Lo so, dovremmo esserci abituati, dovremmo avere ormai gli anticorpi, dovremmo non stupirci più. E forse neppure arrabbiarci. Eppure...
Eppure, al di là della rabbia, rimane un doppio quesito a cui non è facile trovare soluzione. Il primo riguarda il totale scollamento della classe politica, specialmente quella di governo (centrale e locale), dalla società: i rappresentanti dai rappresentati, gli eletti dagli elettori. Quando poi gli eletti lo sono grazie a una legge incostituzionale, oppure non hanno ricevuto alcun mandato parlamentare, neppure per tal via (si ricordi il caso clamoroso di Matteo Renzi), la cosa diventa evidentemente più grave.
In breve, lor signori se ne infischiano di quello che "la gente", ossia il popolo, il demos fondamento della "democrazia", chiede. Hanno "straperso" (cito Renzi) al referendum, e hanno fatto in tutta tranquillità un governo del "Sì". Hanno conservato al potere tutti coloro che si erano contraddistinti per accanimento nella campagna per l'approvazione della "riforma costituzionale", e addirittura hanno promosso la signora Maria Elena Boschi: un vero e proprio calcio in faccia a 20 milioni di cittadini e cittadine. E così, vanno avanti per la loro strada, incuranti, ciechi, sordi, insopportabilmente autoreferenziali, o semplicemente piegati ai veri loro "elettori": grandi banche, alta finanza, cartelli di imprenditori, BCE, e così via.
Ieri in Parlamento si è votato di nuovo a favore del TAV, opera sciagurata, costosissima, e fonte di guai, per tutti. Ogni studio di settore, geologico, economico, sociologico, paesaggistico, ha dimostrato, con numeri veri (non quelli fasulli del fasullo “Osservatorio” governativo), che il “supertreno” in Val di Susa non ha senso, e potrà portare benefici finanziari a pochi, sostanzialmente le ditte appaltatrici, e danni a tutti gli altri cittadini, e in primis ai valsusini, vessati, oppressi, da una vera e propria occupazione militare del territorio che dura da troppo tempo, con un incredibile accanimento di magistratura (la Procura di Torino) e forze dell’ordine, che in questo caso davvero sembrano le forze dell’ordine padronale. E allora: perché non sospenderla? perché non impiegare le risorse nelle opere utili, necessarie, improcrastinabili? Messa in sicurezza del territorio, misure di prevenzione antisismica, riassetto idrogeologico, per esempio... No. Si va avanti, imperterriti.
Altro esempio; i voucher, un insulto a chi lavora, un abominevole ritorno all’indietro, culturale prima che ideologico, e il Jobs act, un fallimento clamoroso, secondo dati certificati dall'Istat e da altri istituti: un ceto politico responsabile cancellerebbe gli uni e l'altro. Invece no, si va avanti. E l'orrido Poletti, ministro dei miei Lavoro, dopo aver lodato voucher e Jobs Act, se ne esce con una frase che è un capolavoro di imbecillità, un vero e proprio atto di guerra a una generazione che quelli come lui hanno costretto alla fuga da questo Paese condannato. Non nuovo a uscite come l’ultima, del 19 febbraio scorso, Poletti, che ha un curriculum scolastico di Istituto tecnico (e basta!), si permette di deridere i giovani che stanno fuori. Giovani con tanto di lauree, spesso dottorati e master, che la classe politica ha deciso scientemente di espellere, incurante dei danni sociali di medio e lungo termine che una tale decisione comporterà. Pochi giorni prima sempre lui, il “ministro cooperativo”, come è stato etichettato felicemente, aveva sentenziato: «110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni. Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più, si butta via del tempo che vale molto di più di quel mezzo voto».
Non ci ha neppure spiegato quale laurea si possa raggiungere a 21 anni (ma è poco pratico di università….: allora glielo spiego: a quell’età anche il più solerte studente potrebbe al massimo una Triennale che vale come il 2 di picche) E ha un’altra aggravante, quella di suo figlio, ultraquarantenne (non laureato, ça va sans dire!) che non ha avuto bisogno di emigrare, lavorando per uno dei tanti gangli del sistema cooperativistico una volta detto “rosso”, e in particolare per una cooperativa giornalistica che gode di lauti finanziamenti pubblici. Un altro insulto alle migliaia di giovani bravi, che si arrabattano con collaborazioni giornalistiche retribuite con oboli miserandi, non retribuite affatto. E naturalmente leggo sui giornali “il governo fa quadrato intorno al ministro del Lavoro”…
Ma cambiamo settore: e dal Lavoro (o meglio dal Non lavoro) passiamo all'istruzione? Stiamo aspettando che la nuova ministra, anch’essa priva di uno straccetto di laurea (forse persino di un vero diploma di Scuola superiore) cancelli la "Buona scuola": lo farà? No, non lo farà, magari al massimo proverà ad escogitare “aggiustamenti”, che forse finiranno per essere le classiche toppe peggio del buco. E, rimanendo nel settore, poiché non viene immediatamente ritirata la “riforma Gelmini”, che ha devastato gli atenei italiani? Oltre tutto una legge voluta e realizzata (la sola!) da Berlusconi. Allora il PD, sia pure senza barricate, era formalmente contrario. Da anni è al governo. Perché l’ha tenuta, quell’osceno “ridisegno” dell’Università italiana? Esiste l’istituto dell’abrogazione: la sola cosa da fare, in casi di leggi cattive e dannose, è tirare un tratto di penna: abrogare la Legge Gelmini, abrogare il Jobs act, abrogare la “buona scuola”, e aggiungo la cosiddetta “riforma della Pubblica Amministrazione, firmata dalla ministra Madia, bocciata clamorosamente dalla Corte costituzionale: risultato? La legge è là, operante, e la Madia è stata confermata al suo dicastero.
