di
Daniele Della Bona
Il
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Quinta puntata della serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia (qui trovate la Parte 1; Parte 2; Parte 3 e Parte 4)
e alla sua relazione con i vari shock di politica economica occorsi a
partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca
d’Italia, all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario
Europeo (SME), fino alle politiche fiscali intraprese dai governi che si
sono succeduti; per chiudere poi con lunga fase di crescente
liberalizzazione del mercato del lavoro.
Oggi
parleremo di come si finanziava il governo (cioè di come il Tesoro
finanziava la propria spesa) prima del divorzio fra Tesoro e Banca
d’Italia.
Prima
del divorzio i canali di finanziamento del Tesoro presso la Banca
d’Italia erano sostanzialmente due. Il primo era il cosiddetto “Conto corrente di Tesoreria”.
Esso era un vero e proprio conto corrente bancario detenuto dal Tesoro
presso la Banca d’Italia già a partire dal dopoguerra, nel quale come
spiega questo documento pubblicato dalla Banca d’Italia (La Banca d’Italia e la Tesoreria dello Stato di Giuseppe Mulone, 2006, p.33):
confluivano
giornalmente gli introiti e gli esiti in contanti eseguiti da tutte le
sezioni di tesoreria. In un primo tempo, lo sbilancio del conto a debito
del Tesoro fu fissato, in cifra fissa, nell’ammontare massimo di 50
miliardi di lire; successivamente (D.lgs. 544/48) la misura massima di
indebitamento venne rapportata al 15 per cento del complessivo importo
degli originari stati di previsione della spesa approvata dal Parlamento
e delle successive variazioni di bilancio. In seguito, la L.
13/12/1964, n. 1333, in relazione alla mutata classificazione delle
spese, ridusse tale percentuale al 14 per cento. I provvedimenti del
1948 prevedevano che ogni qual volta dalla situazione mensile della
Banca d’Italia risultasse uno sbilancio a debito del Tesoro superiore al
limite prestabilito la Banca stessa ne desse comunicazione immediata al
Ministro del Tesoro per gli opportuni provvedimenti. Qualora
l’indebitamento al Tesoro non fosse rientrato nei limiti di legge entro
20 giorni dalla suddetta comunicazione, la Banca d’Italia non doveva
dare corso a ulteriori pagamenti di tesoreria fino a quando, a seguito
di introiti o versamenti fatti dallo stesso Tesoro, lo sbilancio del
conto corrente non fosse rientrato nel limite. Il meccanismo non mirava
in teoria a facilitare il finanziamento della Banca d’Italia al Tesoro,
ma solo ad assicurare a quest’ultimo una elasticità di cassa, attraverso
la creazione di uno strumento di carattere temporaneo come una linea di
credito e che non costituisse un vero e proprio finanziamento.
In pratica, come ricorda l’attuale Presidente della Bce, Mario Draghi,
il Tesoro aveva la possibilità di “attingere a un’apertura di credito
di conto corrente presso la Banca per il 14 per cento delle spese
iscritte in bilancio” (Fonte: L’autonomia
della politica monetaria. Una riflessione a trent’anni dalla lettera
del Ministro Andreatta al Governatore Ciampi che avviò il “divorzio” tra
il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, 2011, p. 2-3)
Ossia, “il
Tesoro poteva spendere sopra le proprie entrate utilizzando un ‘diritto
di scoperto’ sul conto accentrato presso l’Istituto di emissione;
diritto consentito fino al 14 per cento della spesa di bilancio” (Fonte: L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo negli anni Ottanta: cause interne e internazionali di Maria Luisa Marinelli, 2011, p. 148)
Il
Tesoro quindi poteva cioè finanziare tramite la Banca d’Italia le spese
iscritte nel suo bilancio preventivo (quindi non ancora materialmente
effettuate) per un ammontare pari al 14 per cento del loro totale.
Facciamo un esempio per capire meglio: supponiamo che il Tesoro
decidesse di effettuare una spesa per un ammontare totale di 100,
iscrivendo questa spesa nel suo bilancio preventivo, la Banca d’Italia a
quel punto avrebbe dovuto garantire al Tesoro uno scoperto di conto
pari a 14.
