Riflessioni sull’amnistia, intervista di Giulio Petrilli a Paolo Persichetti
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Caro
Paolo, penso tu abbia letto la mia lettera nella quale sollevo il tema
della liberazione degli ultimi detenuti e detenute della storia della
lotta armata in Italia! Ormai alcuni di loro hanno quasi raggiunto i
quaranta anni di detenzione!
Sì ho letto! In effetti Nicolò De Maria è
prigioniero dal 1980, sta entrando nel suo trentottesimo anno di
detenzione; Mario Moretti è in esecuzione pena dal 1981, Susanna Berardi
e Cesare Di Lenardo dal 1982, e poi via via vengono tutti gli altri. Se
quelli incarcerati per gli episodi del 1999 e del 2002 sono rinchiusi
già da una quindicina di anni, trascorsi per tre di loro in 41 bis,
tutti gli altri hanno alle spalle un periodo di detenzione che raggiunge
o supera i trenta anni effettivi. E non sono i soli, perché molti di
quelli che in questi ultimi anni sono riusciti ad avere un fine pena,
hanno terminato la loro detenzione dopo aver superato ampiamente i 30
anni di prigionia. A questi vanno aggiunti gli esiliati, ormai da più
decenni. Vorrei poi attirare l’attenzione su una circostanza mai
sufficientemente sottolineata: alcuni di questi prigionieri ancora
rinchiusi al momento del loro arresto hanno subito torture. Per uno di
loro, Cesare Di Lenardo, il fatto è stato riconosciuto dalla
magistratura. Oggi sappiamo che diverse decine di persone arrestate per
banda armata vennero torturate, per quanto ne so, oltre a Di Lenardo,
tra chi è ancora detenuto ci sono due persone che subirono il
“trattamento”. Vi è un’ampia letteratura clinica che spiega come il
misconoscimento della tortura e la mancata cura dei suoi effetti nella
psiche produca sofferenze e inevitabili conseguenze sulla personalità di
chi le ha subite, inquadrate in quelle che vengono definite sindromi da
stress post-traumatico. Già questa semplice situazione imporrebbe la
necessità di una loro immediata scarcerazione.
Credo siano gli unici prigionieri politici ancora detenuti in Europa?
Se ti riferisci alle insorgenze sociali e
lotte armate di sinistra che si svilupparono a partire dagli anni 70,
certamente sì. Fatta eccezione per il caso di Georges Ibrahim Abdallah,
membro delle Farl libanesi, detenuto in Francia anche lui da oltre
trent’anni, non ci sono più detenuti politici dell’epoca. La Germania ha
chiuso il capitolo carcerario della Raf e così la Francia con Action
Directe. Blair con un’amnistia ha messo fine anche alla guerra civile
irlandese ed in Spagna, dove l’Eta ha deposto le armi da poco,
paradossalmente non mi risulta che si siano mai raggiunte le nostre
vette detentive. E’ passato talmente tanto tempo che nel frattempo nelle
carceri sono comparsi un nuovo tipo di detenuti politici: se mettiamo
da parte quelli di fede islamista, la riscoperta del reato di
devastazione e saccheggio, risalente addirittura al vecchio codice
Zanardelli e travasato nel codice Rocco, ha condotto in carcere con pene
pesanti semplici partecipanti a manifestazioni di piazza; ad essi si
sono aggiunti militanti di fede anarchico-insurrezionalista, il più
delle volte rastrellati ricorrendo all’imputazione associativa. Ma non
vorrei dimenticare anche un altro tipo di raffronto, secondo me molto
significativo.
Quale?
