venerdì 30 dicembre 2016

La Classe dirigente si salva sempre. Quella vergogna del sangue infetto.


600 morti di Aids ed epatite C. Ma le imputazioni per Poggiolini e soci sono quasi tutte prescritte. E ora al processo...

L'Espresso Sara Lucaroni
Duilio Poggiolini oggi ha 88 anni. Non è più il Re Mida della Sanità, com’era stato soprannominato quando era direttore generale del servizio farmaceutico del Ministero - e membro della Loggia P2. Ma è ancora un imputato per quello che accade in quegli anni, in Italia. Tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta.  Quando migliaia di persone sono state infettate con il virus di HIV e epatite C tramite la trasfusione di sangue ed emoderivati infetti e non controllati. Una scia di morte e di dolore che non è ancora finita. Come non sono finiti i processi nelle aule giudiziarie.

Cristina, ad esempio, pensa ancora al luglio 1987. Aveva 27 anni, la sua vita era al massimo. Ma il cesareo non era andato bene e 12 giorni dopo ha rischiato di morire per una emorragia post partum. L’ha salvata il primario appena rientrato dalle ferie, con le sacche di sangue di 14 donatori, di cui sette occasionali e irreperibili. Uno aveva l’epatite. La C, la più diffusa in Italia, genotipo 1B, tipico dei politrasfusi. Quaranta giorni dopo Cristina aveva gli occhi in sub-ittero e un neonato da accudire. Una vita di day-hospital, di cicli di Interferone, di complicazioni, di artrite migrante.


A quegli anni pensa anche Aroldo, manager già in pensione quando il medico gli comunica che ha il virus Hiv.  Una vita di lavoro in tutto il mondo sempre in compagnia di sua moglie. Che non dubita un attimo della sua fedeltà.«Cinque amici hanno giurato per iscritto sulla mia moralità, un’umiliazione servita per intentare la causa di risarcimento al Ministero della Salute», dice. Sono 20 pillole al giorno per sempre, il cuore malato e la neuropatia che gli inchioda le gambe. Era il 1996, dopo un’emorragia interna per un medicinale sbagliato gli fanno 22 trasfusioni di sangue e 12 di plasma. Una sacca era ancora sotto il periodo finestra del test “Elisa”, con cui si valutava la presenza del virus. «Che c’era, ma nessuno lo aveva comunicato».

Poi c’è Carlo, che pensa al suo fratello gemello Antonio, che già in quinta superiore aveva sempre l’herpes e la candidosi in bocca. Finivano gli anni Ottanta. Era stato Antonio a scartabellare tra gli esami richiesti dalla legge 210 del 1992 per l’indennizzo ai contagiati da trasfusioni, vaccini ed emoderivati infetti, e scoprire quel che i genitori gli avevano nascosto, l’Hiv. Oltre all’epatite, che avevano entrambi già a due anni. Essere emofiliaci vuole dire che il sangue non coagula perché non ha il “fattore VIII”. Il rischio di emorragie costringe ad assumerlo a vita. «Prima che arrivassero i prodotti sintetici era estratto dal plasma umano. Due infusioni a settimana, cento all’anno, mille donatori, di cui basta un untore a flacone», dice. Già da piccoli si facevano le infusioni da soli. Antonio controllava che Carlo non buttasse via le medicine. Dissero ad un amico dell’Hiv e lui pianse perché in quei giorni anche Freddy Mercury non ce l’aveva fatta e la morte era entrata nelle loro vite di ragazzi. Ad Antonio l’infezione lo ha consumato piano piano: necrosi alle anche, poi i reni bruciati, le dialisi. Carlo non lo lascia solo un attimo: non studia, non lavora, vivere è un’urgenza per chi non muore a trent’anni. «Quando l’ho visto sul letto senza vita, volevo essere lui. Mi sento in colpa perché io sono ancora vivo», spiega Carlo. E poi: «Noi siamo una nicchia rispetto ai politrasfusi».

