contropiano mimmo porcaro
L’ultimo lavoro di Carlo Formenti (La variante populista,
Derive e approdi, Roma, 2016) è talmente denso di riferimenti e
attraversato da così tante tensioni concettuali – effetto del passaggio
dell’autore da un paradigma teorico ad un altro – da costringere chi
voglia abbozzarne una recensione ad una drastica semplificazione che
punti direttamente all’essenza del testo.
E l’essenza si può riassumere
in tre tesi. 1) La cultura egemone nella sinistra (e nella stessa
sinistra radicale) è ormai parte organica
dell’ ideologia delle classi dominanti ed ha la funzione di legittimare
la globalizzazione, l’Unione europea ed il nuovo capitalismo
esaltandone le presunte potenzialità democratiche e libertarie, e
salutando l’indebolimento degli stati come un rafforzamento
dell’autorganizzazione sociale. Punta di lancia di questa mutazione
della sinistra è la cultura postoperaista che si presenta ormai come
autoglorificazione di uno strato superiore del lavoro sociale (il lavoro
ad alta qualificazione intellettuale) che ha rotto ormai ogni legame
con gli strati inferiori. 2) Il soggetto della trasformazione sociale
non deve essere cercato nei punti alti dell’organizzazione capitalistica
del lavoro, come suggerisce di fare il postoperaismo, ma piuttosto nei
punti più bassi o comunque nei luoghi tendenzialmente esterni
alla logica della modernizzazione capitalistica: in ogni caso il
soggetto non deve essere dedotto da categorie sociologiche, ma deve
essere reperito nel corso di un’analisi concreta di ogni fase
storicamente determinata della lotta di classe in una fase determinata;
3) Una tale analisi ci dice oggi che, a causa del crescente
impoverimento degli strati medio-inferiori del proletariato, della
chiusura dei precedenti spazi democratici, dell’integrale adesione della
sinistra alla globalizzazione, le esperienze più acute e potenzialmente
efficaci di lotta di classe non possono fare a meno di assumere una
forma populista. Forma che non può essere esorcizzata, ma deve essere
accettata, attraversata e spostata in senso classista ed
anticapitalista.
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La sinistra capitalista.
Concludendo
un lungo processo di distacco dall’ideologia della sinistra radicale ed
in particolare dalla sua variante postoperaista, Formenti (uno dei
pochi intellettuali italiani capaci di congedarsi da un’ influente
scuola di pensiero senza per questo rinnegare la scelta di campo che
motivava la sua primitiva adesione) ci offre una rassegna sintetica e
spietata del rapporto strettissimo tra l’ideologia delle frazioni
attualmente dominanti del capitalismo e tutte quelle idee indiscusse
della sinistra che un tempo promettevano un’emancipazione ancor più
radicale di quella social-comunista ed oggi si mostrano pienamente
coerenti con gli attuali meccanismi di comando. Soprattutto l’
”orizzontalismo” (ossia la somma delle idee che esaltano come panacea le
relazioni di rete e di base contro ogni forma di “verticalismo” e di
stato), il femminismo (con la sua tendenza alla ridiscussione continua
dell’identità) e la teoria/prassi dell’ampliamento ad infinitum
dei diritti individuali (perseguiti peraltro senza nessuna attenzione
al generale contesto di classe nel quale si muovono gli individui
stessi), si mostrano completamente funzionali al dominio della merce. Il
presunto funzionamento spontaneo dei meccanismi orizzontali non è che
il calco del presunto funzionamento del mercato ottimale, e
l’antistatalismo di sinistra è concettualmente assai vicino a quello
mercatista; la ridiscussione incessante dell’identità è funzionale
all’assunzione di stili di vita plurali e mutevoli e quindi al consumo
di tipi assai differenziati di prodotti; la rivendicazione di sempre
nuovi diritti consente di costruire mercati di sbocco per tecnologie
sempre nuove, in cerca del proprio consumatore. E via di questo passo.
Una critica spietata, dicevo, che non potrà che irritare gli ambienti
della sinistra odierna, ma che certamente aiuterà coloro che da quegli
ambienti si stanno allontanando, accelerando il processo e rendendolo
più consapevole.