E così seguitando, in un infinito elenco di scorrettezze istituzionali, all’insegna di una gigantesca stoltezza politica. In fondo non ha senso lamentarsene. Questi governanti sono in grado di essere altro da sé? Possono essere all’altezza dei ruoli che ricoprono? La risposta è nei loro atti. In ciò che fanno quotidianamente e in ciò che non fanno. La politica richiede capacità di guardare lontano, la politica impone di interrogarsi sulle conseguenze degli atti compiuti, e trarne le conclusioni. Dopo la vittoria clamorosa del “No”, nessun ministro del governo Renzi avrebbe dovuto essere confermato. Si sarebbe dovuto fare un governo istituzionale il cui unico compito era portare il Paese alle elezioni. Si è fatto un Renzi bis senza Renzi, ma nella sua ombra. Scandalosamente, tanto più per coloro che (Boschi, Fedeli…) avevano garantito le proprie dimissioni dal governo o addirittura dal Parlamento in caso di bocciatura della “riforma”. Sono là, promosse entrambe. E vanno coi loro sodali avanti per la loro strada che non è la nostra. Vanno avanti, incuranti, sordi e ciechi davanti ai bisogni più evidenti del Paese, alle richieste più drammatiche della società, di quella parte sempre più ampia (dati Istat alla mano) di vecchi e nuovi poveri, di disoccupati, inoccupati, cassintegrati, di giovani o ex giovani senza futuro. I Poletti (un nome e direi anche ormai un volto simbolo), vanno avanti per una strada senza uscita, resistono alle loro scrivanie, mentre la casa brucia. Il Palazzo non si piega alla Piazza. Anche se nel Palazzo restano in pochi e la Piazza pullula di umanità scontenta e furiosa. Ma i Poletti sono tranquilli. Procedono. Restano. Governano. Un cupo “muoia Sansone con tutti i filistei” sembra guidare il loro agire.
Il secondo problema che mi pongo, riguarda la provenienza politica di larga parte di costoro, quelli del “Sì”, quelli del Tav, quelli del Jobs Act, quelli che l’articolo-18-è-superato, quelli della “Costituzione va aggiornata”, quelli dell’ “abbiamo una banca”…: ebbene, costoro da dove vengono? Dal PCI-PDS. E allora ti chiedi: ma come? Si sono formati nel Partito comunista? In quello di Enrico Berlinguer!? Certo non sono nati politicamente nel 1989. Allora qualche domanda su quella tradizione, o meglio sugli esiti di quella tradizione nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, quanto meno, bisognerà porsela.
Quando Berlinguer nella famosissima intervista a Eugenio Scalfari nel 1981, parlava della “degenerazione” dei partiti, divenuti mere “macchine di potere”, quanta consapevolezza aveva che il suo proprio partito era divenuto esattamente così? Forse era un timore che non osava confessare pubblicamene, forse un monito ai suoi e un avvertimento. Non lo sapremo mai, ma sappiamo che con la sua morte, pochi anni dopo, il freno che la sua figura in sè stessa costituiva, venne meno. E fu campo libero per le centinaia, le migliaia di Poletti che vivevano nel sottobosco della tradizione del PCI, una tradizione che col comunismo aveva ben poco a che fare, e che invece si era mischiata e fusa con ambienti del socialismo craxiano, con ambienti bancari, imprenditoriali, ecclesiastici (a cominciare dalla cattolicissima Compagnia delle Opere).
La mutazione genetica del Partito non è iniziata con la Bolognina di Achille Occhetto, ma era in corso da tempo, da molto tempo. E oggi, ahinoi, dobbiamo constatare che proprio coloro che ne provengono sono i più fervidi esecutori delle politiche di aggressione alla democrazia e delle pratiche di disgregazione sociale. Un tragico paradosso per chi aveva creduto nella giustizia, nell’eguaglianza, nella libertà. Per fortuna, potremmo concludere, sono tutti morti. E i sopravvissuti non sembrano aver conservato neppure memoria di un tempo in cui essere comunista significava, essenzialmente, due cose: essere onesti e stare “dalla parte” del proletariato.
(23 dicembre 2016)
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