“Non si può avere investito risorse e assunto 100mila persone e avere tutto il mondo della scuola contro: evidentemente qualcosa dobbiamo aver sbagliato. Io penso che una delle ragioni è che quando si vogliono fare cambiamenti, bisogna coinvolgere gli interlocutori con un confronto vero sugli obiettivi e sulla qualità della proposta. Nel momento in cui tu condividi l’obiettivo è molto più facile trovare i punti di sintesi”; così Valeria Fedeli pochissimi giorni fa.
micromega MARINA BOSCAINO
L’apparente
ragionevolezza dell’affermazione è coerente con una serie di analoghe
ammissioni fatte da Matteo Renzi e i suoi sodali: la campagna elettorale
incalza e il disamore degli insegnanti per il Pd è stato palpabile in
diverse occasioni, attraverso il voto e non.
Con un po’ di pazienza – soprattutto da
parte di chi leggerà questo testo – proverò a spiegare a Valeria Fedeli
cosa è che non è andato; puntualizzando preventivamente che le
assunzioni sono state frutto – obtorto collo – non di una politica
lungimirante di rafforzamento della scuola pubblica, ma di un diktat europeo;
un atto dovuto che, in seguito ad una sentenza del Tribunale di
Giustizia, nel novembre del 2014, ingiunse all’Italia l’assunzione di
tutti i precari che avessero 36 mesi di insegnamento.
Nel luglio del 2014 il neo insediato
governo Renzi tiene fede (non c’è che dire) alla promessa fatta dal
presidente del Consiglio nel discorso di presentazione al Senato:
metterò mano alla scuola. Detto fatto: il sottosegretario Reggi
(peraltro riciclato, in seguito, al ministero dei Lavori Pubblici) tra
le altre cose ripropone la “formula Profumo” (24 ore a parità di salario); la pronta mobilitazione dei docenti sotto il solleone estivo sventa il pericolo.
Passa poco più di un mese (sic!) e il governo (ghost writers Luccisano, capo della segreteria tecnica, e Fusacchia,
capo gabinetto) pubblica il 3 settembre – dopo l’annuncio in agosto di
una riforma (tanto per cambiare) “epocale” (come è di tutta evidenza
pensata e elaborata in meno di un mese) – uno sciatto documento in pdf,
“La Buona Scuola”, infarcito, oltre che di imperdonabili refusi, di
rutilanti anglicismi di matrice economico-bancaria.
Coerentemente con le parate demagogiche e
il plauso di media acritici, si annuncia a gran voce l'"ascolto": sulla
pagina web la Buona Scuola si gestisce – rinviandolo a siti
istituzionali e testate compiacenti – un sondaggio online, su cui
saranno chiamati ad esprimersi tutti – ma proprio tutti! – per attestare
il proprio indice di gradimento alla proposta contenuta nel pdf. Alla
conclusione della "consultazione", accompagnata da grandi convegni e
campagne mediatiche, risulteranno aver avuto accesso al sito 65mila
persone; quali siano stati i loro autentici giudizi sulla proposta non è
mai stato dato sapere. Una cifra decisamente deludente, considerando
che quell’anno erano indicati in organico di fatto 728 mila docenti e
101 mila insegnanti di sostegno; 2.580.007 erano gli studenti della
secondaria di secondo grado, quelli probabilmente in grado di esprimersi
in merito; ma, complessivamente, era di 7.878.661 il totale degli
studenti italiani, cui corrispondeva un numero più o meno doppio di
genitori (dati: "La Scuola in cifre 2013-14", Servizio Statistico Miur):
una potenziale platea, insomma, di oltre 10 milioni di persone.
In febbraio (forti delle acclamazioni e
del consenso, sic!) il contenuto del pdf viene trasformato in disegno di
legge, discusso in modo rocambolesco nelle commissioni parlamentari,
che adottano tutte le possibili scorciatoie; il 24 aprile del 2015
alcuni sindacati di base danno vita ad uno sciopero della scuola molto
partecipato; e il 5 maggio la maggior parte del mondo sindacale, dai
confederali ai sindacati di base, indice lo sciopero che si rivelerà il
più partecipato della storia della scuola repubblicana.