In
particolare però, come è ovvio data la provenienza dell’autore, la
polemica più argomentata e puntuta è quella riservata al postoperaismo e
allo stesso operaismo. Qui Formenti elenca accuse già formulate in
altri volumi: la commistione tra il “negrismo” e le utopie
tecno-scientifiche (non estranee a certe forme di semi-misticismo à la
Teilhard de Chardin), l’inconsistenza teorica delle tesi sul carattere
immateriale del lavoro, l’illusione dell’autonomia del lavoro cognitivo
rispetto al capitale. In particolare quest’ultima tesi mostra come il
postoperaismo sia l’ideologia delle frazioni maggiormente specializzate
(ed individualizzate) del lavoro che, in quanto la loro subordinazione
al capitale si realizza nella forma dell’apparente libertà e creatività
(quando invece il capitale organizza e preforma le stesse modalità di
erogazione del lavoro intellettuale e costruisce una pseudo-cooperazione
tra lavoratori sulla base di una spietata competizione) illudono sé
stessi dichiarando che è in realtà il capitale a dipendere dal
“cognitariato”. E, peggio ancora, dichiarano che il cognitariato stesso è
la forma generale di ogni lavoro, che tutto il lavoro è essenzialmente
uguale ed egualmente indipendente dal capitale, e che quindi non c’è
bisogno né di costruire un’alleanza politica tra le varie frazioni del
lavoro né di proporsi la riappropriazione per via politica dei mezzi di
produzione perché questi ultimi ormai si identificano con la mente
stessa dei lavoratori.
Come
se non bastasse Formenti rileva, e non posso che essere d’accordo, una
profonda consonanza fra queste teorie e gli aspetti progressisti ed
economicisti del marxismo che hanno nutrito sia la prassi
socialdemocratica che quella stalinista. Tali aspetti si condensano
nell’idea che lo sviluppo delle forze produttive sia di per sé ed
automaticamente un fattore di emancipazione sociale, e che basterebbe
intervenire sulle forme della proprietà e dello stato (blandamente nel
caso della socialdemocrazia, drasticamente nel caso dello stalinismo)
per liberare tutte le potenzialità dello sviluppo stesso. Il socialismo,
oppure la democratizzazione del capitalismo, si costruiscono insomma
con gli stessi materiali offerti dal capitalismo, con le stesse forze
produttive capitalistiche che non sono, in questa visione, una materia prima
da trasformare, ma un meccanismo già dato della nuova società: un
contenuto genericamente umano che attende soltanto di essere liberato
dalla sua esteriore e caduca veste giuridico-proprietaria. Questo
economicismo ha sempre e volutamente rimosso l’intima natura
capitalistica, gerarchica ed asimmetrica delle forze produttive, delle
macchine e della stessa crescente interconnessione dei processi
produttivi (interconnessione è qui un eufemismo per centralizzazione
capitalistica). Analogamente, il postoperaismo prende per buona la
retorica della “connessione universale” propria delle imprese digitali,
scambia la comunicazione col comunismo e rimuove le forme di controllo e
di gerarchia proprie del capitalismo digitale e la profonda divisione
trai lavoratori che esse inducono, in particolare nel campo
“cognitario”. Rilevare una tale analogia serve a Formenti non soltanto
come argomento polemico, ma come passaggio teorico per congedarsi da
qualcosa che è proprio non solo del postoperaismo, ma dello stesso
operaismo delle origini, ossia dall’idea che il soggetto rivoluzionario
debba essere cercato nel punto più alto, ossia tecnologicamente più
sviluppato, del capitalismo, e debba essere definito come l’elemento che
più di altri è interno ai processi d’innovazione organizzativa e che
proprio per questo è in grado, dialetticamente, di rovesciare il dominio
del capitale. Anche se empiricamente un tale soggetto può, in alcune
fasi, apparire poco numeroso o poco consapevole, è importante per
l’operaismo individuare una tendenza
che, a partire dall’analisi dei punti più dinamici del capitale, ne
deduce per l’immediato futuro l’ampliamento quantitativo e la crescita
della soggettività politica di una determinata figura di lavoratore, che
si candida a riassumere in sé le caratteristiche di tutte le altre
figure e ad essere l’unico e già costituito perno del processo
rivoluzionario. Secondo Formenti non soltanto le più recenti iperboli
negriane, ma anche l’originario metodo della “tendenza”, che pure – mi
permetto di aggiungere – si è accompagnato a suo tempo ad analisi assai
sobrie e realistiche della condizione dei lavoratori, deve essere
abbandonato, perché porta ad assolutizzare alcune figure del lavoro che
in realtà sono soltanto contingenti (così come fu contingente l’
“operaio massa” analizzato dai Quaderni Rossi) e perché, soprattutto, in
momenti di particolare latenza della lotta di classe, istiga ad
inventarsi fantasiosi soggetti e a vedere antagonismi che non esistono,
magari eludendo forme più spurie ma più effettuali dello scontro.
