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Giovedì 13 luglio, sul palco del second stage dello
Sheroow
Festival, si è tenuto il dibattito “Settantasette. Quarant’anni fa, la
rivoluzione qui ed ora”, nel quale sono intervenuti alcuni dei
protagonisti di
quell’anno che racchiude in sé un intero decennio. Tra narrazione ed
analisi,
gli interventi di Toni Negri, Oreste Scalzone, Vincenzo Miliucci, Franco
Piperno e Cristina Morini si sono succeduti suscitando emozioni ed
interesse tra il pubblico, che era quello delle grandi occasioni.
Marco Baravalle, dei centri
sociali del nord-est, ha spiegato nell’introduzione le motivazioni che hanno
condotto ad organizzare questo dibattito, al di là della ovvia ricorrenza. «Si
tratta di un dibattito dedicato a chi c'era, a chi quell'anno lo ha passato
nelle piazze, nelle università, nelle assemblee, nelle radio libere; ma
soprattutto a chi non c'era, ai tanti e tante che nel 77 magari non era ancora
nati».L’obiettivo non è stato, dunque, quello di dare spazio solamente a racconti e analisi, pure importanti, specialmente quando contestano la damnatio memoriae a cui la storia ufficiale ha tentato di condannare il 77. Ma quello di fare riemergere un sentire comune, un sentire che allora permeava il corpo sociale, un "feeling di parte" si direbbe, che i militanti del 77 trasmettono ancora, a quarant'anni di distanza.
Chi ha partecipato, al di là delle differenze e delle differenti collocazioni politiche all'interno del movimento, non credeva fideisticamente nella rivoluzione, ma la sentiva accadere, la viveva, la vedeva in atto nella materialità, nella radicalità di piazza, nella diffusione delle pratiche, nella trasformazione delle forme di aggregazione, nella sovversione comunicativa e culturale, nel protagonismo delle donne. Anche se la storia ci insegna che una rivoluzione vincente non c'è stata, la società è stata attraversata da un fervore rivoluzionario che rimane patrimonio dei militanti e dei "mobilitati" del 77. Questo feeling, questa sensazione di sentirsi sull'orlo della rivoluzione, di sentirsi la rivoluzione addosso, è ciò che rende il 77 straordinario dal punto di vista sensuale, biografico, biopolitico, oltre che storico e sociale.
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Toni Negri, intervenuto al dibattito con un videomessaggio, ha più volte usato l'espressione "il lungo '68 italiano" per riferirsi alla peculiarità nazionale di un "decennio rosso". Narrarlo significa presentare un' "epica" dei movimenti che si esaurisce solo con l'avvento degli anni 80. Vi è dunque l'unicum italico della continuità, ma vi sono anche le differenze tra il '68 ed il '77, che sono state origine di un lungo dibattito politico. Il '68 fu un movimento di operai e studenti in una congiuntura di grande crescita economica, il 7'7 viene dopo il '73, anno della crisi petrolifera e della teorizzazione, da parte di Berlinguer in continuità con Togliatti, del compromesso storico, dell'impossibilità (dopo il golpe di Pinochet) di "fare senza" i cattolici. E puntualmente il compromesso storico si materializza alle elezioni del '76, con il PCI che sostiene l'esecutivo guidato da Andreotti. La piena occupazione è già un ricordo, la gioventù diventa in maggioranza metropolitana e precaria. Questa composizione sociale, nella trasposizione teorica, prenderà il nome di "operaio sociale" ed è esattamente l'individuazione del potenziale rivoluzionario di questa figura che garantirà all'Autonomia Operaia Organizzata di essere l'unica (o quasi) organizzazione interna al movimento del 77.
Per Negri l’elemento della continuità tra il 68 ed il 77 anni è fondamentale per comprendere quella continua presenza di operai, studenti ed intellettuali nelle piazze, contro la nuova regolamentazione della vita. Ed è proprio sul terreno della vita che si è organizzata la resistenza, perché la classe operaia non era più solo nelle fabbriche ma nella metropoli. L’esempio di Milano, dove Toni ha vissuto in quegli anni, è paradigmatico, perché l’idea di autonomia di classe si era generata grazie all’occupazione case ed alle autoriduzioni. A Milano il '77 è iniziato dopo la grande sconfitta operaia del '74, ma il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale era già in atto e si sarebbe riconosciuto, più avanti, nella cooperazione sociale e nelle capacità intellettuali di condurre la produzione.