Nonostante ciò e nonostante una
mobilitazione permanente che continua dopo la chiusura delle attività
didattiche e durante la celebrazione dell'esame di Stato (le strade di
Roma intorno ai palazzi delle istituzioni sono quasi quotidianamente
assediate), il governo chiede la fiducia in Senato, dopo il voto alla
Camera. La Buona Scuola diventa legge e il presidente Mattarella vi
appone la firma il 13 luglio 2015.
Per cosa protestavamo? La Buona Scuola ha
portato alle estreme conseguenze le premesse dell'autonomia scolastica
subordinata alla prospettiva e alla cultura aziendalistiche e dei suoi
corollari:
- la dirigenza scolastica ha amplificato
le proprie funzioni manageriali e accentrato sotto di sé una serie di
prerogative, anche sottraendole agli organi collegiali: il dirigente
recluta, valuta i docenti, dà l'indirizzo al collegio dei docenti,
sostituisce qualunque residuo di funzione pedagogica con l'indefessa
mansione di procacciatore di opportunità per una scuola la cui funzione
centrale non è più la creazione di cittadini consapevoli che, attraverso
il pluralismo delle idee e delle metodologie didattiche e il pensiero
critico analitico maturino condizioni favorevoli alla propria libertà di
partecipazione attiva; presiede il Comitato di Valutazione, che si
configura come uno strumento di aggressione intenzionale al principio
della libertà dell’insegnamento. Che non è un residuale privilegio di
maestri e professori, ma un principio inserito dai Costituenti dopo la
fine politica e la condanna morale del regime fascista a tutela
dell’interesse generale, per garantire i giovani cittadini della
Repubblica (e pertanto a tutti i cittadini) contro ogni forma di
pensiero unico e di indirizzo culturale autoritario, con il conseguente
obbligo per ciascuna scuola di essere un’istituzione democratica, laica,
pluralista, inclusiva.
- La 107 ha ribadito invece,
istituzionalizzandoli, i princìpi della competizione: si perfeziona un
modello di dirigenza scolastica che via via ha sempre più burocratizzato
la scuola, sottraendole democrazia e libertà di insegnamento, strumenti
di tutela per la collettività nazionale, configurandola come qualsiasi
ambiente di lavoro privato, dove sopravvive e vince chi è omologato,
silente, esecutore acritico; ha immobilizzato una logica gerarchica in
cui, al criterio della collegialità si sostituisce il mito del
decisionismo gestito da uno staff dipendente e selezionato dal dirigente
(un modello non difforme da quello ipotizzato dalle riforma
costituzionale sconfitta con il voto del 4 dicembre).
- La 107 ha postulato il taglio di sapere
e conoscenze, surclassati ora dalla prevalenza dell’“invalsizzazione”
degli apprendimenti sul pensiero critico analitico, dalla vittoria delle
competenze e delle più amene, scontate e acritiche sottomissioni a
caricaturali pillole di pensiero pedagogico di matrice anglosassone; ora
dall’avviamento precoce al lavoro decontrattualizzato, demansionato,
deregolamentato per gli studenti attraverso l’alternanza scuola lavoro,
volta a una formazione di manovalanza inconsapevole dei propri diritti e
quindi più propensa ad essere sfruttata.
- La legge 107 ha poi inserito nella
scuola la logica perversa del Jobs Act, quella che consente all’Istat di
segnalare un copioso aumento degli occupati, una parte consistente dei
quali ha lavorato anche solo un’ora a settimana: demansionamento dei
docenti neo assunti, assegnati alle scuole nonostante l’incompatibilità
della propria classe di concorso con l’indirizzo dell’istituto e quindi
impegnati prevalentemente in funzione di tappabuchi; precarizzazione di
tutti i docenti, la cui permanenza nell’istituto di servizio è pressoché
obbligatoria, considerate le norme che regolano la mobilità.
- La 107 ha reso norma l’infatuazione per
una modernità ottusa e marcescente, demagogica e orba, che imbottisce
le scuole di LIM e di altri totem tecnologici, ma impedisce la
riflessione e il rigore, i tempi distesi dell’apprendimento, la
relazione per la costruzione di saperi significativi, nonché la bonifica
dell’amianto e la messa in sicurezza delle scuole.