Il
secondo canale di finanziamento del Tesoro presso la Banca d’Italia fu
introdotto con la riforma del mercato dei Bot (Buoni ordinari del
Tesoro) del 1975. A partire da quella data, come ricorda il solito
Draghi, la Banca d’Italia si era “impegnata
ad acquistare alle aste tutti i titoli non collocati presso il
pubblico, finanziando quindi gli ampi disavanzi del Tesoro con emissione
di base monetaria”.
Anche Draghi, dunque, conferma quello che ci ha già detto Andreatta: la
Banca d’Italia si impegnava a “garantire in asta il collocamento
integrale dei titoli offerti dal primo” (Fonte).
E questo era un fatto di enorme importanza per il Tesoro, dal momento
che “gli interventi della Banca centrale alle aste dei titoli servivano a
mantenere il tasso d’interesse a un livello stabilito, compatibile con
l’esigenza del Tesoro di finanziarsi relativamente a buon mercato: semplicemente
se il mercato non voleva i titoli al tasso stabilito dal Tesoro, la
Banca d’Italia li acquistava, immettendo così moneta fresca nel sistema.
Il Tesoro, certo, le pagava interessi, ma la Banca d’Italia poi glieli
restituiva, e quindi per il Tesoro questo era debito a costo zero,
equivalente al finanziamento di una parte del fabbisogno con moneta, la
cosiddetta ‘base monetaria creata dal canale del tesoro’” (Il Tramonto dell’Euro di Alberto Bagnai, 2012, p. 184).
Facciamo
un esempio: il Tesoro decide di offrire al mercato l’equivalente di 100
in titoli di Stato a un tasso d’interesse fissato del 3 per cento
(faccio notare che il tasso veniva fissato dal Tesoro stesso, non dal
mercato come avviene oggi). Ipotizziamo adesso che il mercato avesse
deciso di acquistare solamente 80 di questi titoli. Cosa sarebbe
successo a questo punto? Si sarebbe scatenato il panico perché non ci
sarebbero stati sono i soldi per finanziare la spesa per scuole,
ospedali, infrastrutture? Niente affatto. A quel punto la Banca d’Italia
sarebbe intervenuta, acquistando gli altri titoli, equivalenti a un
controvalore di 20. “E la Banca d’Italia – si chiederà qualcuno – dove
prendeva questi soldi?”. Semplice: li creava dal nulla, trasferendoli
poi sul conto corrente detenuto dal Tesoro presso di essa. Come
conseguenza la Banca avrebbe poi registrato i titoli acquistati alla
voce attivi sul suo bilancio e l’incremento equivalente operato sul
conto del Tesoro fra i passivi. A questo punto, il Tesoro avrebbe potuto
tranquillamente spendere quel denaro, che indovinate un po’ a chi
finiva? Ai privati. Sotto forma di reddito diretto (lo stipendio di un
impiegato comunale, di un insegnate, di un medico…) o di reddito da
interesse percepito dai detentori dei titoli del debito pubblico
(parleremo della differenza nella distribuzione di questa spesa).
“Sì,
ma in questo modo – si potrebbe obiettare – il Tesoro non si sarebbe
indebitato con la Banca d’Italia?”. La risposta è no, dal momento che la
vendita di titoli da parte del Tesoro alla propria Banca Centrale, a
differenza di quanto erroneamente pensano in molti (ogni riferimento ai
signoraggisti è puramente voluto), non costituisce affatto un
indebitamento reale verso essa. Come spiega l’economista francese Alain Parguez, infatti, tale procedura costituisce una semplice operazione contabile “fittizia”: “la
quota di disavanzo che non è assorbita dalla vendita di obbligazioni
[presso il mercato, nda] viene assorbita dalla vendita fittizia di tali
obbligazioni alla Banca Centrale. Si tratta della cosiddetta componente
‘monetaria’ del vincolo di bilancio” (Parguez A., The Tragedy of Disciplinary Fiscal Economics or Back to the Ancien Régime, 29th Annual Conference of the Eastern Economic Association, New York, 2003)
Tesoro
e Banca d’Italia agiscono, in questo caso, di concerto, ma è il primo a
indirizzare l’operato della seconda, stabilendo l’ammontare della
spesa, la quantità di titoli da emettere e il tasso d’interesse al quale
offrire quei titoli. In quest’ottica, dice sempre Parguez, bisogna
considerare “l’esistenza
della Banca Centrale come ramo bancario dello Stato. Nel bilancio della
Banca Centrale, la controparte del deficit [pubblico, nda] si traduce
nell’accumulo sul lato delle attività di titoli del debito pubblico ad
un tasso di rendimento fissato dal Tesoro. In questo caso il debito
pubblico non è altro che un debito che lo Stato ha con sé stesso” (Parguez A., The true rules of a good management of public finance, mimeo, 2010).
