Paul De Grauwe da tempo ricorda come in una unione monetaria non esista altro modo per un paese che perde competitività se non attuare una dolorosa svalutazione interna, ovvero schiacciare i salari. In questa intervista riconosce lucidamente che lo stato di cose oggi è insostenibile e che la mancanza di collaborazione dei paesi nord-europei rischia di far crollare l’intero eurosistema. Non auspica però un’uscita immediata e unilaterale dell’Italia dall’euro, ma piuttosto una ripresa degli investimenti pubblici, se necessario anche in violazione degli stringenti parametri dell’eurozona, da lui stesso definiti insensati. Ovviamente, la questione aperta rimane: che fare se l’Ue non dovesse concedere all’Italia la flessibilità necessaria ad attuare le politiche espansive di investimento che oggi sono così urgenti?


Di Alexander Trentin, 1 giugno 2018


Professor De Grauwe, come si spiega che i partiti populisti abbiano vinto le elezioni in Italia?
È il risultato delle difficoltà di ripresa dei paesi della periferia dell’Euro dopo la crisi finanziaria. Molti paesi hanno perso competitività. Per cercare di ristabilire un equilibrio economico hanno ridotto i prezzi e i salari al fine di essere competitivi, un meccanismo chiamato dagli economisti “svalutazione interna”. Si tratta di un processo molto doloroso, in cui ai paesi viene imposta l’austerità. La svalutazione interna ha intensificato la recessione, aumentato la disoccupazione e causato sofferenze a molte persone. Ci sono stati contraccolpi politici, in particolare in Italia. Il paese ha decisamente esagerato nell’imporre misure di austerità. Questo ha causato uno scontento diffuso, che i partiti politici hanno saputo incanalare. Una certa responsabilità di ciò ricade sui paesi del Nord Europa. Questi paesi avrebbero potuto alleviare l’onere dell’Italia stimolando la propria economia. Invece essi stessi hanno adottato politiche di austerità. Questo ha creato fino a tempi recenti una tendenza deflazionistica nella zona euro. Tutti i costi sono ricaduti sui paesi in deficit, mentre i paesi creditori non erano disposti a condividere la loro parte. C’è un errore nel sistema.



Si tratta davvero di un difetto sistemico? Non è colpa del sistema se i paesi del Nord Europa non sono disposti a fare di più.
Non esiste alcun meccanismo per garantire che gli aggiustamenti funzionino in modo simmetrico sia nei paesi creditori sia in quelli debitori. In una unione monetaria, a un certo punto i paesi iniziano a divergere. Pertanto, deve esserci un meccanismo per ristabilire la convergenza. E ciò dovrebbe essere simmetrico: i paesi in deficit devono ridurre la spesa, mentre i paesi in surplus dovrebbero aumentare le loro spese. Questo non ha funzionato. Non c’era alcuna volontà da parte dei paesi creditori di farlo. L’errore è quindi sistemico: se ci fosse stato un bilancio centralizzato, questo avrebbe stabilizzato l’economia per l’intera eurozona. Con appositi stanziamenti si sarebbe trasferito denaro, assicurando che l’impatto fosse più simmetrico. Ma poiché un bilancio centrale è ben lontano dalla realtà, dobbiamo fare affidamento sul fatto che i singoli paesi siano disposti a collaborare e fare ciascuno la propria parte. E non lo fanno.


Quale sarebbe la ragione principale che potrebbe portare il governo italiano a lasciare l’eurozona?
È la sensazione che il Paese sia imprigionato in una gabbia costruita dai tedeschi, come ha detto Paolo Savona. Gli italiani vedono l’eurozona come un vincolo per l’economia – e in una certa misura è così. Altra cosa è chiedersi se il Paese starebbe meglio fuori. I partiti populisti vogliono creare una narrazione secondo cui l’Italia sia stata oppressa dall’esterno, specialmente dai tedeschi, e debba liberarsi. Questo è diventato un argomento molto sensibile.



Come consiglierebbe al governo italiano di procedere?
Mi concentrerei sull’aumentare la capacità del Paese di intraprendere investimenti pubblici. Le infrastrutture in Italia sono in pessimo stato. E le infrastrutture sono la chiave per la crescita a lungo termine. Se un Paese non è più in grado di investire, è perduto. Tuttavia, al momento è impossibile per l’Italia investire abbastanza a causa dei vincoli di bilancio imposti dalle regole europee. Il mio consiglio al governo sarebbe: comunicare a Bruxelles che se non li autorizza a fare investimenti pubblici finanziati con l’emissione di obbligazioni, sono pronti a uscire. Ma naturalmente, l’uscita dall’eurozona causerebbe forti incertezze. La transizione verso una valuta nazionale sarebbe drammatica, con un rischio di crisi bancaria, poiché molte banche detengono il debito italiano, che sarebbe quindi denominato nella valuta nazionale. Uno scenario preoccupante, per cui non me la sento semplicemente di dire: “Uscite subito dall’euro, sarà meglio”. Se però ci fosse la possibilità di effettuare una transizione graduale, allora probabilmente consiglierei al governo di lasciare l’euro, perché non va bene per l’Italia.