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Il soggetto congiunturale.
E’ a
questo punto che Formenti ci offre, a mio parere, una delle mosse
teoriche più importanti tra quelle che si possono reperire nel libro,
una mossa che ci consente non solo di meglio attrezzarci, come avviene
con le argomentazioni appena riassunte, alla polemica contro i prossimi
Tsipras (non scordiamo che quasi tutti i postoperaisti sono, in quanto
progressisti, assolutamente europeisti, succubi delle invisibili
sovranità imperialistiche nascoste sotto la prassi tecnocratica
unionista e feroci avversari di ogni visibile sovranità democratica, massime
di quella nazionale…), ma anche di approssimarci ad una più razionale
concezione del soggetto rivoluzionario. Tale soggetto, a parere di
Formenti, non può essere dedotto da categorie sociologiche, non può
essere desunto dalle dinamiche generali del capitale, ma può essere
individuato solo in seguito ad una “analisi concreta della situazione
concreta”, condotta in ciascuna specifica congiuntura della lotta di
classe. Non si può quindi prevedere
quale sia il soggetto (o, meglio, la convergenza di diversi soggetti)
che di volta in volta diviene protagonista dei conflitti: la rivolta e
le sue forme sono, aggiungo, per definizione imprevedibili proprio perché fuoriescono dalla routine della riproduzione del capitalismo. Questo semplice gesto teorico materialista
fa piazza pulita di decenni di elucubrazioni andate a vuoto e ci induce
a guardare alla realtà dello scontro politico, ai suoi protagonisti
molto spesso “brutti, sporchi e cattivi” piuttosto che alle bellissime
figure iperrivoluzionarie (l’operaio massa, poi l’operaio sociale, poi
il volontariato, poi la moltitudine, poi le associazioni, poi il
cognitariato) che poco hanno a che vedere con la verità, ma ben si
conciliano con le preferenze degli intellettuali, soprattutto quando
questi possono affermare che sono gli intellettuali stessi, ossia il
lavoro intellettuale, il vero protagonista della cooperazione sociale e
della futura società. E ci aiuta, il gesto di Formenti, a progredire
verso una concezione formale e quindi non sostanziale del soggetto rivoluzionario: il soggetto è un che cosa prima che un chi, bisogna prima di tutto definire che cosa
dovrebbe fare, in ogni determinata situazione, un soggetto sociale per
iniziare a scardinare l’ordine esistente, e poi analizzare senza
pregiudizi la situazione per verificare chi stia di fatto assolvendo per il momento e magari in modo inadeguato a questo compito.
Formenti
però dice qualcosa di più. Dice che il soggetto non va cercato nei
punti alti, bensì nei punti bassi, non nel vertice della
modernizzazione, ma nelle resistenze alla modernizzazione stessa, non
nel centro ma nella periferia, non nella scelta etico-estetica degli insider, ma nella ribellione disperata degli outsider. Si può concordare con questa definizione se ed in quanto si presenta come analisi congiunturale, meno se essa diviene una generale indicazione di metodo.
Ed in effetti qui Formenti sembra rispolverare in qualche modo il
metodo della tendenza, ossia sembra stabilire una sorta di rapporto
univoco tra lo sviluppo del capitalismo e quello del suo antagonista,
solo che si tratta, in questo caso, di un rapporto inverso
rispetto a quello stabilito dal postoperaismo: invece di cercare sempre
in alto, Formenti ci invita a cercare sempre in basso. Più che di alto o
di basso io preferirei parlare di asincronia del soggetto: non c’è nessun rapporto tra le dinamiche di medio-lungo periodo del capitale e la natura particolare
del soggetto che in un determinato momento innalza la bandiera
dell’emancipazione. Tale soggetto non è il frutto né della
modernizzazione né della sua negazione, è semplicemente effetto di una
congiuntura non prevedibile, in cui possono giocare un ruolo
“sovversivo” sia le promesse della modernità sia le resistenze ad essa.
