mercoledì 27 settembre 2017

Scuola. Cara ministra Fedeli, ecco dove avete sbagliato...

mboscaino “Non si può avere investito risorse e assunto 100mila persone e avere tutto il mondo della scuola contro: evidentemente qualcosa dobbiamo aver sbagliato. Io penso che una delle ragioni è che quando si vogliono fare cambiamenti, bisogna coinvolgere gli interlocutori con un confronto vero sugli obiettivi e sulla qualità della proposta. Nel momento in cui tu condividi l’obiettivo è molto più facile trovare i punti di sintesi”; così Valeria Fedeli pochissimi giorni fa.

 

micromega MARINA BOSCAINO

L’apparente ragionevolezza dell’affermazione è coerente con una serie di analoghe ammissioni fatte da Matteo Renzi e i suoi sodali: la campagna elettorale incalza e il disamore degli insegnanti per il Pd è stato palpabile in diverse occasioni, attraverso il voto e non.
Con un po’ di pazienza – soprattutto da parte di chi leggerà questo testo – proverò a spiegare a Valeria Fedeli cosa è che non è andato; puntualizzando preventivamente che le assunzioni sono state frutto – obtorto collo – non di una politica lungimirante di rafforzamento della scuola pubblica, ma di un diktat europeo; un atto dovuto che, in seguito ad una sentenza del Tribunale di Giustizia, nel novembre del 2014, ingiunse all’Italia l’assunzione di tutti i precari che avessero 36 mesi di insegnamento.
Nel luglio del 2014 il neo insediato governo Renzi tiene fede (non c’è che dire) alla promessa fatta dal presidente del Consiglio nel discorso di presentazione al Senato: metterò mano alla scuola. Detto fatto: il sottosegretario Reggi (peraltro riciclato, in seguito, al ministero dei Lavori Pubblici) tra le altre cose ripropone la “formula Profumo” (24 ore a parità di salario); la pronta mobilitazione dei docenti sotto il solleone estivo sventa il pericolo.