Cosa ne pensa della tesi che l’economia italiana soffra per la mancanza di riforme strutturali?
L’Italia ha recentemente introdotto diverse riforme strutturali. Vi sono state importanti riforme del sistema pensionistico e del mercato del lavoro. Certo, si può sempre obiettare che non basta. Ma la capacità di investimento è molto più importante per la crescita.


Se l’Italia rimane nell’Eurozona, come può gestire la sua enorme mole di debito?
È un circolo vizioso. Se l’Italia non cresce, il carico del debito continuerà ad aumentare. E se si prova a tagliare il debito con l’austerità, il paese continuerà a ristagnare. Il paese è ai peggiori posti in termini di stagnazione economica: il PIL pro capite oggi è ai livelli del 1999. E poiché il paese è nell’eurozona, l’Italia non può ricorrere all’inflazione per ridurre il debito in termini reali. L’economia deve tornare a crescere. La chiave è investire, ma al governo non è permesso. In questo senso si trova in una gabbia. L’Italia deve uscire da questa gabbia, altrimenti non crescerà e il peso del debito resterà alto.


Qual è la sua valutazione della proposta della Lega Nord di introdurre una valuta parallela, i Minibot?
Lo interpreto come un semplice espediente per portare l’Italia fuori dall’eurozona. Se venisse introdotta una moneta parallela, il paese abbandonerebbe in pochissimo tempo l’euro. È un’applicazione della legge di Gresham: i soldi cattivi scacciano quelli buoni. Le autorità manterrebbero la parità tra l’Euro e il Minibot, poiché entrambi sarebbero accettati per i pagamenti delle tasse. Ma poiché il Tesoro probabilmente emetterebbe Minibot per coprire il suo deficit di bilancio, creerebbe un eccesso di questa valuta parallela. Di conseguenza, la valuta parallela varrebbe meno del vero euro, sarebbe quotata nel mercato a sconto. Il vero euro scomparirebbe dal sistema di pagamenti: tutti pagherebbero con la moneta parallela più economica e manterrebbero l’euro come riserva di valore. Chi ha presentato questa proposta probabilmente ne è consapevole. È un piano progettato per spingere il paese fuori dall’eurozona.



Sarebbe utile una condivisione dei rischi, nel senso che una parte del debito pubblico italiano fosse garantita dagli altri paesi dell’euro?
Sia chiaro: il nervosismo sui titoli italiani si basa su ragioni politiche, non su ragioni economiche. Con gli attuali tassi di interesse, l’Italia non presenta problemi nel sostenere il debito. Il problema politico è che i due partiti che formano un governo hanno in programma di uscire dall’eurozona. Non si teme che l’Italia non possa ripagare il debito, ma che la valuta di questi pagamenti sarà effettuata in una nuova lira. E il tasso di cambio della lira scenderebbe forse dal 20 al 30%, il che rappresenterebbe una perdita per gli obbligazionisti. Non è che il debito italiano non sia sostenibile. Io sono sempre stato a favore degli eurobond. In una simile proposta, il debito fino al 60 per cento del PIL sarebbe una responsabilità congiunta dell’eurozona, e l’eccedenza sarebbe una responsabilità individuale. Sarebbe un buon sistema, ma la Germania ha esagerato, respingendo la proposta.


Potrebbe essere una soluzione riunire insieme i titoli di stato di diversi paesi dell’Eurozona?
Il Comitato europeo per il rischio sistemico ha proposto di creare nuovi titoli garantiti, i cosiddetti European Safe Bonds, ESBies. L’idea è che un istituto finanziario comprerebbe titoli di stato e emetterebbe i propri titoli. Lo scopo sarebbe di creare asset sicuri grazie all’ingegneria finanziaria. Analogamente alle obbligazioni di debito collaterale, ci sarebbero diverse tranche: una tranche senior a basso rischio e una tranche junior che sarebbe più rischiosa, in quanto subirebbe per prima perdite nel caso in cui i titoli di stato dovessero andare in default. Sono molto scettico riguardo a questa proposta. La proposta non risolve il problema dell’intriseca instabilità del mercato dei titoli di stato nell’eurozona. Nessuno degli stati sovrani dell’eurozona è garantito da una banca centrale. Si limitano ad emettere obbligazioni, che di fatto sono denominate in una valuta straniera. I governi potrebbero trovarsi nella situazione di non disporre degli euro per pagare gli obbligazionisti. E a spingerli in una situazione del genere può solo essere la speculazione. È una crisi che si autoalimenta: se tutti temono che un governo non paghi, la liquidità scomparirà dal mercato, il governo non potrà trovare liquidità a tassi di interesse ragionevoli, e dovrà fare default. Solo una banca centrale, pronta a intervenire, può prevenire una simile crisi. Questo non può essere risolto dagli ESBies, perché continueranno ad esistere i mercati dei titoli di stato nazionali.