Un soggetto asincrono, ossia fuori tempo,
che può essere tale sia per il richiamo al passato comunitario sia per
la speranza nelle promesse del futuro. E qui si apre un’ulteriore
questione. Cosa vuol dire essere “fuori” dal capitalismo? Cosa vuol dire
essere fuori oggi,
ossia nell’epoca della produzione di massa dell’individualità e della
produzione industriale delle forme di socialità? Sono convincenti le
osservazioni di Formenti sul ruolo delle tradizioni comunitarie russe
nella formazione dei soviet, della cultura campesindia nell’esperienza
latinoamericana, della comune appartenenza meridionale come collante
dell’azione degli operai degli anni ‘70. Ma come ritrovare oggi analoghi
supporti comunitari (e dunque extra-capitalistici), e come fare in modo
che tali supporti non giochino, piuttosto un ruolo reazionario (come
accade col leghismo ma anche con alcune forme di autoisolamento ed
autodifesa delle comunità di immigrati)?. Forse si tratta di sviluppare,
al riguardo, una vecchia osservazione di Etienne Balibar, secondo il
quale più che di proletariato si deve parlare di processo di proletarizzazione:
la “classe” è il frutto del continuo passaggio da una condizione non
proletaria ad una proletaria, oppure da una condizione proletaria ad una
maggiormente proletarizzata perché maggiormente sfruttata. Anche dentro
il capitalismo c’è dunque sempre un passato da rivendicare, magari da
mitizzare, un tempo di ieri su cui appoggiarsi per poter credere
possibile il tempo di domani. La “periferia” del capitalismo, il passato
che è condizione del futuro, non sempre o non necessariamente è
appannaggio dei rapporti sociali precapitalistici: può anche essere il
prodotto del movimento incessante della modernizzazione che sempre
distrugge o rende periferiche
le forme di vita precedenti (anche quelle già capitalistiche ma non più
confacenti alle aumentate esigenze dell’accumulazione). Un movimento
che, in quanto è eterodiretto, è subìto dai soggetti: cosa che alimenta continuamente, per reazione, il ricordo di un mondo diverso e migliore.
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Il campo populista.
Qualunque
sia il “fuori” da cui parte la rivolta e qualunque sia il particolare
soggetto sociale che in ogni diversa situazione ne è il principale
attore, si deve convenire con Formenti quando dice che le più efficaci
rivolte attuali non possono che essere populiste. Del resto, se la
compattezza sociologica della classe è stata programmaticamente
dissolta, se l’efficacia politica della sua lotta è stata
consapevolmente ostacolata, se i grandi partiti di massa sono stati
visti come la ragione di ogni male e se gli spazi di espressione
democratica si sono drasticamente chiusi a svantaggio dei lavoratori, è
assolutamente inevitabile che la stessa lotta di classe
si presenti come populista. A rafforzare le considerazioni di Formenti
ne aggiungerei un’altra: rileggendo in chiave non economicista o
evoluzionista la dialettica tra forma sociale della produzione e forma
privata dell’appropriazione (che è uno dei nomi della contraddizione tra
forze produttive e rapporti di produzioni di cui giustamente Formenti
critica le precedenti formulazioni), si nota come nelle previsioni di
Marx, largamente inveratesi nel capitalismo occidentale degli anni ’70,
la dinamica dell’accumulazione conduce ad una dispersione della proprietà (società per azioni) e ad una concentrazione dei lavoratori
(grande industria), facilitando così la lotta sindacale e la sua
trasformazione in lotta socialista. Al contrario, nella realtà attuale
(e per il momento), assistiamo alla concentrazione della proprietà azionaria, o comunque parcellare, all’interno delle grandi istituzioni d’investimento, e ad una parallela dispersione del lavoro
che fa sì che la lotta di classe, se e quando riesce ad esprimersi, non
lo fa come lotta sindacale e poi politica, ma come generica lotta di
cittadinanza che sovente è immediatamente politica,
assumendo così forme sociologicamente spurie ma certamente più efficaci
della abituale lotta “tradeunionista” nel contrastare la politica dello
stato capitalistico. E’ per questo che la lotta di cittadinanza, veste
spesso assunta dalla lotta populista, non deve essere considerata sempre
come un’elusione della lotta di classe, ma può essere intesa, in
determinate condizioni, come effetto di un produttivo spostamento della lotta di classe stessa.
Il
populismo, e qui torniamo direttamente a Formenti, non è quindi un
nemico da esorcizzare ma è piuttosto la forma storicamente determinata
della lotta di classe, è un campo
nel quale bisogna situarsi senza timore, per meglio condurre una
battaglia per l’egemonia finalizzata a trasformare il populismo stesso
in una direzione coerentemente anticapitalista e socialista,
sconfiggendone le inevitabili e ben radicate tendenze di destra.