Un sistema di deleghe alla legge più
odiosa che la scuola ha dovuto subire ha poi sancito che non esiste più
il principio di uguaglianza e quello di inclusione nella scuola (il
sostegno), che la scuola dell’infanzia non è più parte integrante del
sistema scolastico nazionale e che i test Invalsi standardizzati avranno
un’importanza sempre maggiore nel percorso scolastico, concluso da un
esame (temiamo ancora per poco) di Stato.
Frattanto: una logica divisiva e
arrembante ha sostituito, intenzionalmente e con una progressiva azione
di manipolazione ideologica, all'istituto contrattuale una serie di
oboli affidati al "buon cuore" di qualcuno (governo, dirigente) e non
sempre garantiti; comunque sottoposti a condizioni precise: così è nato
il bonus premiale; così i 500 euro per la formazione. Invece il
contratto collettivo nazionale – scaduto da ormai 8 anni e in via di
ridefinizione – si configura (senza una reale interlocuzione delle
organizzazioni sindacali con la base) come un accordo umiliante in cui –
oltre al rischio concreto di veder contrattualizzati i provvedimenti
previsti dalla legge Brunetta e dalla 107 – si risponde alla perdita di
potere di acquisto dei salari di oltre 14mila euro negli anni 2010-17
con un aumento mensile che non supererà gli 80 euro nel prossimo
triennio.
Infine: la ministra Fedeli ha
collezionato nell’estate pre-elettorale una prevedibile, ma caotica e
scomposta, serie di esternazioni: dalla captatio benevolentiae (i
docenti italiani dovrebbero guadagnare almeno il doppio in evidente
contraddizione con quanto di fatto viene proposto al tavolo);
all’incredibile via libera dello smartphone in aula, mortificante
concretizzazione di quanto la Fedeli abbia nulla a che fare (e non solo
per motivi strettamente curriculari) con la scuola; alle demagogiche
dichiarazioni su un obbligo a 18 anni, in una scuola ridotta dalla legge
107 a una serie di attività (progetti per aumentare l’offerta formativa
e vincere la competizione sul mercato delle iscrizioni; alternanza
scuola lavoro e molto altro) privilegiate comunque rispetto al lavoro
d’aula; da ultimo, il piano di innovazione ordinamentale per licei ed
istituti tecnici in 4 anni: un intenzionale progetto di indebolimento
della scuola della Costituzione, del diritto all'apprendimento degli
studenti, sotteso – peraltro – ad un catastrofico taglio di cattedre e,
di conseguenza, di docenti e personale Ata. Inutili le rassicurazioni,
in questo senso della ministra e del sottosegretario Toccafondi: la
sperimentazione serve ad innovare, non a risparmiare. Il mondo della
scuola ha imparato a proprie spese a guardarsi da certe formule
eufemistiche: non per conservatorismo – come sarebbe comodo credere – ma
per una pratica di anni in cui l’“innovazione” si è rivelata
autoritaria forzatura dei profili e delle relazioni professionali, delle
pratiche didattiche, fino a inquinare e vincolare la quotidianità del
fare scuola.
So di essere stata lunga, e me ne
rammarico. Ma alla cogitabonda e perplessa ministra – finalmente (ma
quanto sinceramente?) cauta – che si chiede se qualcosa non sia andato
come doveva, valeva la pena di rinfrescare la memoria e chiarire le
idee. Per coloro che stanno preparando proposte politiche in vista della
competizione elettorale, consigli gratuiti ed agili per comporre il
programma sulla scuola, riassegnandole – senza se e senza ma – il suo
compito costituzionale. Per noi lavoratori della scuola, studenti e
genitori, un promemoria per la prossima primavera, quando si andrà a
votare; ma anche per la nostra presenza attiva nei dibattiti, negli
organi collegiali e in tutte le altre forme della nostra specifica
cittadinanza attiva. È più che mai ora di di dare una sterzata
all’inerzia e alla rassegnazione che circolano.
Marina Boscaino
(25 settembre 2017)
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