Passa poco più di un mese (sic!) e il governo (ghost writers Luccisano, capo della segreteria tecnica, e Fusacchia, capo gabinetto) pubblica il 3 settembre – dopo l’annuncio in agosto di una riforma (tanto per cambiare) “epocale” (come è di tutta evidenza pensata e elaborata in meno di un mese) – uno sciatto documento in pdf, “La Buona Scuola”, infarcito, oltre che di imperdonabili refusi, di rutilanti anglicismi di matrice economico-bancaria.
Coerentemente con le parate demagogiche e il plauso di media acritici, si annuncia a gran voce l'"ascolto": sulla pagina web la Buona Scuola si gestisce – rinviandolo a siti istituzionali e testate compiacenti – un sondaggio online, su cui saranno chiamati ad esprimersi tutti – ma proprio tutti! – per attestare il proprio indice di gradimento alla proposta contenuta nel pdf. Alla conclusione della "consultazione", accompagnata da grandi convegni e campagne mediatiche, risulteranno aver avuto accesso al sito 65mila persone; quali siano stati i loro autentici giudizi sulla proposta non è mai stato dato sapere. Una cifra decisamente deludente, considerando che quell’anno erano indicati in organico di fatto 728 mila docenti e 101 mila insegnanti di sostegno; 2.580.007 erano gli studenti della secondaria di secondo grado, quelli probabilmente in grado di esprimersi in merito; ma, complessivamente, era di 7.878.661 il totale degli studenti italiani, cui corrispondeva un numero più o meno doppio di genitori (dati: "La Scuola in cifre 2013-14", Servizio Statistico Miur): una potenziale platea, insomma, di oltre 10 milioni di persone.
In febbraio (forti delle acclamazioni e del consenso, sic!) il contenuto del pdf viene trasformato in disegno di legge, discusso in modo rocambolesco nelle commissioni parlamentari, che adottano tutte le possibili scorciatoie; il 24 aprile del 2015 alcuni sindacati di base danno vita ad uno sciopero della scuola molto partecipato; e il 5 maggio la maggior parte del mondo sindacale, dai confederali ai sindacati di base, indice lo sciopero che si rivelerà il più partecipato della storia della scuola repubblicana.
Nonostante ciò e nonostante una mobilitazione permanente che continua dopo la chiusura delle attività didattiche e durante la celebrazione dell'esame di Stato (le strade di Roma intorno ai palazzi delle istituzioni sono quasi quotidianamente assediate), il governo chiede la fiducia in Senato, dopo il voto alla Camera. La Buona Scuola diventa legge e il presidente Mattarella vi appone la firma il 13 luglio 2015.
Per cosa protestavamo? La Buona Scuola ha portato alle estreme conseguenze le premesse dell'autonomia scolastica subordinata alla prospettiva e alla cultura aziendalistiche e dei suoi corollari:
- la dirigenza scolastica ha amplificato le proprie funzioni manageriali e accentrato sotto di sé una serie di prerogative, anche sottraendole agli organi collegiali: il dirigente recluta, valuta i docenti, dà l'indirizzo al collegio dei docenti, sostituisce qualunque residuo di funzione pedagogica con l'indefessa mansione di procacciatore di opportunità per una scuola la cui funzione centrale non è più la creazione di cittadini consapevoli che, attraverso il pluralismo delle idee e delle metodologie didattiche e il pensiero critico analitico maturino condizioni favorevoli alla propria libertà di partecipazione attiva; presiede il Comitato di Valutazione, che si configura come uno strumento di aggressione intenzionale al principio della libertà dell’insegnamento. Che non è un residuale privilegio di maestri e professori, ma un principio inserito dai Costituenti dopo la fine politica e la condanna morale del regime fascista a tutela dell’interesse generale, per garantire i giovani cittadini della Repubblica (e pertanto a tutti i cittadini) contro ogni forma di pensiero unico e di indirizzo culturale autoritario, con il conseguente obbligo per ciascuna scuola di essere un’istituzione democratica, laica, pluralista, inclusiva.
- La 107 ha ribadito invece, istituzionalizzandoli, i princìpi della competizione: si perfeziona un modello di dirigenza scolastica che via via ha sempre più burocratizzato la scuola, sottraendole democrazia e libertà di insegnamento, strumenti di tutela per la collettività nazionale, configurandola come qualsiasi ambiente di lavoro privato, dove sopravvive e vince chi è omologato, silente, esecutore acritico; ha immobilizzato una logica gerarchica in cui, al criterio della collegialità si sostituisce il mito del decisionismo gestito da uno staff dipendente e selezionato dal dirigente (un modello non difforme da quello ipotizzato dalle riforma costituzionale sconfitta con il voto del 4 dicembre).
- La 107 ha postulato il taglio di sapere e conoscenze, surclassati ora dalla prevalenza dell’“invalsizzazione” degli apprendimenti sul pensiero critico analitico, dalla vittoria delle competenze e delle più amene, scontate e acritiche sottomissioni a caricaturali pillole di pensiero pedagogico di matrice anglosassone; ora dall’avviamento precoce al lavoro decontrattualizzato, demansionato, deregolamentato per gli studenti attraverso l’alternanza scuola lavoro, volta a una formazione di manovalanza inconsapevole dei propri diritti e quindi più propensa ad essere sfruttata.