I mercati obbligazionari non servono a disciplinare i paesi che accumulano troppo debito?
Non è così che funziona. Dopo l’introduzione dell’euro, ci sono stati otto anni di spread quasi nullo tra i paesi – il mercato obbligazionario stava dando a credere che detenere un titolo greco avesse lo stesso rischio che detenere un titolo tedesco. In questo senso, i mercati non hanno disciplinato proprio nulla. Quand poi è scoppiata la crisi, i mercati hanno reagito scompostamente. I mercati di solito sbagliano: o sono troppo clementi o troppo severi. In una fase di boom, i mercati e le agenzie di rating sono troppo euforici e nessuno vede i rischi. Ma quando arriva il crash, i mercati vedono rischi ovunque. Questa avversione al rischio ha già provocato due profonde recessioni in Europa.


L’economista tedesco Hans-Werner Sinn ha espresso in un’intervista la sua preoccupazione che i crediti della Germania nell’eurosistema di pagamenti Target2 siano a rischio. Condivide le sue preoccupazioni?
Il problema della Germania è che negli ultimi venti anni ha avuto un enorme surplus di esportazioni. Una conseguenza del surplus di esportazioni è l’accumulo di crediti finanziari con il resto del mondo. Prima della crisi, questi erano tutti crediti privati, come per i prestiti bancari. Con la crisi, i crediti su altri paesi dell’euro sono stati spostati al settore pubblico e sono confluiti nei saldi Target2. Questi saldi sono il risultato del surplus di esportazioni e dei crediti da esso creati. È stata una scelta della Germania accumulare questi crediti. I tedeschi dovrebbero chiedersi: è stata una politica saggia accumulare tutti questi crediti? Essere un creditore comporta sempre dei rischi, in quanto i debitori potrebbero non essere disposti a rimborsare il proprio debito. Questo è vero sia in un’unione monetaria sia fuori.



Quale prospettiva immagina per l’eurozona?
In gran parte ciò dipende da come sarà risolta la crisi italiana. L’eurozona ha intrapreso un percorso di ripresa economica, ma ora questa strada è incerta. Si dovrebbero superare queste stupide regole auto-imposte di pareggio di bilancio. Queste impediscono di finanziare investimenti a debito. Nessuna azienda privata seguirebbe una regola così stupida. Altrimenti saremmo ancora nell’età della pietra. Se hai un buon progetto, chiedi un prestito. E i governi dovrebbero essere in grado di farlo. In molti posti, specialmente tra gli economisti tedeschi, c’è questa visione cinica, secondo cui gli investimenti governativi sarebbero improduttivi. Questo è sicuramente sbagliato.



In che misura il mercato dei titoli di stato conta sull’ipotesi che la BCE alla fine intervenga?
È chiaro che la BCE può fermare immediatamente una crisi nel mercato dei titoli. Lo abbiamo visto nel 2012: la semplice dichiarazione da parte della BCE di essere pronta a intervenire sul mercato ha avuto un effetto decisivo. Tanto che non ha neanche dovuto acquistare alcun titolo, in quel momento. La domanda è se adesso interverrà. E questo è incerto. Il problema principale è che ora ci troviamo in un sistema in cui la sopravvivenza di un governo dipende dalla buona volontà di un piccolo numero di persone sedute attorno a un tavolo a Francoforte. In un paese autonomo, se il governo sovrano è nei guai è sempre il governo sovrano a prevalere e a costringere la banca centrale ad emettere la necessaria liquidità. Nell’eurozona è il contrario: è la BCE a prevalere sugli stati sovrani. Questa è una struttura di governance inaccettabile e, nel lungo periodo, insostenibile. Ha funzionato finché i paesi in crisi erano relativamente piccoli, come la Grecia. Ora colpisce l’Italia, in futuro potrebbe colpire altri grandi paesi come la Francia. La gente non accetterà che il destino del proprio paese sia nelle mani di funzionari pubblici senza alcuna legittimità democratica. Questo sistema deve essere cambiato, e la crisi italiana lo rende molto evidente.