Con il nostro passato recente, mi
riferisco alle radici della storia repubblicana. Dopo solo cinque anni
dalla fondazione della Repubblica con un’amnistia-indulto vennero
scarcerati tutti i prigionieri fascisti che si erano macchiati di
crimini durante la guerra civile. Gli errori contenuti in quel
dispositivo che avvantaggiò gli ex repubblichini a scapito dei
combattenti della Resistenza furono sanati nel corso degli anni
successivi con ripetute amnistie e provvedimenti di grazia
presidenziale. Togliatti allora Guardasigilli, con una scelta
premonitrice di quella che sarà la politica del Pci negli ani 70, aveva
lasciato alla magistratura il compito di qualificare la natura politica
dei reati da amnistiare e indultare. La magistratura inevitabilmente
interpretò l’amnistia in chiave antipartigiana. L’ultimo provvedimento
di clemenza riguardò la grazia concessa nel 1965 da Giuseppe Saragat a
Francesco Moranino, riparato per alcuni decenni in Cecoslovacchia. Venti
anni dopo la fine della guerra civile, gli strascichi penali della
guerra partigiana si chiudevano definitivamente. Il prossimo anno invece
si celebrerà il quarantennale del sequestro Moro e saremo a quasi 50
anni dalla nascita della lotta armata. Mezzo secolo è un periodo immenso
che dovrebbe consentire di guardare agli anni delle grandi lotte
sociali che giunsero anche alle armi come un oggetto di storia, di
disputa storica. Se ciò non avviene è perché quella materia porta con sé
dei significati che non rendono tranquilli i poteri costituiti e li
obbligherebbero a scomodi bilanci. Accade così che quel periodo è ancora
strumento di speculazione politica, sempre più becera, come dimostra la
presenza di una ennesima commissione parlamentare d’inchiesta che si
sta distinguendo per strumentalità, mistificazione e torsione dei fatti
al servizio delle vulgate dietrologiche di ultima generazione.
Descrivi
una situazione inaccettabile. Non pensi si debba fare qualcosa? Insieme
a Oreste Scalzone ed altre/i siete sempre stati attenti alla
liberazione di tutti. Sempre capaci di far vivere un tema, quello della
libertà per tutti, senza logiche di schieramenti, di storie pregresse,
di settarismi! Veramente una battaglia di libertà, ma poi anche voi vi
siete fermati! Non credi sia venuto il momento di rilanciare insieme
questa battaglia?
La battaglia per l’amnistia non ha avuto
successo. Appartengo ad una scuola politica che degli insuccessi non ha
paura ma sa prenderne atto. Ciò detto, per quanto mi riguarda non ho mai
smesso di pensare a questo problema. Ho terminato la mia condanna solo
tre anni fa, durante la semilibertà ho lavorato nella redazione di un
quotidiano dove non ho perso occasione per affrontare il tema generale
delle carceri e quello specifico della prigionia politica, dell’esilio,
del 41 bis. Insomma, quando ho potuto, ho sempre cercato di tenere vivo
l’argomento, al tempo stesso bisogna essere molto franchi e sapersi
misurare con la realtà: sulla praticabilità attuale di una battaglia per
l’amnistia sono molto perplesso. Certo, posso sbagliarmi, anzi questo è
uno di quei casi dove sarei ben contento di essere smentito, ma non mi
sembra proprio che esistano le condizioni oggettive e soggettive per
avviare un percorso del genere. Come scriveva Victor Hugo, «amnistia» è
una delle parole più belle, non vorrei che andasse sperperata, al di là
delle buone intenzioni, per petizioni di principio o di bandiera. Non ho
mai visto evasione più grande di un’amnistia. Vorrei che continuasse ad
essere questo, un fatto reale, non un tema d’agitazione.
Per
me rilanciare questa battaglia è un problema di pelle! Dopo che all’età
di vent’anni hai attraversato tanti carceri speciali, non dimentichi
più! Poi t’accorgi che la lotta armata è finita da più decenni e allora
ti chiedi perché c’è ancora qualcuno dentro, come è possibile? Per me non è un tema d’agitazione ma rompere un silenzio decennale. Questi compagni non vanno dimenticati!
Capisco Giulio, ma la generosità non
basta, le battaglie devono avere delle prospettive. Quando la questione
dall’amnistia, o più in generale la questione della soluzione politica
iniziò ad imporsi nella seconda metà degli anni 80, all’ordine del
giorno c’era il superamento dell’emergenza giudiziaria. Dichiarato
chiuso il ciclo politico della lotta armata che aveva avuto inizio negli
anni 70 c’era l’idea, condivisa in diversi settori del ceto politico e
della società, che bisognasse mettere fine anche alla stagione della
legislazione speciale e ritornare ad una situazione di normalità
giuridica. Questo voleva dire eliminare quei surplus di pena, introdotti
con le leggi speciali, che erano stati inflitti nei maxi processi,
ripristinare criteri erga omnes, validi per tutti e per
ciascuno, mettendo fine alle pratiche differenziali e premiali istituite
con le leggi sui pentiti e i dissociati. L’emergenza mafia e lo tzunami
delle inchieste di “Mani pulite” che si abbatté sul sistema dei partiti
della prima Repubblica chiuse bruscamente questa fase di apertura. Una
nuova emergenza si sostituì alla prima e quei settori che nella fase
emergenziale precedente si erano costruiti influenza e potere ripresero
slancio. Quella funzione di supplenza che la magistratura si era vista
delegare dal sistema politico per combattere la lotta armata aveva
assunto sempre più autonomia. Le procure più forti arrivarono a
teorizzare e mettere in pratica la supremazia della sfera giudiziaria su
quella politica. Paradossalmente, in questa prima fase, si creò in un
pezzo di ceto politico che vedeva rivolgersi contro il mostro
emergenzialista a cui aveva dato vita la consapevolezza che forse lo
strumento amnistiale avrebbe ripristinato un più corretto equilibrio dei
poteri e delle sfere di competenza tipiche dei sistemi costituzionali
moderni.
