Il
sistema politico tedesco è così efficiente che si sa il vincitore la
sera delle elezioni, quelle di quattro anni prima però. Nessuno infatti,
a parte inguaribili romantici socialdemocratici o ossessionati dalla
comunicazione politica, negli ultimi quattro anni ha mai messo veramente
in discussione la certezza della rielezione della Merkel al suo quarto
cancellierato.
La
prima analisi, la più semplice è: la Germania regge, è economicamente
forte, mantiene agli occhi di tutti la sua egemonia nel progetto UE, la
disoccupazione è ai minimi storici e lo stato sociale garantisce una
vita degna; perché dunque mai l’elettorato tedesco non avrebbe dovuto
riconfermare Angela per garantirsi altri quattro (e chissà quanti altri)
di sicurezze e crescita?
La
verità che esce dai dati, e che sarà oggetto di riflessioni per
l’immediato futuro, è però ben più complessa, e suggerisce che qualcosa
abbia smosso diverse sicurezze tedesche. Questo il quadro: la CDU-CSU in
“leggero” calo, dal 41,5% al 33, un tracollo di quasi 9 punti
percentuali che però non riesce a spostarla dal primo posto; l’SPD
guidato dall’uomo della “speranza” Martin Schulz, che secondo i
sopracitati romantici avrebbe rinvigorito tutta la socialdemocrazia
europea, fa il suo peggiore risultato di sempre (20,5%); l’ovviamente
preoccupante ascesa dell’Alternative fuer Deutschland (AfD) che è
riuscita a riunire tutti i vosti dell’estrema destra, e evidentemente di
molti disaffezionati della CDU, e portarle per la prima volta al 12,6%;
seguono i Liberali, la Linke e i Verdi.
Non
ci interessa ipotizzare quale tremenda coalizione verrà fuori da questa
elezione, quanto capire cosa se qualcosa sta cambiando dentro la
Germania, se è possibile che abbia effettoìi che si prolungheranno nel
tempo, e quali siano le conseguenze e le sfide per le classi
lavoratrici, sia tedesche che europee.
Sarà
utile e interessante spulciare i dati disaggregati per regione e status
sociale quando usciranno, ma possiamo iniziare a fare alcuni
ragionamenti.
La
vittoria dell’AfD è l’evidente conseguenza dell’indebolimento della
CDU. Su cosa ha perso consenso (9 punti!) la Cancelliera? La questione
più evidente è quella dei migranti. La politica della Merkel, che è
stata applaudita da tutti come “umanitaria” e “responsabile”, sappiamo
bene essere stata uno strumento per garantire agli industriali
manodopera qualificata a basso costo, con la selezione accurata di
professionisti siriani filtrati dal rubinetto dell’accordo con la
Turchia.
L’AfD è riuscita a conquistare voti proprio sull’odio provocato da questa non dichiarata competizione. Quale competizione?
Qualche verità incomincia a emergere dal velo di perfezionismo che copre la Germania. Solo pochi giorni fa riportavamo un articolo da vocidallestero
che presentava una situazione tutt’altro che idilliaca per i lavoratori
non qualificati, la cui vita è completamente controllata dagli uffici
di collocamento: i quali
ti obbligano ad accettare lavori dequalificanti e spesso umilianti,
pena la revoca di tutti i benefici, condannandoti a una spirale di
occupazioni temporanee a bassissima produttività (e salario) da cui non è possibile uscire.
Anche in Germania, dunque, l’immigrazione sta diventando il capro espiatorio di classi subalterne che non riescono a capire perché sono sempre più povere mentre tutti dicono che il loro paese è sempre più ricco.
Per
comprendere meglio questo pericoloso sfogo dobbiamo però tornare al
2009, quando una pesante campagna denigratoria finanziata dalla
Bundesbank e dalla Confindustria, con il supporto di buona parte del
sistema mediatico, si abbatteva contro il popolo greco, colpevole di
“star rubando i soldi dei contribuenti tedeschi”, obbligati
“forzosamente” a coprirne i debiti. La verità era ben diversa: il
governo tedesco, dopo avere salvato nel 2008 le sue banche con almeno
100 miliardi
di euro (dei contribuenti tedeschi), si apprestava a garantire i
crediti che queste avevano nei confronti delle banche greche: un doppio
salvataggio, grossomodo, pagato sempre dalle tasse dei lavoratori (e in
seguito dal sangue dei Greci).