E
anche Luigi Spaventa, per citare un noto ed eminente economista
italiano, riconosceva candidamente questo fatto già nel lontano 1984.
Leggete cosa scriveva: “lo stock di base monetaria creata tramite il canale del Tesoro può essere considerato un debito solo convenzionalmente. Ciò si vede bene qualora
si consolidi il Tesoro con la Banca Centrale: in questo caso manca un
vero e proprio debito corrispondente alla base monetaria creata dalla
Banca d’Italia per conto del Tesoro, e in ciò consiste l’essenza del potere del signoraggio” (Spaventa L., La crescita del debito pubblico in Italia: evoluzione, prospettive e problemi di politica economica, Moneta e Credito, Volume n. 37 , Fascicolo n. 147, 1984).
Il
punto fondamentale da capire è che anche governi che dispongono della
piena sovranità monetaria tendono a creare assetti istituzionali che
(operativamente parlando) separano l’azione svolta dal Tesoro e dalla
Banca Centrale (i motivi possono essere molteplici e sicuramente il
principale è l’incomprensione di fondo di come funzionano i sistemi
monetari, oltre a un preciso orientamento ideologico di fondo contro lo
Stato e la sua inefficienza, la spesa pubblica…). Ma,
nella sostanza, questa divisione di ruolo non intacca il fatto che il
potere di emissione di monetaria, essendo emanazione del potere che
Parlamento e Governo esercitano in nome del popolo sovrano, sia nelle
mani del Tesoro. E l’Italia prima del divorzio ne era un esempio lampante.
Per
capirlo, vediamo passo dopo passo cosa avveniva durante il processo di
vendita di titoli di Stato da parte del Tesoro alla Banca d’Italia.
Dunque, ipotizziamo che la Banca d’Italia acquistasse dal Tesoro un
ammontare di titoli di Stato pari a 100. Questa sarebbe stata la
situazione nei rispettivi bilanci: la Banca d’Italia registra fra le
attività i titoli di Stato acquistati e fra le passività l’incremento
equivalente messo a disposizione sul conto corrente del Tesoro;
specularmente il Tesoro metterà al passivo i titoli di Stato venduti
alla propria Banca Centrale e all’attivo l’incremento equivalente del
suo conto. Ecco un’immagine per esemplificare il tutto:
Notate
subito una cosa: se consolidiamo i bilanci di Tesoro e Banca d’Italia
di fatto non esiste un indebitamento del Tesoro (come scriveva lo stesso
Spaventa), passività e attività si compensano a vicenda; ma, questa
semplice operazione contabile “fittizia” (Parguez) permette al Tesoro di
creare dal nulla i fondi necessari a finanziare la sua spesa.
Il
Tesoro dunque effettua la sua spesa: ipotizziamo che sia equivalente a
100 per costruire una scuola; paga le aziende incaricate di realizzare
l’opera accreditando i loro conti correnti detenuti presso le varie
banche private (per semplicità ipotizziamo che ci sia una sola banca
commerciale che rappresenta di fatto l’aggregato di tutte le banche
commerciali esistenti). Ecco la nuova situazione (vi consiglio di aprire
l’immagine in una nuova scheda, basta cliccarci sopra):
Andiamo
con ordine: il Tesoro ha effettuato la sua spesa e dunque il saldo del
suo conto corrente presso la Banca Centrale diventa zero; i soldi spesi
dal Tesoro sono finiti ad aziende e famiglie che hanno lavorato per
costruire la scuola, che (per ora) decidono di lasciarli in banca sotto
forma di depositi; la banca commerciale registra fra le passività il
denaro che famiglie e aziende detengono presso di essa, dal momento che
quelli sono soldi che la banca “deve” ai propri clienti; allo stesso
tempo, però, contemporaneamente all’aumento dei depositi la banca
commerciale vede crescere in egual misura anche le sue riserve detenute
presso la Banca Centrale (utilizzate per regolare i pagamenti con le
altre banche e per far fronte alla riserva obbligatoria).
