Non
siamo i soli a sostenere che il miglior “salvataggio” possibile delle
due banche venete sull’orlo della bancarotta sarebbe stato la
nazionalizzazione. Sembrava una posizione da “vecchi comunisti”, da
nostalgici dell’”intervento dello Stato in economia” (stile Iri, non
solo soviet), e invece l’hanno fatta propria soggetti decisamente
diversi, compresi alcuni esponenti grillini. Segno che non si tratta di
una petizione “ideologica”, ma di puro buon senso.
Mancavano
i quotidiani economici, per darcene la conferma. E l’editoriale di
Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, è arrivato puntuale. Le
argomentazioni sono in alcuni casi simili, in qualche altro differenti
dalle nostre. Ma non è troppo importante.
Il
dato che merge è decisamente un altro. Chiunque dica “non ci sono
alternative” è un mentitore interessato. Un servo che lavora per
qualcuno più potente (BancaIntesa, in questo caso). Di sicuro non un
servitore dello Stato, né del buon funzionamento dell’economia.
Era meglio nazionalizzare
Era
meglio nazionalizzarle, le banche venete, intervenendo subito. Anzi,
era l’occasione per costituire anche in Italia un istituto finanziario
pubblico per lo sviluppo. Sono trascorsi anni di inutili traccheggi ed
alla fine, per evitarne un fallimento disordinato, vengono messe in
liquidazione con un generoso contributo pubblico. Nella relazione
tecnica sul decreto-legge si prevede infatti che che, a fronte di un
recupero per 9,9 miliardi di euro dai 17,3 miliardi di crediti
deteriorati, ben 4,8 miliardi andranno a bilanciare l’impegno assunto
dallo Stato per il rafforzamento patrimoniale del cessionario dei
crediti in bonis e dei depositi delle due banche.
Siamo
al terzo fallimento, stavolta dolorosamente vero, di una strategia
tutta incentrata sul rispetto dei nuovi orientamenti della Commissione
europea in materia di aiuti di Stato alle banche e sulla introduzione
del bail-in con la direttiva BRRD. Per le due banche venete, infatti,
non si è trovato alcun investitore privato che facesse da partner allo
Stato italiano, che si era impegnato ad una ricapitalizzazione
precauzionale per 3,5 miliardi. Lo Stato non poteva essere l’unico a
rischiare: la sua sfida solitaria era sintomo di avventurismo
assistenziale e non di rischio imprenditoriale condiviso. La realtà è
ben diversa, come è chiaro anche nel caso del Monte dei Paschi di Siena:
nell’epoca in cui è possibile, ed anzi è enormemente più profittevole,
raccogliere fondi anche senza una fitta rete di sportelli sul
territorio, nessuno è interessato ad investire in una struttura
bancaria. L’unico vero interesse è quello di sottrarne i depositi: più
la crisi è lunga, e meglio è. Mors tua, vita mea: la legge della
giungla.
Fallita
la ricapitalizzazione precauzionale, si sarebbe dovuti passare alla
ristrutturazione, secondo i criteri posti dalla normativa sul bail-in,
con la partecipazione alle perdite in sequenza, di azionisti,
obbligazionisti e depositanti oltre i 100 mila euro. L’ipotesi di
ricorrervi è stata scartata dal Comitato di Risoluzione Unico, che “ha
accertato che non si prospettano misure alternative che permettono di
superare la situazione di dissesto o di rischio di dissesto in tempi
adeguati”. Potenza dei Regolatori: siamo passati, d’un balzo, dalla
ricapitalizzazione precauzionale al fallimento. Visto l’ammontare dei
crediti in sofferenza, il costo della tutela dei depositi, ancorchè
ribaltato sull’intero sistema bancario, sarebbe stato insostenibile.
Si
è realizzato così il vero obiettivo del mercato: eliminare la
concorrenza sul versante della raccolta, lasciando allo Stato l’onere di
recuperare i crediti deteriorati e le perdite che ne derivano. Al
cessionario spetta il ristoro per gli oneri di ristrutturazione delle
banche: sembrano i tempi in cui Iritel acquisì ad un prezzo assai
conveniente dallo Stato le gigantesche infrastrutture di
telecomunicazioni detenute dalla ASST, che venivano realizzate a suon di
mille miliardi di lire l’anno a carico del bilancio pubblico, portati a
duemila in occasione di “Italia 90”. La condizione era di farsi carico
dell’esodo del personale: fu un affarone, soprattutto per Telecom Italia
che ereditò il tutto con una fusione infragruppo. Il frastuono sul
malaffare che avrebbe caratterizzato la gestione della ASST, già allora,
fece da schermo.
Nel
caso delle due banche venete ci si trova di fronte ad un evento
sistemico, sia sul versante della raccolta che su quello degli impieghi:
rappresentano una leva rilevantissima per una regione tra le più
importanti dal punto di vista produttivo e del risparmio accumulato.
Invece di rimproverare al Veneto di approfittarsi senza fiatare della
solidarietà dell’intero Paese, dopo aver sbandierato per anni richieste
di autonomia e talora di secessione, ci si dovrebbe preoccupare del
futuro industriale di questa Regione.