In commissione giustizia della Camera venne votato l’indulto che riduceva di un terzo le pene e portava gli ergastoli a 21 anni.
Poi tutto finì lì. La partita volse in
favore degli imprenditori della nuova emergenza e di chi pensò, come
l’ex Pci, di forzare la situazione arrivando al potere tramite la
scorciatoia giudiziaria. Come andò a finire lo sappiamo: l’azione penale
fece da trampolino di lancio alla discesa in campo e alla
legittimazione elettorale e politica ultradecennale del Berlusconismo,
oltre ad alimentare successive e ripetute ondate giustizialiste. In
quella prima fase, la presenza ancora massiccia di prigionieri politici
nelle carceri speciali divenne d’intralcio. La lotta armata era finita e
le priorità repressive ormai erano altre, l’apparato penale e
penitenziario andava riorientato. Sepolta l’ipotesi amnistiale si
aprirono i rubinetti della Gozzini, senza tante complicazioni e senza
chiedere abiure si aprì la strada al lavoro esterno e alla semilibertà,
prima per piccoli gruppi e poi individualmente. I prigionieri soli e
divisi al loro interno hanno affrontato disuniti questa situazione. Quel
settore che aveva animato la battaglia per la soluzione politica e
l’amnistia accettò la Gozzini, pensando che ciò avrebbe agevolato la
possibilità di rinsaldare i rapporti con la società esterna, avere
maggiore agibilità politica e rilanciare quindi l’ipotesi amnistiale.
Una parte di quelli ostinatamente contrari all’amnistia poco più tardi
approdò alla Gozzini. Un piccolo gruppo rimase chiuso a riccio. La
situazione attuale non è altro che il sedimento residuale di quel che
accadde negli anni 90. Nel frattempo la società è profondamente mutata,
si è modificata l’antropologia sociale e politica del Paese, il
giustizialismo ha cancellato la priorità dei temi sociali a vantaggio
delle soluzioni penali, il populismo si è saldamente strutturato,
l’iperlibersimo ha maciullato difese e tutele sociali del mondo del
lavoro, è emersa la società del precariato, senza orizzonti emancipatori
il razzismo alligna come soluzione offerta dall’alto per innescare una
guerra tra poveri che non disturbi più i manovratori, il paradigma
berlusconiano del partito azienda si è imposto come modello di
riferimento, si è tornati a concezioni oligarchiche, plebiscitarie e
cesariste della politica incarnate di volta in volta da tutte le nuove
formazioni che si affacciano sulla scena, più sono nuove e più camuffano
questa realtà dietro la loro demagogia, siamo approdati a quella che il
filosofo Jacques Rancière ha per primo definito «democrazie senza
popolo». Dulcis in fundo, all’interno di tutto questo abbiamo
assistito alla fine di uno degli equivoci più grossi degli ultimi
decenni: la morte della sinistra politica. Oggi non vedo sponde che
potrebbero appoggiare un’amnistia.
Proviamo a fare da soli!