Facciamo
un ulteriore passo avanti: ipotizziamo (realisticamente) che famiglie e
imprese non detengano tutte le loro attività sotto forma di depositi ma
che decidano di detenere una quota delle loro attività sotto forma dei
contanti (circolante), per esempio 10. In questo caso avremo una
variazione che coinvolge i bilanci della banca commerciale e della Banca
Centrale. Ecco come:
Adesso,
arriviamo a un punto cruciale (attenzione: capire questo significa
capire uno snodo importante del funzionamento delle operazioni
effettuate dalla Banca Centrale!): ipotizziamo che la Banca Centrale
imponga un obbligo di riserva alle banche commerciali pari al 10 per
cento dei loro depositi. Nel nostro esempio i depositi delle banche
commerciali ammontano complessivamente a 90, dunque le banche
commerciali saranno obbligate a detenere a riserva obbligatoria 9 di
questi 90. La domanda fondamentale a questo punto è: cosa faranno le
banche con le riserve in eccesso, quelle che non sono obbligate a
detenere presso la Banca Centrale, nel nostro caso 81? Le possibilità
sono solamente tre:
1)
Le banche commerciali possono mantenere le riserve in eccesso presso la
Banca Centrale e percepire un interesse piuttosto modesto su di esse
(oggi, per esempio, nell’Eurosistema questo tasso d’interesse, chiamato deposit facility, è pari a zero).
2)
Le banche che hanno un eccesso di riserve possono prestarle (sul
mercato interbancario) a quelle che hanno carenza di riserve e devono
far fronte alla riserva obbligatoria. Ma, come avviene nel nostro
esempio, se in aggregato le banche commerciali hanno un eccesso di
riserve significa che complessivamente una volta che tutte le banche
sono in grado di far fronte all’obbligo di riserva permarrà una
situazione di eccesso di liquidità; quindi le banche cercheranno di
piazzare queste riserve in eccesso in vista di guadagni maggiori. E qual
è la loro unica opzione?
3)
Nel momento in cui il rendimento dei titoli di Stato si colloca anche
leggermente al di sopra del tasso d’interesse percepito sulle riserve in
eccesso detenute presso la Banca Centrale e del tasso d’interesse
interbancario (quello al quale le banche si prestano denaro fra di
loro), è nell’interesse delle banche commerciali liberarsi di quelle
riserve in modo da ottenere un’attività sicura, facilmente scambiabile
ed estremamente liquida, con un rendimento maggiore. Ecco quindi che
esse saranno ben liete di acquistare dalla Banca Centrale i titoli di
Stato (sul perché la Banca decida di venderli parleremo in uno dei
prossimo post in cui vedremo come la Banca Centrale fissa il tasso
d’interesse di riferimento).
Ecco quindi la nuova situazione che si viene a creare:
Dunque, riepilogando, questa è tutta le sequenza che abbiamo visto:
1)
Il Tesoro emette dei titoli di Stato, li vende alla propria Banca
Centrale sul cosiddetto mercato primario (la Banca d’Italia fino al 1981
era obbligata ad acquistare tutti quelli non venduti in sede d’asta).
2)
Il Tesoro effettua così la propria spesa a favore dei privati
(costruzione di ospedali, scuole….) e accredita i conti correnti delle
aziende e famiglie incaricate di eseguire il lavoro.
3)
Il denaro così immesso nel circuito bancario crea un eccesso di riserve
bancarie rispetto agli obblighi di riserva. Le banche commerciali
avranno quindi tutto l’interesse ad acquistare sul mercato secondario i
titoli precedentemente acquistati dalla Banca d’Italia, dal momento che
essi garantiscono un tasso d’interesse maggiore di quello che le banche
otterrebbero lasciando le riserve in eccesso parcheggiate presso la
Banca Centrale.