Situarsi nel campo del populismo: ecco un’altra cosa che non mancherà di
scandalizzare la sinistra benpensante, perché è cosa ben diversa dal
tentare, come si dice, di “riconquistare il nostro popolo” spostandolo
su un terreno (quello dell’ordinata competizione elettorale, degli
oliati meccanismi di governance, della tranquillizzante dialettica tra
società civile e stato) sul quale esso non può
esprimere la propria incompatibilità sostanziale con le dinamiche
dell’ordine attuale. Si tratta invece per Formenti di accettare in toto
l’ambivalenza populista (ma è forse meno ambivalente la lotta di
classe, che produce sia i consigli operai che i sindacati reazionari?)
per tentare di torcerla in una direzione di emancipazione, e non di
sostegno a qualcuna delle divere frazioni delle classi dominanti.
L’analisi
concreta di numerose esperienze di mobilitazione tendenzialmente o
compiutamente populiste in America latina, negli Stati Uniti ed in
Europa, analisi che è una delle parti più vivaci del libro, mostra
quante forme il populismo possa assumere e quali difficoltà e
potenzialità incontri il progetto di un’egemonia di classe e socialista.
Questa lotta per l’egemonia sarebbe forse avvantaggiata, credo, da una
distinzione concettuale che consenta di tracciare un pur mobile confine
tra populismo e socialismo. Riservandomi di tornare in altra sede su
questo tema assai intricato, osservo che quasi tutte le caratteristiche
del populismo indicate da Formenti (anche sulla scorta degli ottimi
lavori di Loris Caruso) descrivono una forma di mobilitazione
che può effettivamente essere considerata spesse volte comune sia a
movimenti classisti che a movimenti interclassisti. Ma tale forma di
mobilitazione deve essere distinta dal populismo come forma di stato
che, a mio parere, è invece incompatibile col socialismo. Mi spiego
meglio. Aspetti fondamentali delle attuali esperienze populiste sono la
netta distinzione tra “noi” e “loro”(e tra “alto” e “basso”), il
carattere spesso aclassista della definizione del “noi”, il
depotenziamento della distinzione tra destra e sinistra, la difesa dei
luoghi contro i flussi, il rifiuto di tutte le forme di mediazione,
l’identificazione con un leader carismatico. Orbene, andando alla
rinfusa, nel corso di una mobilitazione
l’aclassismo del “noi” può essere effetto della positiva compresenza di
numerose e distinte frazioni delle classi subalterne, il superamento
della distinzione tra destra e sinistra può essere una salutare presa
d’atto della subalternità di entrambe le opzioni, la difesa del luogo
contro il capitalismo finanziario può indurre a cercare alleanze con
altri luoghi, l’opposizione radicale tra noi e loro ed il rifiuto della
mediazione possono segnare l’acutizzarsi della mobilitazione, ed il
leaderismo carismatico può svolgere una parte delle funzioni del
gramsciano “cesarismo progressivo”. Ma quando queste forme di
mobilitazione si fissano in un programma politico o, peggio, in un progetto di stato,
esse si coagulano in una forma inequivocabilmente autoritaria e di
destra, perché stabilmente interclassista, nemica del conflitto sociale,
fondata sull’identificazione organica tra popolo, leader e stato,
contraria ad ogni corpo intermedio e soprattutto alla fondamentale
mediazione del diritto e della costituzione. Non è un caso se, tra le
esperienze analizzate da Formenti, quella che maggiormente si avvicina
ad un’emancipazione di tipo socialista è proprio quella che meno
somiglia ad uno stato populista, ossia l’esperienza boliviana, che si
realizza nel rapporto tra una serie di robusti corpi sociali intermedi,
un partito che non è una semplice macchina al servizio del leader e uno
stato costituzionale estremamente inclusivo. Ed anche nella presenza di un leader altamente carismatico che però non è affatto il perno centrale della legittimazione politica.