Il “nesso causale”

La “nicchia” di cui parla Carlo riguarda 2.500 emofiliaci infettati con epatite C, il 40 per cento anche con l’Hiv, entrambe contratte tra il 1970 e il 1987. Suo fratello è tra i nove casi non caduti in prescrizione e a rappresentanza delle altre 600 morti accertate per aver utilizzato in quegli anni plasmaderivati non controllati, oggi parte civile nel processo “Plasma infetto” a Napoli, partito l’11 aprile scorso. Imputato è ancora Poggiolini, con un ex infermiere del Cardarelli di Napoli, due rappresentanti della Co.pla, specializzata nella raccolta e trasporto di plasma, e sei ex manager all’epoca impiegati nelle aziende del colosso farmaceutico fondato da Guelfo Marcucci, anche lui imputato ma scomparso nel dicembre scorso. Questi ultimi soprattutto dovranno dimostrare al giudice Gaetano Palumbo l’estraneità dei loro prodotti plasmaderivati ai contagi. Omicidio colposo plurimo. Si farà una perizia medico-scientifica per stabilire il “nesso eziologico” tra somministrazioni e patologie: al vaglio i metodi per evitare i contagi, le conoscenze medico-scientifiche dell’epoca, la valutazione dei rischi. Un traguardo dopo tappe complicate: faldoni abbandonati per anni, errori di notifica, richiesta di proscioglimento di tre imputati dal pm Lucio Giugliano, eccezione sull’“incapacità di partecipare al processo per gravi ragioni di salute” di Poggiolini, richiesta di archiviazione avanzata nel 2005 dalla stessa Procura di Napoli, ritenendo prescritta la maggior parte dei casi e l’impossibilità di collegare l’infezione ad un farmaco specifico e quindi ad un nome. Lo pensano anche i difensori degli imputati, che nell’udienza del 6 giugno scorso hanno ribadito che «si illudono da anni le parti civili. Si vuol fare un processo fenomeno». «Ora il collegio peritale c’è. Hanno messo in discussione che si dovesse fare questo processo, ed è offensivo per quei morti», commenta l’avvocato Ermanno Zancla, che con Stefano Bertone rappresenta alcune delle parti civili.

Il plasma degli altri
C’è la corrispondenza e i carteggi degli anni Ottanta delle case farmaceutiche americane Baxter, Bayer, Aventis Behring, Alpha. Il plasma proviene da donatori mercenari a rischio: tossicodipendenti e carcerati di Arkansas, Louisiana, Alabama e paesi del Terzo Mondo. Ci sono gli annunci per la raccolta pubblicati sulle riviste per omosessuali e carteggi sullo smaltimento di lotti. Documenti che nel 2003 vengono presentati da tremila malati da 25 paesi, tra cui 430 italiani, al tribunale federale di Chicago per accusare le industrie di aver prodotto plasmaderivati che trasmisero Hiv e/o Hcv senza segnalare i rischi di cui erano a conoscenza. «Le case hanno risarcito», spiega Bertone, che con Zancla ha seguito l’azione legale. «Abbiamo documentato gli standard di condotta a cui si sarebbero dovute attenere, standard che valgono anche per le aziende italiane», spiegano gli avvocati.

“Piano Sangue” operativo solo nel 1994, pochi controlli o poco efficaci, sottovalutazione dei pericoli, sangue “locale” non sufficiente. E irregolarità: all’inizio degli anni Novanta anche in Italia il numero di emofiliaci contagiati da epatite B e C e Hiv varcò la soglia del sospetto. Negli anni Settanta e Ottanta il 90% di plasma ed emoderivati era statunitense. Le multinazionali concentravano in pools la materia prima di due o cinquemila persone, spedita liofilizzata in tutto il mondo.

Le aziende italiane raccoglievano le donazioni nazionali, ma usavano molto quei broker esteri. “Logiche industriali”. Il test per l’Hiv arriva nel 1985, quello per l’epatite C nel 1989. Il Consiglio Europeo vietò l’uso di sangue proveniente da donatori pagati. Dopo una serie di decreti sugli screening e le polemiche sullo smaltimento delle scorte, nel 1993 il ministero della Salute impose la distruzione di prodotti in magazzino non sicuri.

A Trento la Guardia di Finanza indagava su una vicenda di corruzione quando il 30 maggio 1995 scopre nelle celle frigorifere sette e otto dei magazzini generali di Padova, tra merluzzi e verdura, 60 tonnellate di materiali biologici e 35 di sacche di plasma umano congelato. Apparteneva a Co.Pla, ma soprattutto alla Sclavo (acquisita nel 1990 dal gruppo Marcucci). Era in regola. Ma le cinque tonnellate più altri prodotti appartenenti alla Padmore (che risultò una offshore con sede alle Isole Vergini, fondata per conto della stessa Sclavo solo dopo averle venduto quel materiale non più utilizzabile in Italia e del valore di 13 miliardi di lire) risulteranno scadute e contaminate. Mentre cercano la Padmore, i finanzieri sequestrano carte, campioni e scoprono che in archivio la Sclavo “non aveva documentazione in ordine alla provenienza e genuinità di parte dei prodotti rinvenuti”, e anche che “era in possesso di documentazione attestante prodotti non reperiti, verosimilmente avviati alla produzione”, ricorda nel 2007 il gip di Napoli Maria Vittoria De Simone.

