, nel 2010. Non che ne condividesse lo spirito, sia ben chiaro. Né tantomeno condivideva la Concert/Azione di quel sindacalismo compatibilista,
incarnato dalla Triplice (Cgil-Cisl-Uil) che, negli anni, si è venduta
la classe lavoratrice un tanto al chilo, badando esclusivamente a
lucrare rendite e posizioni di potere. Ma lo aveva invitato
Vinicio Capossela. E credo che l’intento fosse proprio quello di
assestare un ceffone all’ideologia del lavoro e alle mediazioni di
classe, portate avanti dai sindacati. Tant’è, ci andò e infiammò il pubblico, soprattutto i giovani.
Orbene, in
questi anni cupi di controffensiva capitalista e padronale, durante i
quali sembra sempre più affermarsi un ritorno alla schiavitù e
all’alienazione della fatica, con garanzia piena, d’altra parte, dei
privilegi dei ricchi signori e delle loro rendite, edificate sul sangue di lavoratori e operai (in questi giorni ne stiamo avendo conferma con le infami proposte di controriforma fiscale avanzate dal nuovo governo) ricordare le parole di un artista come Enzo Del Re, penso sia un dovere. E allora, qui di seguito, i testi di due brani, tra i più famosi, scritti da questo indimenticabile e compianto autore.
Lavorare con lentezza
“Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo
Chi è veloce si fa male e finisce in ospedale
In ospedale non c’è posto e si può morire presto
Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo
La salute non ha prezzo, quindi rallentare il ritmo
Pausa pausa ritmo lento, pausa pausa ritmo lento
Sempre fuori dal motore, vivere al rallentatore
Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo
Ti saluto ti saluto, ti saluto a pugno chiuso
Nel mio pugno c’è la lotta contro la nocività
Lavorare con lentezza senza fare alcuno sforzo
Lavorare con lentezza”
Tengo ‘na voglia ‘e fa niente
“Tengo ‘na voglia ‘e fa niente
Tengo ‘na voglia ‘na voglia ‘e fa… niente!
Comm’o sole dint’a capa
m’è trasuta ‘a pensata
e s’incontro pa’ via, chi ha inventato a fatica
io, ti giuro, l’accido, pecchè
tengo ‘na voglia ‘na voglia ‘e fa… niente!
Si ‘a fatica era ‘bbona, m’ha cunsigliava o’ dottore
si a fatica era ‘bbona nun pregavano i preti
benedizione alla fatica e a chi la vuole
Tengo ‘na voglia ‘na voglia ‘e fa… niente!
Chi m’ha mis’in catena, passa a vita in vacanza
io fatico e fatico e passo pure da stronzo
vaffanculo alla fatica e a chi la vuole
Tengo ‘na voglia ‘na voglia ‘e fa… niente!
La fatica è onore, ma si ta scansi, meglio ancora!
Beato chi, cumm’è, sa riesce a scansà!
Tengo ‘na voglia ‘na voglia ‘e fa… niente!”
Grazie Enzù. Che la terra ti sia lieve!
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