Ancor
prima di nazionalizzare le banche venete, facendo entrare lo Stato come
azionista totalitario, era ed è necessario creare un istituto pubblico
che sostenga lo sviluppo economico ed industriale dell’Italia. La nostra
Cassa Depositi e Prestiti non ha, a differenza delle analoghe
istituzioni di Francia e Germania, né strutture territoriali nè
effettive competenze nel finanziamento industriale. Le relazioni della
CDP con le Poste italiane si fondano su mere convenzioni, generalmente
triennali, che disciplinano obiettivi e condizioni del piazzamento
attraverso la rete postale dei titoli emessi dalla Cassa. I compiti che
di recente sono stati attribuiti a quest’ultima, dalla istituzione del
Fondo Strategico Italiano, al social housing, all’acquisto in tempi
rapidissimi di immobili demaniali o di quote di aziende del Tesoro,
denotano una assoluta carenza di visione a lungo termine. Allo stesso
modo si improvvisa, quando si parla di cedere sul mercato ulteriori
quote di Poste italiane, oppure della stessa CDP.
Il
problema italiano, oggi, è di evitare che l’esito delle crisi bancarie
porti ad un continuo drenaggio delle risorse finanziarie delle famiglie
italiane verso impieghi all’estero. Se si spezza il nesso territoriale,
tra raccolta ed impieghi, tra risparmio e credito, tra risorse
finanziarie ed investimenti, si spiana la strada verso la
deindustrializzazione. Invece di raggiungere l’obiettivo di
de-bancarizzare il sistema produttivo, soprattutto per evitare che il
finanziamento delle imprese sia sempre troppo sbilanciato sul credito a
breve, si corre il rischio di strozzarle definitivamente. C’è una
duplice morsa, oggi, rappresentata dalla carenza di domanda interna e di
credito bancario, mentre la dinamica degli strumenti finanziari
alternativi sembra ancora insufficiente. E non appare commendevole che
il Tesoro, oltre a mettere tanti quattrini sul tavolo a favore del
cessionario, non si sia garantito alcuna visibilità sulle politiche di
impiego territoriale e funzionale del risparmio, almeno attraverso una
apposita contabilità separata.
La
vicenda delle due banche venete è già data per conclusa, avendo
accontentato tutti i giocatori in campo: dai risparmiatori ai
dipendenti. Anche il referendum sulla maggiore autonomia per la Regione,
già indetto per settembre, è stato sminato. L’effetto finanziario
negativo per lo Stato, come differenza tra realizzo dell’attivo della
liquidazione degli NPL ed impegni, secondo le previsioni dello stesso
governo ammonterebbe in prospettiva pluriennale a poco più di un
miliardo di euro. Sembrano previsioni fin troppo rosee, perché intanto,
per fronteggiare tutti gli impegni assunti, di soldi ne serviranno assai
di più. Le risorse saranno prese a prestito, pagando interessi, a
valere sui famosi 20 miliardi di euro di maggior debito pubblico già
messo in conto con il decreto legge 237/2016, in vista degli interventi a
favore del Monte dei Paschi di Siena.
Facendo
un po’ di conti in giro per l’Europa, sul costo cumulato degli
interventi pubblici a favore del settore bancario a partire dal 2007, si
constata che in termini di deficit pubblico, in Inghilterra è stato di
11,7 miliardi di euro. In Germania si è arrivati a 40,4 miliardi, mentre
in Belgio si è trattato di soli 2 miliardi. Solo la Spagna è stata
davvero bastonata, con 48 miliardi complessivi, di cui però ben 38
miliardi concentrati nel solo 2012. Lo scorso anno, il costo sul
bilancio statale spagnolo è stato di 2,4 miliardi di euro.
In
Italia, invece, a fine 2016 siamo arrivati nel complesso ad un deficit
cumulato di 2,9 miliardi, con un picco negativo di 3,3 miliardi nel
2015, determinato degli interventi resisi necessari dopo la messa in
liquidazione nel dicembre 2015 di quattro piccole banche locali. In
precedenza, concedendo la garanzia sovrana alle emissioni
obbligazionarie bancarie, portate come collaterale alla Bce, lo Stato ci
ha sempre guadagnato. Anche con i Tremonti-Monti bond concessi a Monte
dei Paschi, ha tratto ampio profitto: non convertire il prestito in
azioni, per farseli rimborsare, fu un tragico errore.
Già
a prima vista, si nota che il costo dei salvataggi pubblici
tradizionali, tanto ostracizzati, non è stato poi così disastroso. Nelle
crisi bancarie, l’intervento pubblico deve essere tempestivo e
risolutivo: più si aspetta e peggio è. La Comunicazione della
Commissione del 1° agosto 2013 in materia di aiuti di Stato alle banche e
la direttiva BRRD si sono dimostrate controproducenti: enfatizzano le
crisi invece di smorzarle ed allungano in modo esasperato i tempi di
risanamento, aumentandone esponenzialmente i costi. Quando si intuiscono
le difficoltà ed inizia la fuga dei depositi, la banca è andata.
Con
le nuove regole europee, dapprima la liquidazione delle quattro piccole
banche locali ed ora quella delle due banche venete, ha comportato
oneri spropositati per le finanze pubbliche. Non si tratta solo di
ricapitalizzare una singola banca, ma di assicurare la stabilità
dell’intero mercato. Una follia.
Per
troppo tempo ci si è arresi ai diktat dell’Antitrust europeo, troppo
tardi si è capito che il sistema del bail-in è assolutamente
impraticabile. Anche stavolta, alla fine ci si è limitati ad intombare
nel debito pubblico tutte le perdite ed i costi derivanti dalla ben
altrimenti evitabile liquidazione delle banche. Il mercato festeggia:
siamo passati dallo Stato banchiere allo Stato becchino.
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