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L’anniversario della paura trasformatasi in
forza, torna a essere apoteosi dell’uomo simbolo dell’odierna Turchia. A lui si
stringe la folla dei patrioti che ne approva tutta la furia seguente, ritrovandosi
nel cuore della notte istanbuliota a ricordare l’orgoglio anti golpista e
osannare un anno di vendette. Rivincite attuate e rappresaglie promesse: “Taglieremo la testa ai traditori” giunge
a gridare il presidente. E se usa lo stile del califfo Al Baghdadi mentre il
mondo osserva e ascolta, sa di poter affondare il metaforico coltello nelle
gole. Non si tratta solo d’una frase a effetto, la truculenza che Erdoğan regala
a una platea interna eccitata è momento di vanto nelle ore in cui si scoprono
le steli dei 249 martiri difensori della patria. Ed è sondaggio esterno per
capire l’aria che tira davanti al suo progetto di reintrodurre quella pena di
morte che egli stesso, nel 2004, aveva congelato. Sembrano trascorsi decenni,
soprattutto per coloro che come la numerosa comunità kurda sperava in un
processo di possibile pacificazione, mentre è più di altre opposizioni colpita
e smantellata nella sua articolazione rappresentativa, con finanche i
co-presidenti del partito Hdp agli arresti. Si tratta degli effetti
collaterali, e che effetti! Hanno condotto il partito islamista turco ad alzare
il tiro contro tutti.
Così coloro che non appartengono alla cerchia di
attivisti, sostenitori, elettori Akp con diventati automaticamente traditori,
pericolosi attentatori della democrazia e della nazione. Terroristi. I fatti
son noti: dallo stato d’emergenza rilanciato per tre cicli, in queste ore ne
scatta il quarto, scaturiscono arresti di membri delle Forze Armate (169
generali e ammiragli, 7000 colonnelli e ufficiali, circa 9000 poliziotti di
vario rango, 24 governatori provinciali, cui s’aggiungono 30.000 sospettati
sempre in divisa, e secondo i dati forniti di recente dal ministero della
Giustizia 2400 giudici). Un totale di 50.000 arresti che vede in gabbia anche centinaia
fra giornalisti, avvocati, docenti. Mentre 130.000 appartenenti anche a queste
categorie, con l’aggiunta di un’infinità di ceto impiegatizio, sono messi fuori
dalla catena lavorativa tramite licenziamenti, rimozioni, pensionamenti. Un’epurazione
senza precedenti. Molti appartengono al potente movimento Hizmet, associazione caritatevole islamica col pallino del
business, che il predicatore Gülen ha messo su assieme a tanti adepti prima di
volare in Pennsylvania. Dell’antico progetto d’infiltrare lo Stato kemalista (che
fino alla fine del secolo scorso perseguitava i politici islamisti, compreso
Erdoğan) restavano solo i molti infiltrati nel corpaccione statale e non.
Di questo l’allora premier e poi presidente
sapeva, non foss’altro perché il piano l’aveva concordato coi gülenisti. Ciò
che probabilmente non s’aspettava, anche dopo la rottura del 2013, era
l’organizzazione d’un golpe ai suoi danni. Uno che si sente sultano non teme un
imam seppure scaltro e riparato in America. Invece la vicenda sembra essere
stata questa: l’organizzazione Fetö ha
provato a rapire (e magari uccidere) il presidente, sebbene Gülen neghi e di
rimando accusi l’ex compare d’aver orchestrato tutto per diventare dittatore di
fatto. Ma anche Kılıçdaroğlu, il leader dell’opposizione repubblicana al
governo dell’Akp, recente marciatore con centinaia di migliaia di turchi per
stabilire nel presente e nel futuro del Paese giustizia e democrazia, ammette
che se quella notte i complottisti avessero portato a termine il colpo di mano,
un disastro si sarebbe abbattuto sulla popolazione. Erdoğan gongola, continua
ad alzare il tiro, sventolando minacce. Quella della pena di morte la userà per
nuove trattative, con l’Europa e col mondo. Visto che dal rifugio ai profughi,
al ridisegno dell’assetto mediorientale, al doppiogiochismo su jihadismo e
dintorni, ai venti di guerra presenti e futuri nella regione, la sua presenza
continua a essere molteplice e pluridirezionale.
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