E’ il presupposto che nel 2013 ci ha
spinto a lanciare l’amnistia per le lotte sociali. Di fronte alla
massiccia ondata repressiva che si stava abbattendo sui movimenti che si
erano distinti negli ultimi anni, da Genova, ai No Tav, alla lotta per
la casa, alle condanne per devastazione e saccheggio durante le
manifestazioni di piazza. Disinnescare quell’ondata repressiva,
invertire la tendenza riaprendo le maglie dell’agibilità sociale, far
riapprendere quella grammatica che ha sempre nutrito la sintassi delle
lotte del movimento operaio: tutelare i cicli di lotta preservando la
libertà dei militanti colpiti in modo da immagazzinare esperienza e
sapere per quelli successivi. L’idea era quella di innescare un percorso
virtuoso, che facesse da volano per riaprire a quel punto anche il tema
della prigionia politica. L’iniziale accoglienza favorevole si è
arenata quando i movimenti che in primis dovevano prendere sulle proprie
spalle quella battaglia non hanno fatto nulla. Poi sono arrivate le
condanne, le misure di polizia, i daspo, i decreti penali, le firme, le
richieste di confino, quella gabbia di provvedimenti penali e
amministrativi che stanno imbrigliando l’azione politica dei movimenti
di lotta. Insomma il disastro attuale, l’accerchiamento politico, la
criminalizzazione con accuse di racket, la strategia di
depoliticizzazione di queste istanze sociali. Amnistia è una parola
stregata!
Perché?
Penso che oltre ad un evidente problema
d’analfabetismo politico e giuridico ci sia qualcosa di più profondo:
l’immagine delle kefieh e delle bandiere rosse venute ad applaudire il
pool guidato da Borelli davanti al tribunale di Milano negli anni
ruggenti di “Mani pulite” dovrebbe far riflettere sulla sostanziale
impreparazione e assenza di autonomia culturale di fronte ai temi del
diritto e della giustizia. Non capire che l’amnistia sia una leva che
può permettere di abbassare l’asticella della legalità, ovvero aumentare
la liceità delle azioni possibili, cioè delle lotte, è come credere che
il salario sia una mera concessione del padrone e non il risultato di
diversi fattori tra cui il rapporto di forza prodotto dalle lotte.
Insomma la strada è in salita.
Dal
bilancio che fai sembra di capire che i prigionieri politici rimasti
ancora in carcere hanno solo perso l’occasione per uscire?
La questione è più complessa, basti
pensare che anche Mario Moretti, che pure fu tra quelli che nel marzo
1987 promosse la battaglia di libertà per una soluzione amnistiale,
torna in carcere ogni sera a oltre settant’anni suonati. L’applicazione
della Gozzini è diventata più tormentata dopo il 2000, proprio per
quella sedimentazione del giustizialismo che accennavo in precedenza.
Nel momento in cui viene meno una soluzione collettiva, uguale per
tutti, i percorsi individuali sono soggetti a molteplici variabili e
perturbazioni, fasi politiche, culture dei singoli magistrati,
orientamenti dei diversi tribunali di sorveglianza che a parità di
reato, pena scontata e percorso, possono applicare criteri di
valutazioni diversi. Una specie di terno al lotto. Il vero nodo però è
stata la liberazione finale dei prigionieri, quando si è posto il
problema dell’ammissione alla liberazione condizionale degli
ergastolani. Quando i giudici hanno capito che ormai, dopo decenni, i
prigionieri erano arrivati alla soglia del fine pena sono stati
introdotti progressivamente criteri sempre più restrittivi. Anche qui la
solitudine dei prigionieri e la disunione non ha facilitato le cose ma
alla fine, nel complesso, si è costituita una giurisprudenza favorevole:
non premiale, non differenziale, che non chiede abiure. Sono state
fatte battaglie, sollevate questioni giuridiche. Certo bisogna avere lo
stomaco per affrontare in una sorta di corpo a corpo con i
professionisti della punizione che stanno lì a misurati la coscienza,
una sorta di judo. Tralascio la mia esperienza fatta dopo
l’estradizione, in anni molto difficili. Quando ripenso allo scontro
feroce che ho affrontato capisco quelli che non vogliono nemmeno
iniziarlo. Ma io avevo comunque un fine pena, anche se lungo, prima o
poi sarei uscito. Ciò detto, non va dimenticato, per esempio, che a
Prospero Gallinari, morto in esecuzione pena ai domiciliari per i noti
problemi cardiaci, non venne mai discussa la richiesta di liberazione
condizionale che aveva presentato.
Sì,
ma resta il nodo dei compagni ancora rinchiusi. Diversi obiettano che i
detenuti/e rimasti in carcere non sono interessati all’amnistia!