Questo meccanismo (che io ho esemplificato) trova piena conferma empirica in un paper pubblicato nel 2012 dalla Banca d’Italia (Monetary policy and fiscal dominance in Italy from the early 1970s to the adoption of the euro: a review di Eugenio
Gaiotti e Alessandro Secchi) che a pagina 27 mostra l’ammontare netto
di titoli di Stato (cioè la differenza fra i titoli acquistati dalla
Banca Centrale e quelli ripagati dal Tesoro alla Banca stessa)
acquistati dalla Banca d’Italia sul mercato primario (in blu) e di
quelli scambiati sul mercato secondario da parte della Banca d’Italia
con le banche commerciali (in grigio).
Come scrivono gli autori: “la figura conferma che gli acquisti di titoli di Stato (al netto, nda) sul
mercato primario da parte della Banca d’Italia sono
progressivamente aumentati durante gli anni settanta, raggiungendo il
picco nel 1981, poi si sono rapidamente ridotti dopo il “divorzio” (cioè
da quando la Banca d’Italia non era più costretta a garantire in asta
il collocamento integrale dei titoli emessi dal Tesoro, ma poteva
intervenire in via facoltativa, nda),
sebbene siano rimasti positivi per il resto del decennio. [...] Negli
anni novanta, dal momento che gli acquisti lordi sul mercato primario
scesero a zero, il canale Tesoro distruggeva liquidità per un’ammontare
pari ai titoli in scadenza detenuti in portafoglio dalla Banca d’Italia,
mentre le operazioni sul mercato aperto creavano liquidità per fini di
controllo monetario”.
In
sostanza il grafico ci dice che nel momento in cui i titoli detenuti
dalla Banca d’Italia giungevano a maturazione il Tesoro emetteva altri
titoli, per un ammontare maggiore di quelli a scadenza e li vendeva alla
Banca d’Italia. In sostanza il debito veniva ripagato emettendo altro
debito che veniva venduto alla Banca d’Italia (ricordiamo
che si tratta di una vendita “fittizia”, Parguez) e questo per tutti
gli anni settanta e ottanta. Poi, con l’entrata in vigore il primo
novembre 1993 del Tratto di Maastricht, viene vietata la “concessione di
scoperti di conto o qualsiasi altra facilitazione creditizia, da parte
della Banca centrale europea o da parte delle Banche centrali degli
Stati membri [..] a istituzioni o organi della Comunità, alle
amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti
pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche
degli Stati membri, così
come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte
della Banca centrale europea o delle Banche centrali nazionali”. Il Trattato, inoltre, sancisce anche l’abolizione del Conto corrente di Tesoreria.
Come
conferma il professore della Bocconi Luca Fantacci: “Nessuno stato è in
grado di ripagare i propri debiti. D’altro canto, gli stati non sono
nemmeno tenuti a ripagare i loro debiti. I
debiti degli stati, da quando hanno preso la forma di titoli
negoziabili sul mercato, ossia da poco più di trecent’anni, non sono più
fatti per essere ripagati, bensì per essere continuamente rinnovati e
per circolare indefinitamente. I titoli di stato sono emessi, sono
acquistati e rivenduti ripetutamente sul mercato e, quando giungono a
scadenza, sono rimborsati con i proventi dell’emissione di nuovi titoli” (fonte).
Quindi,
fino al 1981 il Tesoro aveva la possibilità di finanziare la propria
spesa utilizzando (oltre alla vendita di titoli presso privati) denaro
fresco, creato dal nulla dalla Banca d’Italia tramite l’acquisto
“fittizio” di titoli emessi dal Tesoro; questo denaro veniva immesso
all’interno del settore privato (famiglie e aziende) all’atto della
spesa pubblica. In pratica, a livello operativo, la Banca d’Italia
“consentiva” semplicemente al Tesoro di monetizzare il proprio
disavanzo.
Capite bene che, in un contesto di questo tipo, il
potere monetario non era affatto indipendente e sovraordinato agli
altri; al contrario, il suo controllo era ben saldo nelle mani del
Tesoro,
che a sua volta rispondeva al governo, al parlamento e al controllo
della magistratura. In altre parole, il suo esercizio avveniva,
nonostante tutti i limiti che potesse avere (la corruzione, la casta, i
favori al cugino, le ostriche e lo champagne), all’interno del circuito
democratico.
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