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Il
20 luglio di sedici anni fa le giornate di Genova toccavano il loro
apice di potenza e tragedia. Impossibile, infatti, sciogliere questa
coppia ossimorica, perchè questo fu Genova 2001: intreccio di vita e
violenza, scontro materiale tra il 99% e l'esercito dei pochi padroni
del mondo, prefigurazione - forse ingenua, immatura - del terreno di
lotta dei decenni a venire, quelli che stiamo vivendo.
Dopo
che il corteo delle tute bianche fu bloccato e caricato su via
Tolemaide, i manifestanti furono costretti a difendersi da un attacco
efferato e lì, a piazza Alimonda, moriva Carlo Giuliani. Un colpo di
pistola, partito dal Defender dei Carabinieri in cui tra gli altri
sedeva l’autore dell’omicidio, Mario Placanica, poi prosciolto per
legittima difesa (esonerato peraltro dall’Arma e in seguito rinviato a
giudizio con l'accusa di violenza sessuale ai danni della figlia
minorenne della sua ex convivente).
Carlo
Giuliani “ragazzo” era, insieme ad altri sei milioni di persone in
tutto il mondo, a manifestare contro l’incontro al vertice degli Otto
Grandi, i capi di stato che avrebbero sancito l'affondo neoliberista e
antidemocratico in economia e politica a livello globale. La risposta
dello stato e della polizia a difesa di un potere delegittimato dalle
piazze di tutto il mondo è stata inaudita per le strade di Genova, in
piazza Alimonda, nella scuola Diaz, nella caserma di Bolzaneto: una
violenza sconosciuta, in particolare alla generazione dei 20-30enni, ma
che gli avvertimenti di Napoli e poi di Goteborg lasciavano presagire,
così come preparava la campagna terroristica a mezzo stampa e così come
annunciava l'inaugurazione delle zone rosse interdette ai manifestanti.
Una risposta di guerra, dunque, contro una delle più grandi moltitudini
di corpi organizzati, di movimenti, di associazioni, che hanno praticato
un principio di alleanza e di resistenza primario, essenziale alla
vita, il diritto basilare a poter scegliere un altro modo con cui vivere
il mondo.
Per
paradosso, sulla stampa mainstream di oggi la “celebrazione”
dell’evento (anche i “cattivi” diventano simpatici nella twilight
postuma) è stata sfilata ai protagonisti, a “noi”, e abilmente affidata a
“loro”, cioè alla lunga intervista rilasciata dal capo della Polizia
Gabrielli a Bonini di “Repubblica”. Nel momento in cui la vicenda
giudiziaria del G8 di Genova può dirsi conclusa - a netto svantaggio dei
manifestanti, gli unici a pagare sia prima, con le violenze e le
torture, che dopo, con le uniche scandalose pene decennali per
devastazione e saccheggio - e alla vigilia del reintegro dei pochi
funzionari condannati e sospesi dal servizio, Gabrielli, da “uomo
libero” come sottolinea, riconosce le responsabilità della Polizia, a
cominciare dall'allora vertice Gianni De Gennaro. Ma lo fa con uno
scopo, chiudere quella storia, consegnarla a una memoria pacifica là
dove nessun passo è stato fatto, politico e istituzionale, per
costruirne le condizioni. Paradigmatica la parabola della legge sulla tortura, che renderebbe oggi come ieri non perseguibili i carnefici di Bolzaneto.
Una
gestione “catastrofica”, viene detto, a cui ha fatto seguito un
altrettanto catastrofico risultato nella individuazione delle
responsabilità, nella ripartizione delle pene, in un paese in cui gli
stessi autori di quegli atti non solo non sono mai stati esautorati dai
loro incarichi, ma hanno fatto carriera nelle istituzioni della
Repubblica o al vertice di Finmeccanica-Leonardo (il super-sbirro De
Gennaro, mai sfiorato da accuse o tentazioni di dimissioni, malgrado le
dichiarazioni di Scajola).
Con
questa polemica contro De Gennaro e i macellai subalterni, Gabrielli -
all’epoca accortamente defilato nel suo ruolo di capo della Digos romana
e tutt’altro che incline a precipitarsi a menar le mani a Genova - si
sbarazza dell’uniforme dello sbirro e punta ad assumere un ruolo
politico, congiuntamente al suo referente Minniti, che possiamo
facilmente immaginare come l’uomo forte di un governo post-elettorale di
ampia coalizione non a guida renziana. Il “coraggio” è dunque
funzionale a un progetto politico, meno da “macelleria messicana”, ma
altrettanto autoritario, come rappresentano bene le leggi
Minniti-Orlando, il largo uso delle sanzioni amministrative e delle interdizioni a manifestare a uso preventivo e per motivi di sicurezza, il riemergere dei reati d'opinione.
Un'intervista
molto parziale quella di Gabrielli, che se ha circoscritto con cautela
le responsabilità sistemiche che sarebbero interne solo al corpo di
polizia, esonerando invece le responsabilità dei politici di allora. Non
tanto di Scajola, allora ministro degli interni, immaginiamo, a sua
insaputa, o del decotto Fini, che nella situation room della
Questura genovese meditava sugli affari immobiliari nella vicina
Montecarlo, ma del Presidente del Consiglio Berlusconi, immarcescibile
partner di future coalizioni.
Perché
i fatti di Genova furono un evento politico, non un incidente di
piazza, ed evidentemente lo continuano ad essere ancora. "Dobbiamo
liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo sguardo
rivolto all’indietro". Impossibile farlo. Sicuramente non senza i numeri
identificativi sui caschi degli agenti e De Gennaro fuori dai vertici
economici e amministrativi, da dove gestisce la vendita di armi agli
eredi di quel G8. Non in un paese in cui essere fermati dalla polizia
può significare la morte. Non in un paese in cui la tortura si pratica
nelle caserme e nei commissariati ma continuerà a rimanere impunita.
Quello
che resta è il dovere di ripartire da Genova, di non dimenticare non
per rimanere ancorati al passato, ma perché a partire da quello choc
generazionale si continui a costruire stabilmente un tessuto di
resistenza. Un tempo gli eserciti sconfitti imparavano bene, o almeno
così sosteneva Brecht. La metafora bellica non portò bene allora e oggi è
quantomai fuoriluogo, ma vorremo assumere della frase di Brecht il suo
senso profondo. Speriamo che valga ancora oggi.
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