- La legge 107 ha poi inserito nella scuola la logica perversa del Jobs Act, quella che consente all’Istat di segnalare un copioso aumento degli occupati, una parte consistente dei quali ha lavorato anche solo un’ora a settimana: demansionamento dei docenti neo assunti, assegnati alle scuole nonostante l’incompatibilità della propria classe di concorso con l’indirizzo dell’istituto e quindi impegnati prevalentemente in funzione di tappabuchi; precarizzazione di tutti i docenti, la cui permanenza nell’istituto di servizio è pressoché obbligatoria, considerate le norme che regolano la mobilità.
- La 107 ha reso norma l’infatuazione per una modernità ottusa e marcescente, demagogica e orba, che imbottisce le scuole di LIM e di altri totem tecnologici, ma impedisce la riflessione e il rigore, i tempi distesi dell’apprendimento, la relazione per la costruzione di saperi significativi, nonché la bonifica dell’amianto e la messa in sicurezza delle scuole.
Un sistema di deleghe alla legge più odiosa che la scuola ha dovuto subire ha poi sancito che non esiste più il principio di uguaglianza e quello di inclusione nella scuola (il sostegno), che la scuola dell’infanzia non è più parte integrante del sistema scolastico nazionale e che i test Invalsi standardizzati avranno un’importanza sempre maggiore nel percorso scolastico, concluso da un esame (temiamo ancora per poco) di Stato.
Frattanto: una logica divisiva e arrembante ha sostituito, intenzionalmente e con una progressiva azione di manipolazione ideologica, all'istituto contrattuale una serie di oboli affidati al "buon cuore" di qualcuno (governo, dirigente) e non sempre garantiti; comunque sottoposti a condizioni precise: così è nato il bonus premiale; così i 500 euro per la formazione. Invece il contratto collettivo nazionale – scaduto da ormai 8 anni e in via di ridefinizione – si configura (senza una reale interlocuzione delle organizzazioni sindacali con la base) come un accordo umiliante in cui – oltre al rischio concreto di veder contrattualizzati i provvedimenti previsti dalla legge Brunetta e dalla 107 – si risponde alla perdita di potere di acquisto dei salari di oltre 14mila euro negli anni 2010-17 con un aumento mensile che non supererà gli 80 euro nel prossimo triennio.
Infine: la ministra Fedeli ha collezionato nell’estate pre-elettorale una prevedibile, ma caotica e scomposta, serie di esternazioni: dalla captatio benevolentiae (i docenti italiani dovrebbero guadagnare almeno il doppio in evidente contraddizione con quanto di fatto viene proposto al tavolo); all’incredibile via libera dello smartphone in aula, mortificante concretizzazione di quanto la Fedeli abbia nulla a che fare (e non solo per motivi strettamente curriculari) con la scuola; alle demagogiche dichiarazioni su un obbligo a 18 anni, in una scuola ridotta dalla legge 107 a una serie di attività (progetti per aumentare l’offerta formativa e vincere la competizione sul mercato delle iscrizioni; alternanza scuola lavoro e molto altro) privilegiate comunque rispetto al lavoro d’aula; da ultimo, il piano di innovazione ordinamentale per licei ed istituti tecnici in 4 anni: un intenzionale progetto di indebolimento della scuola della Costituzione, del diritto all'apprendimento degli studenti, sotteso – peraltro – ad un catastrofico taglio di cattedre e, di conseguenza, di docenti e personale Ata. Inutili le rassicurazioni, in questo senso della ministra e del sottosegretario Toccafondi: la sperimentazione serve ad innovare, non a risparmiare. Il mondo della scuola ha imparato a proprie spese a guardarsi da certe formule eufemistiche: non per conservatorismo – come sarebbe comodo credere – ma per una pratica di anni in cui l’“innovazione” si è rivelata autoritaria forzatura dei profili e delle relazioni professionali, delle pratiche didattiche, fino a inquinare e vincolare la quotidianità del fare scuola.
So di essere stata lunga, e me ne rammarico. Ma alla cogitabonda e perplessa ministra – finalmente (ma quanto sinceramente?) cauta – che si chiede se qualcosa non sia andato come doveva, valeva la pena di rinfrescare la memoria e chiarire le idee. Per coloro che stanno preparando proposte politiche in vista della competizione elettorale, consigli gratuiti ed agili per comporre il programma sulla scuola, riassegnandole – senza se e senza ma – il suo compito costituzionale. Per noi lavoratori della scuola, studenti e genitori, un promemoria per la prossima primavera, quando si andrà a votare; ma anche per la nostra presenza attiva nei dibattiti, negli organi collegiali e in tutte le altre forme della nostra specifica cittadinanza attiva. È più che mai ora di di dare una sterzata all’inerzia e alla rassegnazione che circolano.
Marina Boscaino
(25 settembre 2017)

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