L’intervista è stata realizzata
mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come
promotrice della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna).
connessioniprecarie.org PAOLA RUDAN
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La scorsa settimana hai promosso a
Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università,
che in questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i
migranti senza documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche
di deportazione di Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa
rientri nel loro ruolo critico e come sarà colpita dalla
riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e Bannon e dall’azione
sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università
dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo
federale dichiarando che le università non applicheranno le politiche di
deportazione. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i
funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni possono
agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica
federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia
vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo
discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone
senza documenti. Le università però hanno il potere di decidere se
consegnare ai funzionari i nomi di quelli che non hanno documenti o se
resistere alle loro richieste. Hanno il potere di bloccare
l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che
possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste
all’applicazione delle politiche federali.
Anche alla luce di questo tipo di
resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i
movimenti sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi
crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di
resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché
dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da parte mia non sarò
mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o autoritario…
stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere. Spero
che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere
galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più
disponibile ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati
Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e
una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere
attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di
sinistra ‒ il che non coincide necessariamente con una politica di
partito ‒ che sappia che cosa sta facendo e come e, su questa base,
possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie
rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba cominciare
dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti
sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a
cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione
esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il
resto è considerato una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i
movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che
abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà,
la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate
dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è
nella posizione di negoziare.
In che modo la campagna elettorale, e
in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è
stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒
può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a
Trump nei termini che hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è
stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata
molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse,
conquistando alle primarie anche Stati che si pensava avrebbero
sostenuto Hillary. Ma è stato anche frustrante, perché non era chiaro se
Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che
pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di
razza e genere fossero secondarie, e questa è una prospettiva che
abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista una
sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse
non lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders
dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi
permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere. Sanders
si è definito socialista, anche se in una versione soft, ma un
partito socialista non c’è ancora anche se alcuni si sono appellati a
lui per uscire dal partito democratico e costituirne un altro. Vedremo
se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.
I migranti sono stati protagonisti
negli ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora
impegnati nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale
di Trump. Nel tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione,
sottolineando il modo in cui hanno esercitato performativamente un
«diritto ad avere diritti». Ma possiamo considerare i migranti non solo
come una figura dell’esclusione da «noi, il popolo», ma anche come una
prospettiva che ci permette di capire le trasformazioni contemporanee
della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso. Come fai i conti con
queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite precarie
dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze storiche, ma in
altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono adattare
ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un
pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti
a tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il
modo in cui lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello
Stato della California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul
lavoro migrante, se Trump fosse in grado di deportare migranti messicani
senza documenti, costruire muri e bloccare l’afflusso di nuovi
messicani, i principali interessi economici che lo hanno supportato
sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto l’economia della
California funziona con i migranti senza documenti, non ci sono dubbi. E
se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le
ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono
stati migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo
arrivati, siamo andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere
migranti, pensiamo che i migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è
un migrante? Questa dimenticanza è parte della formazione del soggetto
americano ed è diventata davvero pericolosa nel momento in cui abbiamo
deciso che i migranti sono esterni a quello che siamo. Sono parte di
quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro, siamo il loro lavoro.
Contro questa condizione, i migranti
– non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di
quest’anno c’è stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo
ultimo libro (Notes toward a Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi)
tu includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo
sciopero non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea
di opposizione nella società, una linea lungo la quale si pratica
l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La tua riflessione
sulle assemblee articola la necessità o la possibilità di questo tipo di
linea di conflitto come condizione stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono
unirsi per discutere le condizioni del loro lavoro, assistiamo a
tentativi disperderli o negare il loro diritto di riunirsi in assemblea.
Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura in quello
internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali,
fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di
scioperare. Ci sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno
sciopero. Ma nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e
decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa
allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per
cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il
networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che
può anche essere la base per lo sciopero. Non intendo dire che nella
vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di connessioni
digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non
mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare
voce a certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il
web. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono
molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la
resistenza. Si tratta di una forma tra le altre possibili di
associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea
anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non c’è un’unica sfera
pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera pubblica per
tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è un’unica
sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a
fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non
è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni
palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto
uno sciopero della fame. Molte persone che si opponevano alla pratica
carceraria dell’isolamento sono andate in sciopero della fame e lo hanno
fatto esattamente nello stesso momento. Hanno comunicato attraverso le
reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale
senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento
per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una
pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo. Alleanze a
rete di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per
portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo
sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro,
ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.
Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello internazionale
che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è
trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di
contrattazione sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una
condizione di violenza e oppressione che assume molte forme.
Lo sciopero della fame e quello delle
donne non sono scioperi tradizionali, di tipo sindacale, ed è importante
che siano accaduti. La cosa che mi pare più interessante sono i network
che li hanno resi possibili e che hanno permesso che accadessero,
perché questi network possono comporre movimenti globali di solidarietà.
Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di ore
per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica.
Ma anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i
network, chi sono le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la
loro relazione con la Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è
usare l’occasione dello sciopero simbolico per solidificare reti
internazionali che possano poi produrre effettivamente un senso più
forte della sinistra femminista transnazionale o dell’opposizione
transnazionale alle condizioni inumane nelle prigioni.
Forse però ci sono delle differenze
tra lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o
quello dei migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo
luogo quello che chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo
rivendicazioni che altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle
donne e quello dei migranti hanno stabilito una linea di conflitto, nel
caso dell’8 marzo la linea in cui si mostra che la violenza patriarcale è
la base per la riproduzione di rapporti sociali di potere su scala
globale. Da questo punto di vista è interessante che lo sciopero sia
stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne sta
diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame
in prigione stabilisca una linea di opposizione, perché in prigione tu
non comunichi, non ti riunisci in assemblea, non avanzi rivendicazioni
soprattutto se sei in isolamento. La voce dei detenuti non si sente,
hanno bisogno di altri che possano articolare la loro posizione, che
parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il modo di
articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione
di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è
anche un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando
il modo in cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina,
diventa evidente la relazione delle prigioni con la violenza della
polizia, con il femminicidio, possiamo trovare una violenza strutturale
che le connette. Angela Davis lavora sulle prigioni negli Stati uniti e
in Brasile e sostiene che la violenza delle prigioni si manifesta
attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne in modo
strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze
sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media
hanno i loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare
connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in
cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo
scompare. C’è un momento in cui siamo in sciopero e poi chi se ne
ricorda? Che cosa succede poi? Come si traduce questo in pratiche o
nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti? Il modo in cui i
media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per un momento
e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa
temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.
Il problema riguarda però la
capacità di accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare
conto di quello che accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare
prova di un potere, che è in primo luogo il potere di non essere
vittime, di rifiutare una condizione di oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i
media, che le donne non si mobilitano o che siamo ormai post-femministe
per me non è altro che una barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È
grandioso avere un momento globale in cui le donne emergono in marcia,
come è successo a Washington e in tutto il mondo il 21 gennaio, ma
questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno di scioperi e
manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro network, i
loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza. Dobbiamo
costruire queste connessioni.
La marcia del 21 gennaio e lo
sciopero dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno
coinvolto moltissimi altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno
posto una questione generale, ad esempio rifiutando le politiche
neoliberali che smantellano il welfare e che impongono proprio alle
donne di farsi carico del lavoro riproduttivo e dei servizi che non sono
più erogati dal pubblico. A questo riguardo, pensi che le donne, in
virtù della loro posizione materiale e simbolica, possano avere anche
una posizione specifica nella lotta contro le relazioni neoliberali di
potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere
una posizione politica specifica per via del fatto che sono
prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei confronti dei
bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e pubblici sono
distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre infrastrutture,
penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha effetti
anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è estremamente
importante includere tra le donne anche le donne trans, che dobbiamo
avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna, una
visione che includa anche le donne che non prendano parte alla
riproduzione o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o
semplicemente per altre ragioni non sono sposate, che hanno altre
alleanze sessuali e sono senza figli. Le donne ora vivono forme sociali
molto diverse che includono e devono includere anche le donne trans. Uno
dei problemi che ho con l’idea che le donne siano completamente
identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo si operano
delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una
visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una
specifica comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne
ne sono colpite, diventa un limite.
