martedì 20 dicembre 2016

Assassinio Karlov: Erdoğan-Putin nessuna rottura

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Le pallottole restano sul cadavere dell’ambasciatore Karlov, un professionista navigato che Putin perde in una fase internazionale intricata, ma non intaccano il vertice sulla Siria che si sta tenendo a Mosca. Coinvolti Lavrov, Çavuşoğlu, Zarif, responsabili dei dicasteri esteri di tre Paesi interessati a quella crisi che costituiscono un triunvirato dialogante, diversamente dagli sponsor del ribellismo e jihadismo anti Asad residenti nel Golfo. In attesa di scoprire ciò che scaturirà dai colloqui, si muovono le indagini sull’azione terroristica che i due Paesi colpiti reputano una provocazione votata a incrinarne i rapporti.
Investigatori russi sono giunti ad Ankara per seguire proprie piste, e sulla base del clima di comprensione stabilito fra Erdoğan e Putin potrebbero anche collaborare coi colleghi turchi. Intanto quest’ultimi hanno arrestato tutti i membri della famiglia dell’attentatore freddato e silenziato da cecchini delle forze speciali. Lui non può più gridare né parlare, i parenti sì. Ma non è detto che possano dire molto, anche perché potrebbero essere a digiuno dei comportamenti del poliziotto-killer. Sono tutti residenti ad Aydin: padre, madre, sorella e due altri congiunti vengono interrogati da agenti del Mıt assieme a un vicino di casa. Si vuole scavare nel passato recente del giovane già così addentro alla sicurezza da fare, in un paio d’occasioni, addirittura la scorta del presidente.
La determinazione del crimine perpetrato introduce nell’establishment turco un’ampia inquietudine per la permeabilità dei propri apparati di sicurezza. Non solo l’attentatore ha avuto facilità nell’introdursi nella sala (può bastare un tesserino del Ministero dell’Interno per arrivare senza problemi alle spalle dell’obiettivo da colpire?), ma il luogo prescelto era adiacente a tre ambasciate (statunitense, tedesca, austriaca), alle sedi della Camera dell’Industria, dell’Agenzia di supervisione bancaria, dell’Ufficio di un Procuratore generale e dell’Ufficio del Commercio russo. Una zona piena di obiettivi sensibili, che comunque poco dopo quest’attentato veniva violata pure da un uomo avvicinatosi all’ambasciata americana con un fucile celato in un trench. Se fra i due episodi, come sembra, non ci sono legami e se allarmi come quest’ultimo non rappresentano prodromi di attentati, l’agguato nella Galleria d’arte moderna produce un’apprensione estrema. Lì l’attentatore ha potuto agire indisturbato, all’interno delle sale sembra non ci fossero poliziotti, giunti solo in seguito coi reparti speciali. Così l’incolumità del diplomatico è risultata evanescente. Una delle contraddizioni dell’iper  militarizzata Turchia è costituita proprio dalla fragilità della sua sicurezza,  come evidenziano le esplosioni che si susseguono da mesi. Frutto della guerra latente col fronte guerrigliero kurdo, e quella che portano il marchio del Daesh.
Sul terreno della caduta verticale della normalità di vita e del controllo del territorio, fin nel cuore delle sue città simbolo, il regime di Erdoğan paga uno scotto verso l’intera nazione. Il sostegno che sta ricevendo dai nazionalisti dell’Mhp, utile per far approvare al Parlamento quella riforma costituzionale che lo rende padrone incontrastato della scena politica, può sfociare nel protagonismo della violenza che s’atomizza nei mille rivoli d’uno scontro diffuso. Ci riferiamo all’assalto alle sedi politiche avversarie (dell’Hdp), date alle fiamme dopo l’ennesima auto-bomba lanciata su giovani agenti, che potranno rianimare omicidi e scontri armati fra la popolazione, come accadeva negli anni Ottanta sotto l’azione eversiva dei Lupi grigi. Ma con l’omicio dell’ambasciatore l’orizzonte politico si fa sempre più inquietante per la possibile presenza organizzata e attiva di gruppi jihadisti lanciati contro l’Islam dello Stato erdoğaniano, addirittura dentro le strutture di sicurezza. Vedremo se l’attentatore di cui non sappiamo ancora il nome, è un lupo solitario o se dietro di lui ci sono un’organizzazione e una regia. Qualora si trattasse di radicalismo islamista quell’infiltrazione negli apparati polizieschi somiglierebbe a quella praticata dai taliban in Afghanistan e Pakistan, dove miliziani di quei clan colpiscono anche dall’interno, vestendo una divisa. In questo caso Erdoğan, sempre più, dovrà fare in conti in casa con un altro nemico: i combattenti jihadisti, nella versione non solo bombarola, ma assalitrice. Il fine sarebbe sempre quello destabilizzante, cui già contribuisce il contrasto con la componente kurda, armata e non.
Potrebbe trattarsi d’un fondamentalismo islamico endogeno che, sull’onda della linea seguita sul fronte siriano prima come premier poi in qualità di presidente, inizia a vendicarsi dei suoi giri di walzer. In tal senso realizzare l’attentato alla vigilia d’un incontro importante per quella crisi mediorientale e rivolgerlo contro l’obiettivo russo, un contendente internazionale diventato amico, è un segnale frutto d’un programma che può incarnare altri seguiti sanguinosi. Verso l’opinione pubblica può risultare più rassicurante pensare che l’occhio e il grilletto del pistolero della mostra fotografica siano di marchio gülenista, un nemico conosciuto, che pur nel proprio credo difficilmente avrebbe gridato “Allah ü Akbar”, come in effetti accadde nel luglio scorso nella serata del tentato golpe. Coi dubbi e le angosce che dovranno rapportarsi allo sviluppo degli eventi, il coriaceo Erdoğan appare però isolato, deve far quadrare comportamenti furbeschi con la forza reale d’un progetto che il terrore può far deragliare. Non basta chiamare etnia, patria, nazione se queste devono misurarsi quotidianamente su un logorante campo di battaglia. Ancora una volta la politica estera può diventare il suo salvagente o la sua disperazione: nella crisi siriana l’avvicinamento alla Russia potrà incentivare un nascente e multiforme jihadismo interno. Mentre l’Iran rappresenta un alleato o un incomodo, competitore nel territorio chiamato ancora Siria e nella più vasta area regionale, anche in contrapposizione ad Ankara oltreché ai sauditi. Continuando ad accompagnarsi a questi attori l’Atatürk islamico passerebbe da interlocutore delle petromonarchie, coccolate dagli Usa (di cui s’attende la gestione Trump, ufficialmente lanciata contro il terrorismo islamista bisognerà vedere se alla maniera bushana o obamiana) a nemico giurato. E non solo d’interessi geopolitici ed economici, ma misurandosi appunto sull’infuocato terreno che interessa al fondamentalismo salafita. 

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