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Anche per Oreste Scalzone creare una differenza enorme tra il ’68 ed il ‘77, a rischio di fare della mitopoiesi dell’uno o dell’altro anno, è un errore. Il ‘68 è importante segnalarlo non solamente perché è stato soggetto a fenomeni di integrazione e recupero, ma anche perché c’è stato il più lungo sciopero generale nella storia contemporanea dell’occidente capitalistico. È altrettanto errato pensare che nel ’68 le Università fossero attraversate solamente dai figli della borghesia, perché già era iniziata l’invasione dei ceti popolari e la “migrazione” per poter svolgere gli studi. Nel ’77 avviene un’ulteriore rottura: «qualcosa di diverso, ma non di assoluto diverso» dice Scalzone. Il punto vero della questione non sta nella “diversità” tra le due espressioni assunte dalla movimentazione sociale, che avvengono a quasi dieci anni di distanza, ma nel passaggio da potere costituente a potere costituito. Citando Agamben, Scalzone ritiene che quando questo passaggio prende forma si è soggetti inevitabilmente a forme di recupero. Questo dibattito è stato sempre presente nelle varie componenti che hanno animato il ’77. Un dibattito che, nella rissosità tra tutti e tutte, ha visto costantemente emergere una concrescenza: «il punto delle rotture interne non era attorno alla violenza, su cui c’era grande compatibilità, ma su questioni di carattere teorico, e principalmente attorno al nodo delle forme dello Stato».
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Il '77 è l'anno di momenti iconici e drammatici: la cacciata di Lama dalla Sapienza, l'uccisione di Lorusso da parte di un carabiniere a Bologna, il massiccio corteo romano del 12 marzo sotto il diluvio, l'uccisione di Giorgiana Masi in un corteo dove si aggirano poliziotti armati e travisati, le sparatorie del maggio milanese, dove cade il brigadiere Custrà. Rimangono, di quella giornata, foto che passano alla storia (anche giudiziaria) del nostro paese. Il 77 è poi l'anno del convegno contro la repressione di Bologna, degli espropri, dello champagne sulle barricate, di una nuova idea di metropoli che un precariato sociale ante litteram stava iniziando profondamente a trasformare. L’esperienza romana, raccontata da Vincenzo Miliucci, è stata senza dubbio tra quelle in grado di segnare un tracciato anche per i movimenti a venire. Tutto nasceva dall’impossibilità di raggiungere obiettivi reali di trasformazione all’interno delle strutture partitiche tradizionali. Dice Miliucci: «teoricamente ci formati attraverso “teoria dei bisogni di Marx” e gli elementi più bisognosi trovano il modo di trasformare la società attraverso nuove formule, come quella della democrazia diretta». La nascita dell’assemblearismo di base, delle esperienze dei comitati popolari di quartiere sono segnate proprio da questa ricerca politica ed in una città come Roma riescono in breve a diffondersi come nuovi strumenti di classe.
C’era inoltre la ricerca di dotarsi di un armamento di base per difendersi rispetto ai nuovi paradigmi: nuove e radicali forme di lotta nascevano nelle fabbriche per riaffermare una contrattazione nel mutato rapporto tra capitale e lavoro, ma anche nelle metropoli. È qui che, proprio dal corpo della classe operaia, nascevano le spinte per l’autoriduzione bollette e degli affitti o per l’occupazione delle case. È qui che i bisogni diventavano organizzazione autonoma della classe. Lo scioglimento dei gruppi nel ‘77 diventa il passaggio politico che, proprio sul terreno dell’organizzazione, permette la congiunzione in un vero movimento rivoluzionario. «Ci siamo presi una responsabilità impari perché la sentivamo dettata dai bisogni che avevamo intercettato» afferma Miliucci che continua: il ‘77 non c’è stato solamente nelle città gia note, come Roma, Milano, Torino, Bologna o Padova, ma anche in altri centri più decentrati , perché si è trattato di una dimensione diffusa anti-istituzionale, di autodifesa, di autorganizzazione, che guardava dritto ad un nuovo modello di società».
Il 77 è il tempo delle radio libere, Radio Alice certo, ma anche di Radio Onda Rossa e di Radio Sherwood che da' il nome a questo festival. Nel 77 le onde delle radio libere sono da una parte la prova che la metropoli si sta sostituendo alla fabbrica come luogo della contesa politica e che l'informazione stessa, i suoi flussi, rappresentano un vero e proprio terreno di lotta. Quelle radio sono radicali non tanto e non solo per i contenuti che trasmettono, ma lo sono in quanto incarnano una "operatività linguistica collettiva e sovversiva" tesa a distruggere "la dittatura del significato. La questione del bios e della riproduzione sociale prende forma in tutta la sua potenza ed il femminismo, che è una delle istanze protagoniste di tutti gli anni '70, è uno dei terreni in cui più forte è lo scontro, anche all’interno della stessa sinistra extra-parlamentare. Il rapporto tra femministe e organizzazioni di movimento è dialettico, fatto di critiche anche molto aspre. Sono però critiche che "spingono" avanti, fondamentali per fare del 77 ciò che effettivamente fu, forse l'anno più radicale della storia repubblicana.