Sono
completamente d’accordo, e il punto mi sembra precisamente la
possibilità di rifiutare quel modo di essere identificate come donne. Si
tratta di rifiutare la divisione sessuale del lavoro che costringe le
donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto diventa
politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere
le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la
possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una
definizione identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono
persone che vivono come donne, senza essere riconosciute come tali. E ci
sono persone riconosciute come donne che non si pensano affatto come
donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione sociale non
corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una
questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a
casa, a scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata
nell’esercito, quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche
che dipendono dalla designazione di genere, che può anche avere
implicazioni concrete sulla vivibilità o invivibilità della vita. Se
qualcuno mi interpella come donna in un certo modo e si aspetta che io
viva in quel modo, in certe circostanze sociali, non potrei vivere in
quella società, dovrei andarmene, ci sono implicazioni concrete e
materiali che seguono a questo tipo di designazione e penso che se ci
limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti definisci, qual è
il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di nominare
se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione di
vita o di morte.
Capisco il punto ma mi piacerebbe
insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario
rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni
riproduttive, con i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono
‘naturalmente’ deputate alla cura. In questo senso non si tratta
semplicemente di una scelta individuale, ma di contestare l’imposizione
di un ruolo e di una posizione sociale e la riproduzione di un rapporto
di potere che presuppone quel ruolo e quella posizione. Dall’altra
sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero essere considerate
donne, perché questo colpisce materialmente la loro possibilità di
vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il riconoscimento
di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche contraddizione tra
il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo implica il
rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un ruolo,
mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello
che intendo. Penso che ci siano molte donne che vogliono essere e sono
madri e questo significa molto per loro, e non dovrebbero rifiutarlo, è
grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a essere madri e a
vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono essere sposate
ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le soddisfa è
giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che
valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità
all’interno dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci
sono altre che non vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto
come donne, che hanno relazioni di convivenza senza essere sposate e non
intendono farlo, e questo è un altro spettro di possibilità in quello
che chiamiamo essere donna. E ci sono donne trans che sono donne in
molti modi, che sentono con forza che questo è esattamente ciò che sono
socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella categoria ma
non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono
sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo
direi mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e
ci sono trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e
se non vogliono sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere
coinvolte nella cura dei figli con altre persone, non dobbiamo prendere
una sola scelta e renderla una norma per tutti, questa sarebbe una forma
di violenza simbolica.
Lo sarebbe senz’altro. Ma non
bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in
cui si organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la
cosa dal punto di vista della libertà individuale è certamente
necessario mantenere l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni
come il matrimonio e persino la scelta, certamente personale, della
maternità vanno anche pensate in relazione al loro significato sociale,
ai ruoli che prescrivono alle donne ed è in questo senso che sono state
oggetto della critica femminista. Proprio questo cercavo di dire
all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità, proprio
perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle
istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le
istituzioni abbiano una storia, non sono le stesse in ogni cultura e
contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole essere globale è
estremamente importante che veda che non tutte le donne si muovono in
una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono diversi
rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la famiglia,
e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se pensiamo
alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela
tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare,
partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale.
Non mi interessa la questione della scelta personale e individuale, mi
interessa di più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché
per alcune persone non sarebbe vivibile la struttura familiare o la
struttura di parentela allargata, mentre per altre persone è l’unico
modo per sopravvivere e fiorire, e altre persone vivono forme di
ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come uomini che si
prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che non
dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone
che stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno
riuscendo in qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono
famiglie tradizionali, sono famiglie miti, ci sono madri dal primo
matrimonio o dal secondo matrimonio, con un padre gay, le relazioni di
amicizia possono dare strutture di parentela più elaborate. Non penso
che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia come una
struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista
non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci
serva un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione
funziona.