La
distinzione qui proposta tra populismo come forma di mobilitazione,
aperta a diversi esiti, e populismo come forma di stato, organicamente
autoritaria e reazionaria, può, io credo, dialogare utilmente con le
tesi di Formenti anche perché una delle caratteristiche dell’autore,
caratteristica che segna un suo ulteriore allontanamento dal paradigma
originario, è il riconoscere l’assoluta esigenza, per i movimenti
sociali e di classe, di non cullarsi nell’illusione di un
autosufficiente orizzontalismo e di accettare la necessità di farsi stato
se si vogliono realmente raggiungere gli obiettivi declamati: e dunque,
aggiungo, di pensare ad una forma di stato non organicista né
autoritaria. Pur dichiarando a più riprese la propria preferenza per le
forme di democrazia diretta e consiliare Formenti dunque non elude il
nodo dello stato (e addirittura della sovranità nazionale,
laddove troppi si fermano pudicamente alla rivendicazione della
sovranità popolare), semplicemente perché sa che soltanto coloro che
riescono a vivacchiare nella situazione presente possono evitare il
problema, mentre coloro che devono ribaltare la situazione presente non
possono fare a meno di pensare ad uno stato nuovo, in cui la sovranità
popolare non venga né dissolta nei flussi del mercato, né irrigidita
nella comunità organica, ma si realizzi nella legittimazione della
differenza e del conflitto tra stato democratico-socialista e
associazioni autonome dei lavoratori e dei cittadini. Qui si apre,
finalmente, il vasto e da molto tempo inesplorato spazio della dialettica tra stato e non stato
(una dialettica frettolosamente rimossa dalle speculari fissazioni
dello statalismo e dell’antistatalismo), che tanto più costituirà un
oggetto di indagine quanto più il nesso tra la crisi e la crescita del
movimento reale porrà nuovamente il problema della trasformazione
sociale come problema concreto.
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Il ritorno del rimosso.
Fin
qui ho elencato diversi meriti del lavoro di Formenti. Ma ce n’è un
altro, forse meno visibile ma, in prospettiva, non meno importante. La
critica costante del modello postoperaista ed il confronto costante con
gli effetti della crisi economica, sociale e geopolitica attuale hanno
infatti condotto Formenti a frequentare alcuni temi teorici notevolmente
astratti (e quindi notevolmente vicini all’essenza dei problemi) di cui
non si parla più quantomeno dagli anni ’80 dello scorso secolo, ossia
da quando si è interrotta la pensabilità della trasformazione sociale,
ma che tornano ad essere posti proprio da quella riapertura della storia
che si riassume nella fine del mondo unipolare. La questione del
superamento dell’economicismo e quindi dell’abbandono dell’idea di
neutralità delle forze produttive, fu oggetto di grande discussione a
partire da materiali eterogenei ma pregnanti quali l’esperienza della
Rivoluzione culturale cinese, la riflessione di Charles Bettelheim, le
stesse tesi di Panzieri sull’uso capitalistico delle macchine. La
questione dell’impossibilità di pensare la transizione al comunismo come
analoga alla transizione tra feudalesimo e capitalismo, a cui Formenti
dedica un breve ma interessante cenno, fu uno degli oggetti di un
importante dibattito sui modi di produzione precapitalistici in cui non
pochi sostennero che le passate forme di società andavano considerate
come forme autonome e non come imperfette approssimazioni alla
razionalità capitalista. Il che autorizzava a dire che, specularmente,
il comunismo non poteva essere pensato come prosecuzione e
perfezionamento di tale razionalità, e cioè come sviluppo illimitato
delle forze produttive, ma come gestione ragionevole delle forze
produttive in funzione della riproduzione di rapporti sociali egualitari
consapevolmente scelti. Infine le questioni della natura congiunturale e
“causale” del soggetto, dello spostamento della contraddizione di
classe, della fallacia del progressismo furono diversamente discusse a
partire sia dai lavori di Lukács, a cui Formenti fa esplicitamente
cenno, che da quelli di Althusser e di Benjamin. Il tutto nel contesto
di una riflessione epistemologica che vantava i nomi di un Kuhn, di un
Lakatos, di un Feyerabend, prima che un uso ideologico della teoria
della complessità semplificasse ogni cosa dichiarando che il mondo era forse conoscibile, ma certo intrasformabile.
Dico
tutto ciò, riducendo ad un breve cenno ciò che dovrebbe essere oggetto
di una attenta riflessione collettiva, non perché nelle discussioni di
allora vi fossero le verità necessarie all’oggi, ma perché è importante
capire che non si parte da zero, e che se si è indotti a ritornare ai
punti alti della teoria ciò è sintomo del fatto che le cose si fanno
davvero serie. E il libro di Formenti ci aiuta certamente a comprendere
la serietà delle cose, ossia la loro radicalità, e la necessità di un
lavoro teorico ad ampio raggio che di questa radicalità sia espressione e
condizione.
Foto di Patrizia Cortellessa
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