L’analisi di Massimo Giannini sulla sinistra divisa e minoritaria è, come sempre, impietosamente lucida. Eppure credo che non sia l’unica lettura possibile.
Essa appare, ed è, realistica, se diamo per scontato, come sempre si fa, un dato di fondo: e cioè che i rapporti di forza tra destra, sinistra e pentastellati siano, sul breve periodo, stabili. Ma se proviamo a pensare che cambi la base elettorale attiva, anche questo scenario può cambiare. In altre parole, Giannini fa quello che fanno i leaders di tutti i partiti: dà per scontato che continuerà a votare circa la metà del Paese. E che l’altra metà sia sostanzialmente perduta alla vita della democrazia italiana.
Quello che Anna Falcone ed io abbiamo provato a proporre è di cambiare occhiali: e di provare a svegliare quest’altra metà del Paese. Perché noi due, che non siamo politici, né tantomeno leaders? Perché durante la campagna referendaria del No abbiamo visto con i nostri occhi questa altra Italia, quella che non vota: l’abbiamo vista partecipare a riunioni e assemblee. E poi il 4 dicembre l’abbiamo ritrovata nelle urne.
Ovviamente non tutta la valanga dei No era di sinistra: ma una parte lo era, eccome. Voti di giovani senza più fiducia. Voti di sommersi che sentono di non avere alcun interesse a sommarsi a quelli, ben più pesanti, dei salvati. Un elettorato potenzialmente di sinistra comprese allora che si combatteva una battaglia decisiva per la partecipazione e la rappresentanza degli ultimi: un elettorato che, se tornasse a votare, potrebbe sconvolgere gli equilibri. E, allora, perché non pensare che accanto al realismo dello stato delle cose possa esserci anche un altro realismo, quello di chi vuole provare a modificarla, la realtà? Antonio Gramsci ha scritto che l’idolo più difficile da abbattere è la credenza che tutto ciò che esiste, sia naturale che esista così.
La proposta del Brancaccio è provare ad abbattere quell’idolo, costruendo una lista unitaria della Sinistra non intesa come somma dei pezzetti già noti, ma come una realtà nuova, capace di coinvolgere e rendere protagonista quest’altro mondo. Per questo non ha molto senso parlare – come fa Giannini – di ‘montanariani’ o ‘falconiani’: non abbiamo alcuna intenzione di costruire l’ennesima listina da zero virgola, e non lo faremo. Se sarà evidente che non ci sono le condizioni per una lista unica davvero profondamente innovativa (che è l’obiettivo esplicito che abbiamo indicato), il percorso continuerà come costruzione (lenta, paziente e speriamo feconda) di uno spazio politico nuovo, ma non contribuirà ad aumentare la frammentazione elettorale.
Se l’obiettivo è questo, allora forse si capisce che le categorie da usare non sono più la ‘purezza’, l’‘identità’, o il ‘rancore’. La questione è molto più pragmatica: bisogna parlare un’altra lingua, cercare altri interlocutori, abbattere le pareti della stanza chiusa dove si gioca l’asfittica partita autoreferenziale che tiene lontana dalla politica metà del Paese. Giuliano Pisapia dice di sentirsi a casa nel Pd, e Giannini scrive che egli abbraccia la Boschi perché sa di appartenere alla stessa famiglia politica della sottosegretaria. Io, invece, credo che sia un errore: non perché il Pd o la Boschi siano il male, ma perché credo che chi vuole costruire la sinistra nuova debba stare da un’altra parte.
La casa dei sommersi non può essere la stessa casa di chi ha contribuito a sommergerli. Il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione di un Paese terribilmente diseguale e ingiusto: se vogliamo parlare alle vittime di questa diseguaglianza, di questa ingiustizia, dobbiamo cercare un’altra casa. E un’altra famiglia: perché difficilmente i milioni di giovani che hanno votato No, e che ora probabilmente si asterranno, si sentono della stessa famiglia della Boschi. Essi, insieme ad altri milioni di elettori, quando vedono la Boschi, pensano invece a un intreccio, appunto familistico, tra potere e banche: lontano mille miglia da ogni idea di giustizia o inclusione.
Insomma, accanto al realismo un po’ cinico che spinge alle alleanze dentro l’eterno recinto, c’è anche un realismo (forse più lungimirante) che spinge a uscire dal recinto. Una via che non porta subito al governo. Ma l’unica via per costruire una sinistra capace di cambiare lo stato delle cose.
(24 luglio 2017)
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