Sono d’accordo che non si possa
prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla
famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni
attuali, in Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta
riportando al centro una concezione tradizionale della famiglia, e
quindi prescrivendo alle donne una specifica posizione, perché si tratta
di una struttura fondamentale di riproduzione della società, tanto più
in un contesto in cui la fine di ogni politica sociale impone
un’assoluta individualizzazione delle responsabilità per la propria vita
come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione. Mi pare che
questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non solo
l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo
modello.
Capisco quello che dici e possiamo
complicare ancora di più questa situazione perché abbiamo un femminismo
neoliberale, abbiamo Hillary Clinton, lei si è fatta da sola, è un
autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino negli affari, che
facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se la cura dei
figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in
politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che
sono cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è
rimasto della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno
votato per lei, molte donne nere non si sono sentite rappresentate da
lei, molte donne bianche povere non si sono sentite rappresentate da
lei, il suo femminismo è completamente centrato sull’autoavanzamento e
questo è l’obiettivo neoliberale.
Questo è stato un punto ampiamente
dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha
sostenuto che il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e
che questo è accaduto nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere
il femminismo che è diventata una politica ufficiale di Stato, anche se
per certi versi non lo è più, non abbiamo più femminismo nelle
istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda durissimo. Ma
molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle donne
contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo
sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo
ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato
incorporato, ne saranno forse contente le femministe liberali, che sono
soprattutto o esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o
del neoliberalismo non è certo esaurita.
Questo ci riporta alla capacità dei
movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto
insistito sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e
sottolinei che ciò non è necessariamente un limite perché possono
accadere in ogni momento. Questa idea di contingenza o transitorietà
come si confronta con il problema della continuità e dell’organizzazione
delle assemblee? Se la contingenza è il modo di essere delle assemblee,
non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione nelle istituzioni
possa dare loro continuità?
Oltre alla temporaneità io ho
sottolineato che le assemblee possono articolare un certo tipo di
critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne dell’8 marzo ha
articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei principi
sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il
grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che
annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono
così spettacolari e pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa
sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento,
o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può
diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. A
seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi diventano, da quanto
a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che comincia come un
piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel tempo e
nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi
interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero
per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché
non cambiano le condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno
finché queste condizioni sono mantenute. Lo sciopero generale è il
rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della
politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo
visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i
movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a
sottovalutare il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per
accumulare e la gente deve avere più di qualche slogan per andare
avanti, devono sapere che ci sono principi, un’analisi, per potersi
considerare parte di quello che sta succedendo e che quello che accade
in una parte del mondo è connesso a quello che succede da un’altra
parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese precarie dalle
politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o dalla
decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della
salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno
facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o
dell’abbandono o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che
questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini
che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della
propria sofferenza. C’è il pericolo che la gente pensi che la propria
situazione è solo un problema locale, quando invece ha una dimensione
transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla lotta al
femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono
statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un
posto come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile
in Argentina, sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire
network tra le donne e quelli che si oppongono ai femminicidi è
impressionante. Mi rendo conto di quanto duro debba essere leggere
quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi che la gente possa
accettare e quanto è stato importante per quel movimento essere prima di
tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il
femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli
Stati non ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e
riconoscerne l’importanza, e spesso arrestano le donne che denunciano, è
un terrorismo di Stato inflitto a coloro che portano questo problema in
pubblico, perché la struttura del patriarcato locale e le alleanze
patriarcali tra la polizia e lo Stato sono molto forti. Il modo in cui
le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in
cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani e
si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze
transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo
Stato della sua complicità. Penso che questo sia enormemente
interessante, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è
transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e
trarne ispirazione. Forse non sono ancora riusciti a porre fine a questa
pratica atroce, ma hanno allargato la possibilità di farsi ascoltare,
ora il mondo sa che cosa accade, e hanno prodotto network per
supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di resistenza.
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