Se non sbaglio i conti, fatta eccezione
per due di loro, gli altri prigionieri hanno sempre mostrato
indifferenza o un’opinione negativa verso l’amnistia. Posto che ogni
posizione che mostra coerenza tra l’enunciato e il comportamento merita
rispetto, questa situazione mi sembra essere un altro importante
elemento di difficoltà che si aggiunge a quelli precedentemente citati.
Che posso dirti? Ognuno sceglie sulla base della propria etica
individuale, cultura, visione della politica, senso della propria
esistenza. C’è chi ritiene doveroso per la propria storia rivoluzionaria
cercare di non farla ammuffire in una cella e chi la pensa in altro
modo. Gli unici che in questa vicenda non hanno titolo sono quelli che
chiedono ad altri di sacrificarsi perché pensano che la rivoluzione
abbia bisogno di un pantheon di martiri. Per il resto sono convinto che
l’enormità degli anni di detenzione raggiunti costituisca un dato che
esorbita le opinioni individuali, è un qualcosa di abnorme di per sé.
Ciò detto resta difficile avviare una battaglia senza il consenso o il
ruolo attivo di chi dovrebbe usufruirne, anche se l’amnistia ha una
valenza politica che investe altri campi.
Puoi fare qualche esempio?
La legge Fornero sulle pensioni ha
stabilito al comma 2 che ai condannati per mafia e terrorismo che hanno
raggiunto l’età pensionabile e non abbiano un reddito sufficiente va
sospesa l’erogazione dell’assegno sociale (la vecchia pensione sociale),
o qualsiasi altra prestazione tipo la pensione di invalidità
(intaccando così il diritto alla salute), durante l’esecuzione pena.
Questa norma viola diversi articoli della costituzione ed estende lo
stato di eccezione dal campo giudiziario (penale e carcerario) a quello
amministrativo. Praticamente si istituzionalizza l’esistenza di una
categoria di persone minus habens, si stabilisce un criterio di
assegnazione tipologica delle prestazioni invece del vecchio criterio
censitario. Nonostante ciò, nessuno ad oggi ha ancora sollevato il
problema. Recentemente, dopo che l’Inps ha ricevuto dal ministero della
Giustizia la lista delle persone condannate, sono state sospese le
pensioni anche a chi aveva terminato la pena da diversi anni. Questo
perché il ministero si è guardato bene dal segnalare quelli che avevano
terminato nel frattempo di scontare le condanne, con un aggravio di
burocrazia sulle altre amministrazioni (gli uffici esecuzione dei
tribunali devo certificare il fine pena e l’Inps deve aprire delle
procedure del tutto inutili dovendo prima sospendere e poi riattivare
l’erogazione), mentre nel frattempo gli ex condannati restano senza quel
misero reddito. In tutto questo ci sono persone che si sono viste
comunque rifiutare l’erogazione dell’assegno nonostante avessero
certificato il fine pena, perché ritenuta «illegittima». Se consideriamo
che la conclusione della pena non mette fine nemmeno alle pene
accessorie, come l’interdizione dai pubblici uffici, la perdita del
diritto di voto attivo e passivo, sancendo in sostanza l’esclusione
dalla cittadinanza piena, ci rendiamo conto come, in realtà, non vi sia
mai stata nessuna conclusione vera di quella fase storica ma permangano
forme di sanzione ed esclusione perenni, alle quali solo una logica
amnistiale avrebbe potuto mettere fine.
Un ragione ulteriore per riaprirla questa battaglia!
Sì, ma il problema resta comunque. Per
quel che può contare la mia opinione, penso che sarebbe un bene se i
compagni incarcerati tornassero ad immergersi nella società attuale,
invece che farsela raccontare in qualche lettera, facendo il passo della
semilibertà. Quanto al che fare, bisogna agire secondo le priorità: la
prima è il 41 bis. Si tratta di tortura. Anche con la normativa attuale,
seppur restrittiva, esistono argomenti giuridici con cui motivare una
uscita dal 41 bis senza abiura o collaborazione. C’è poi la questione
dei prigionieri che hanno subito torture. Si può pensare ad una
battaglia sull’articolo 176 cp, che preveda la liberazione condizionale
in automatico per chi abbia raggiunto il trentesimo anno di detenzione
effettivo e si ripristini l’originaria dizione che non prevedeva il
«ravvedimento». L’amnistia richiede ancora la maggioranza qualificata a
differenza di una normale modifica legislativa. Ci vogliono delle leve,
anche piccole, da cui ripartire, poi…
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