Duilio Poggiolini, condannato nel 2012 a risarcire con 5 milioni di euro lo Stato per le tangenti ricevute dalle case farmaceutiche tra il 1982 e il 1992 nell’ambito delle indagini di Tangentopoli, finì nell’inchiesta di Trento come responsabile delle autorizzazioni alle industrie per l’importazione di plasma dall’estero.

I magistrati ipotizzarono un legame tra i contagi e la condotta di Poggiolini e le aziende. E tra l’infezione contratta da 283 persone (i dati che fornì il ministero: 409 deceduti per Aids, 924 infettati da Hiv, 2.142 dall’epatite C e 443 dalla B, 86 partner di emofiliaci deceduti) e alcuni prodotti provenienti dai laboratori dei Marcucci. Sette anni di indagini e due milioni di pagine dopo, udienza preliminare nel 2001. Epidemia colposa e due filoni. Il primo per quattro prodotti emoderivati del gruppo (Farmabiagini, Aima Derivati, Isi): 26 indagati (poi 12) tra cui Poggiolini e Guelfo Marcucci. Il secondo, per 6 prodotti stranieri: coinvolte l’austriaca Immuno e le americane Baxter e Bayer (questa con due marchi distribuiti da Sclavo). Il filone delle straniere verrà archiviato a Napoli nel 2008, per problemi con le rogatorie prima e prescrizione poi. Il primo, dopo il proscioglimento nel 2004 degli imputati Guelfo e Paolo Marcucci per epidemia dolosa («Non ci sono state infezioni da emoderivati accertate in Italia dopo il 1994», dice la motivazione), il Tribunale di Trento trasferisce a Napoli per competenza territoriale. A Napoli si archivia il reato di epidemia colposa perché caduto in prescrizione, ma nel 2007 il gip De Simone ordina l’imputazione per omicidio colposo plurimo.

La guerra dei risarcimenti
Tutto il sangue non controllato tra gli anni 1970 e 1990 ha coinvolto anche talassici e trasfusi occasionali. Gli italiani infettati da Hiv o epatite sarebbero 120 mila, 4.500 le vittime. Solo 30 mila ricevono un indennizzo bimestrale riconosciuto dalla legge 210 del 1992: 500-700 euro al mese per medicinali e ticket sanitari a carico. Nel 2007 con le leggi 222 e 244 lo Stato ha previsto un risarcimento in base al danno per ogni malato, con un tetto massimo di circa 620 mila euro, ma il decreto ministeriale 162 del 2012 ha escluso la maggior parte di quelle domande (risarcimento non riconosciuto a trasfusioni prima del 1978 e a chi aveva iniziato una causa oltre cinque anni dal primo riconoscimento del danno biologico).

«Ci sono 66.000 pratiche aperte. Ogni settimana un tribunale condanna il ministero della Salute a risarcire persone infettate a causa degli omessi controlli, alle quali è stato riconosciuto il nesso causale fra trasfusioni e malattia. Il ministero si appella, ma quando le sentenze passano in giudicato non paga», spiega Giovanni Del Giaccio, giornalista e autore del libro “Sangue sporco”. Cifre che possono superare il milione di euro. Lungaggini per le quali l’Italia a gennaio è stata nuovamente condannata dalla Corte di Strasburgo a pagare 20 milioni di euro per risarcire 371 contagiati. «Non c’è il database di chi ha ottenuto il nesso causale tra infezione e malattia. Secondo noi sono 100 mila», spiega Andrea Spinetti del comitato “Vittime sangue infetto”. «Per 7.000 è stato attivato un corridoio transattivo, ma molti non possono accedere per decorrenza dei termini, nessuna ascrivibilità tabellare, ovvero stanno troppo “bene” per i parametri ministeriali. Oppure per pratiche bloccate, sentenze passate in giudicato ma in attesa di giudizio di ottemperanza del giudice amministrativo. Non pagano, i beni della pubblica amministrazione non sono pignorabili e si è costretti a rivolgersi al Tar per la nomina di un commissario che proceda con la liquidazione», conclude Spinetti. Le legge 114 del 2014 voluta dal governo Renzi stabilisce invece l’assegnazione della somma forfettaria di 100 mila euro. Ma anche chi ha deciso di accettare sa che non esiste prezzo che ripaghi una vita rubata.

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