Così
come nel 2009 il carrozzone Bundesbank-Confindustria-CDU era riuscito a
scaricare sul popolo greco la responsabilità di centinaia di miliardi
spostati dalle tasche dei lavoratori (e professionisti, picole imprese, ecc) alle
banche, allo stesso modo oggi AfD sta scaricando sui migranti le
responsabilità dell’impoverimento delle fasce popolari causato dai
governi di Grande Coalizione e dai terribili patti fra Confindustria e
sindacati. In questo senso l’humus culturale in cui è cresciuta il
neonazismo dell’AfD – la colpevolizzazione dello straniero – è proprio
quello costruito nel tempo dalle stesse istituzioni “liberali”. Il copione è lo stesso recitato
nei paesi del Mediterraneo: alimentare la guerra fra poveri per
distrarre qualunque possibilità di conflitto sociale verso i veri nemici
di classe, il capitale con dimensioni multinazionali (forma societaria in cui “i padroni” sono stati quasi ovunque soppiantati dai manager).
Evidentemente
il nemico numero uno rimane la famosa “riforma Hartz”, modello di
riferimento per tutte le deregolamentazioni del lavoro in Europa, a cui
la sinistra tedesca ha dato a lungo un avallo sostanziale, dopo averla
varata in prima persona, quando guidava il governo di Berlino con
Gerhard Schroeder. Schulz aveva provato ad abbozzare una timida critica,
per poi finire la campagna elettorale a braccetto dell’ex cancelliere
Schroeder quando aveva visto che, nell’SPD, non era aria.
I
sindacati (a partire dalka potente IGM) hanno avuto come contropartita
la comoda posizione di gestire i “consigli di fabbrica” (ovvero la
contrattazione a livello aziendale che garantisce la moderazione
salariale) e più volte hanno ribadito la loro aperta ostilità a
mobilitare i lavoratori per ragioni “politiche” (in realtà per qualsiasi
ragione non strettamente aziendale).
Rimane
la Linke, che si presentava con un programma di aperta rottura, con
proposte a favore del lavoro e dello stato sociale, e da cui tutti si
aspettavano un exploit ma che ha guadagnato pochissimi voti, rimanendo
in quinta posizione; pagando così in buona parte la sua scarsa efficacia nelle varie regioni in cui era al governo, ma anche il non aver saputo dare una risposta convincente al problema della globalizzazione, di cui anche i lavoratori tedeschi incominciano ora a sentirsi vittime. Non è riuscita cioè a dare credibilità alle proprie proposte – sulla carta abbastanza interessanti – inserendole in un contesto generale di opposizione allo statu quo, facendole dunque apparire come parole vuote senza nessuna reale possibilità di essere applicate, senza riuscire a indicare chi e cosa bisogna combattere per riuscire ad affermarle.
Peggio ancora, la Linke si è infilata in un gioco pericoloso proprio sulla questione migranti, con la leader Wagenknecht più volte criticata per le sue dichiarazioni considerate apertamente razziste, concedendo in chiave tattica molto terreno alle posizioni proprio dell’AfD.
Tattica che evidentemente ha giovato molto di più alla destra, cosa che
dovrebbe incominciare a preoccupare la nostrana “sinistra
dell’immigrazione controllata”. Non è riuscita cioè a indicare il nemico
di classe, o peggio, ha indicato quello sbagliato.
Qui
sta il punto su cui richiamiamo l’attenzione, anche a costo di sembrare
ripetitivi, dato che la globalizzazione – per i popoli europei – ha una
forma istituzionale ben precisa: quella dell’Unione Europea.
Se infatti lo sfruttamento dei lavoratori tedeschi, elegantemente chiamato competitività o dumping salariale,
ha garantito alla Germania (ovvero alla sua classe capitalista) la sua
posizione egemonica nella UE grazie a un’economia votata all’export e al
ridisegno della divisione del lavoro europea intorno alle proprie
filiere produttive, dobbiamo anche tener conto che – senza la
possibilità per la Germania di approfittare di una moneta
artificialmente svalutata e di un mercato allargato da cui comprare
semilavorati a basso costo per poi rivendere merci complete ad alto
valore aggiunto – il modello neomercantilista (alti profitti garantiti
dall’export a sua volta garantito da bassi salari) riceverebbe un duro
colpo.
Un’analisi
di classe deve dunque affrontare seriamente il seguente dilemma: la
rottura della UE significherebbe davvero, come alcuni ancora temono, un
“arretramento delle posizioni internazionaliste”, o al contrario – dato
che la struttura che garantisce lo sfruttamento dei paesi del centro su
quelli della periferia è esattamente la stessa che garantisce lo
sfruttamento di una classe sull’altra – la lotta contro l’Unione,
condotta anche in ogni singolo paese, se proprio non si riesce a farla
in modo coordinato, non sia in realtà la lotta di e per tutta la classe
lavoratrice europea.
Fonti.
https://www.jacobinmag.com/2017/05/die-linke-germany-afd-migrants-xenophobia-racism
https://www.jacobinmag.com/2017/03/die-linke-germany-immigration-sahra-wagenknecht-oscar-lafontaine-afd-merkel/
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