Cristina Morini, sebbene non abbia vissuto allo stesso modo degli altri ospiti quegli anni – perché nel ’77 aveva solamente 14 anni – è diventata un punto di riferimento politico e teorico per gli studi che riguardano il rapporto tra genere e classe, ed in particolare sulla femminilizzazione del lavoro, che proprio a partire dagli anni ’70 modifica completamente la società occidentale. «Il concetto di eguaglianza che iniziava ad affermarsi» dice la Morini «finiva per definire come subalterno tutto ciò che era classista, proprio perché metteva al centro il soggetto, nella sua complessità». Tutto questo avviene soprattutto grazie alla ricerca di nuovi centri gravitazionali ed alla messa in discussione barriere tra sfera privata e sfera pubblica. Il lascito del femminismo degli anni ’70, oltre che nelle discussioni – spesso dure – con altri gruppi politici, è dato anche da un protagonismo inedito delle donne negli spazi di lotta, come accade nelle tante manifestazioni avvenute nella fase che precede l’approvazione della Legge che regola l’accesso all’aborto, che contestavano in forme radicali e nuove la violenza della società.
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Tra gli aspetti meno conosciuti, ma più rilevanti, di quegli anni, c’è stata anche la critica alla scienza, che inizia ad essere considerata come strumento a servizio del capitalismo industriale. Franco Piperno, che – da scienziato – su questo tema si è sempre battuto, ha raccontato la genesi di un fermento che ha profondamente scosso il mondo scientifico. Nel 1967 tecnici e ricercatori a Frascati intraprendono una campagna, contro il CNEL, che aveva come obiettivo il fatto che le pubblicazioni dovessero portare anche la firma dei tecnici. Da qui si è aperto un decennio in cui è stato rimesso completamente in discussione il rapporto tra scienza e società. Afferma Piperno: «la differenza tra scienza classica e la scienza moderna è che la prima ha sempre teso a ricondurre l’ignoto a noto, mentre la seconda riconduce il noto all’ignoto. Nella produzione industriale l’ignoto garantisce accumulazione e speculazione finanziaria, grazie alla perdita del rapporto con il reale». Il grande pregio che hanno avuto i movimenti, dal ‘67 al ’77, è stato quello di tendere a riportare la scienza verso la realtà ed il senso comune.
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Dopo il primo giro di interventi gli ospiti hanno risposto ad una domanda proveniente dal pubblico, allo stesso tempo sintetica ma complessa: «come immaginavate la rivoluzione?».
Per Piperno: «rivoluzione è una delle parola più abusate che ci siano, perché viene dal concetto copernicano del ritorno di un oggetto celeste al posto dove era prima. Sarebbe meglio usare la parola che usa Polany: trasformazione radicale». Nella storia la rivoluzione come atto è l’opera classica della borghesia, mentre quello che occorre – secondo Piperno – è compiere la “rivoluzione” nel quotidiano: «il ’77 ha avuto quella potenza proprio perché noi già vivevamo esperienze di rivoluzione nel quotidiano».
Spesso, parlando di quel movimento, si ricerca in maniera troppo frettolosa il nesso tra vittoria e sconfitta. Secondo Cristina Morini, proprio grazie all’enorme portata rivoluzionaria di quel movimento, il capitalismo è stato messo in difficoltà: «il ‘77 non è stato sconfitto, perché il capitalismo ha dovuto profondamente ristrutturarsi per rigenerarsi dopo quella stagione». Il femminismo ne ha colto a pieno la possibilità di impostare le battaglie sul terreno della lunga durata, partendo innanzitutto dalla possibilità di fare una rivoluzione nei rapporti e porre la questione sul terreno della materialità delle vite.
Anche per Miliucci il tema della lunga durata è presente per comprendere a pieno le dinamiche del ’77: «noi avevamo rotto con la tradizione marxista leninista della presa del potere, ma quello che ci hanno insegnato successivamente gli zapatisti, la Rojava, o movimenti di lotta come No Tav e No Grandi Navi, è che la sottrazione di potere avviene nei territori, dove si instaurano elementi reali di contropotere». Se è vero che la fine del ‘77 come movimento di massa sarà segnata da due fattori, di segno opposto, ossia l'avanzata delle posizioni armatiste e la repressione da parte dei poteri costituiti che si abbatte su centinaia di donne e uomini, è vero anche che la cosiddetta continuità-discontinua ha permesso, negli anni ’80, di ottenere grandi vittorie, come ad esempio la chiusura delle centrali nucleari grazie al Movimenti Anti Anti.
Rispetto alla questione “terminologica” ha insistito anche Scalzone, che ha fatto esplicito riferimento ad una sospensione dell’inerzia dei poteri semantici costituiti, soprattutto a proposito di quel lessico che ha connotato la storia della “sinistra”: socialismo, lavoro, ma anche rivoluzione. Citando Lefebvre e riferendosi alla sinistra tradizionale dice Scalzone: «parlano di Marx e di marxismo, ma al loro interno hanno Ferdinand Lassalle ed il capitalismo come amico naturale della classe operaia». In questo contesto è necessario, secondo Scalzone, che proprio a partire da lessico e concetti i movimenti si interroghino non solamente sul loro passato, ma anche – e soprattutto – su loro presente e futuro.
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