venerdì 22 settembre 2017

Catalogna e autodeterminazione.

Uno specchio fatto di parole che non corrispondevano mai ai processi reali che dovevano descrivere, normare, mettere in relazione. Ossimori, spesso, a rivelazione di una contraddizione insolubile che si voleva occultare.
In primo luogo, dimostra che la “democrazia” non è un sistema politico vigente, ma un insieme di frasi con cui si giustificano gli interventi armati contro qualcun altro. Anche a prescindere dal merito della questione catalana – si può essere indipendenti rompendo i vincoli con uno Stato nazionale più grande, che a sua volta sta cedendo sovranità a una struttura sovranazionale svincolata dal consenso come la Ue? – è addirittura dichiarata l’intenzione di impedire militarmente una consultazione popolare liberamente decisa da organi rappresentativi eletti rispettando tutte le procedure.
A far questo è un governo che prima ha fatto annullare (dalla Corte costituzionale, nel 2012) una legge che regolava le autonomie regionali (varata da Louis Zapatero e approvata con referendum dai catalani); poi ha finto di non vedere un referendum consultivo del 2014, senza avviare nessun confronto o ipotesi di riforma.
In secondo luogo dimostra che il problema delle identità nazionali, rimosso sbrigativamente dal processo di costruzione dell’Unione Europea, è tutt’altro che superato. Anzi, riemerge in diverse forme con il permanere della crisi, delle politiche di austerità, dell’impoverimento di massa.

Nel disastrato dibattito italiano – pienamente controllato “filosoficamente” dal pensiero unico multinazionale – “sovranità” è concetto che dovrebbe essere associato alle destre più o meno nostalgiche, populiste, fasciste, ecc. Per chi invece prova a seguire il dibattito esistente in altri paesi, “sovranità” e “autodeterminazione” sono concetti e valori decisamente di sinistra.
Eppure è stata la stessa Unione Europea, dietro gli Stati Uniti, a guidare un assalto militare contro uno Stato europeo – la Jugoslavia – in nome del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Contemporaneamente, però, fu accantonato il principio della “non ingerenza” nei sistemi politici di altri Stati – che aveva governato “il mondo diviso in due” del dopoguerra – aprendo la lunga stagione delle “guerre umanitarie”, “ingerenze democratiche”, “rivoluzioni colorate” (ossimori, appunto…) e altre forme creative dell’imperialismo post 1989.
Non è questo il luogo per discutere seriamente sul concetto di sovranità – in soldoni: il soggetto della decisione – che ha una lunga storia e un grande peso nel pensiero democratico e rivoluzionario (ha sostituito il monarca per diritto divino con “il popolo”). Ma ci sembra chiaro che l’Unione Europea è cresciuta, in competenze “sovrane” (decisioni vincolanti per gli Stati membri) che eliminano alla radice ogni verifica da parte del demos. Detto volgarmente, le decisioni della Commissione, e ancor più quelle della Bce, sono istituzionalmente sottratte alla verifica elettorale e parlamentare (il Parlamento di Strasburgo è l’unico al mondo privo di potere legislativo, i Parlamenti nazionali possono solo ratificare le direttive europee). Quando un voto c’è stato, peraltro (Francia e Olanda sulla cosiddetta “costituzione europea”, ecc), il voto è stato sempre negativo. Quindi rapidamente messo da parte.
Bisognerebbe insomma ragionare non solo sul chi decide, ma anche su cosa, in base a quali interessi riconosciuti come legittimi e su quale estensione territoriale. Altrimenti l’”antisovranismo” è soltanto un mantra favorevole al dominio del capitale multinazionale, non una manifestazione di “internazionalismo”…
Un intellettuale e politico marxista come Alvaro Linera, vicepresidente della Bolivia attuale, ha provato a spiegare come sia necessario tener conto della stratificazione sociale facendo attenzione, per esempio, alle specificità delle comunità indigene, che si concepiscono comunque – per lingua e tradizioni – come “nazioni”. Senza scandalo e senza nazionalismi d’accatto.
Il groviglio catalano è sorto all’interno di almeno tre faglie decisionali diverse: l’ambito territoriale della Catalogna, quello della Spagna storica e lo spazio dell’Unione Europea. Abbiamo una “comunità indigena” unita da lingua e tradizioni culturali che persegue l’indipendenza da tempo immemorabile; uno Stato-nazione classico che non riconosce al suo interno altre nazionalità; un quasi-Stato sovranazionale che assume competenze chiave (le politiche di bilancio, in primo luogo) senza alcuna verifica “democratica” effettiva (il voto popolare sulle decisioni rilevanti).
Qualcuno, anche tra i compagni, ha preso frettolosamente posizione contro i catalani perché – per esempio – Salvini ha biascicato qualcosa a favore (a Barcellona il fascioleghista riceverebbe un campionario di pedate)… Seguendo questo criterio scriteriato, si potrebbe rispondere che mettendosi contro ci si ritrova in compagnia di Rajoy, Aznar e gli eredi del franchismo. E sarebbe altrettanto stupido, come del resto abbiamo spiegato in un nostro articolo solo venti giorni fa.
Sta avvenendo qualcosa che squaderna le contraddizioni insolute di una costruzione continentale fatta senza demos (non c’è un “popolo europeo”, così come nessuno ha provato a scrivere una “Storia europea”, perché gli eroi di un paese nei fatti sono i criminali per il vicino), oltre a quelle di un paese che non è mai uscito completamente – sul piano costituzionale – dal fascismo e dalla monarchia. Non a caso, lì la destra è ferocemente “anti-separatista” in nome del nazionalismo (monarchico, per di più), mentre la sinistra in quasi tutte le sue accezioni – e con più convinzione quella più radicale, la Cup – è per l’indipendenza catalana.
Non è qualcosa che si possa affrontare con gli stilemi di un tweet. Ragione per cui ogni faciloneria va bandita dal dibattito e dalle iniziative, che oggi non possono che vederci schierati per il diritto del popolo catalano ad esprimersi in un referendum sulla sua autodeterminazione.

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