globalproject Shaden Ghazal
"Qui invenit amicum invenit thesaurum” insegna un noto proverbio e Benjamin Netanyahu l’ha capito bene.
Amicizie
tradite, nuove alleanze, illusioni e disillusioni, ripicche e vendette:
gli ultimi aggiornamenti sembrano quasi parte di un copione di una
qualche telenovela argentina se non fosse che parliamo dell’assurda
realtà e gli attori in questione decidono le sorti del mondo.
La
risoluzione 2334, approvata dal Consiglio di Sicurezza lo scorso 23
dicembre e che ha visto la storica astensione degli Stati Uniti, sta
provocando diverse reazioni provenienti da tutto il panorama politico
internazionale.
Essa condanna apertamente “
ogni misura intesa ad alterare la composizione demografica, le
caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati dal 1967,
compresa Gerusalemme est, riguardante, tra gli altri: la costruzione ed
espansione di colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la
confisca di terre, la demolizione di case e lo spostamento di civili
palestinesi, in violazione delle leggi umanitarie internazionali”.
Una
simile risoluzione fu avanzata nel 2011, in un periodo molto delicato
per il Medio Oriente, in cui un esito diverso avrebbe potuto aprire
altri scenari. In quell’occasione, però, non fu approvata proprio per il veto posto dalla prima amministrazione Obama.
Invece,
questa volta già nei giorni precedenti il voto, Israele aveva capito
che i fatti sarebbero andati diversamente da quanto sperato: neanche
l’opzione “Trump” è servita a cambiare le carte in tavola.
Il
tycoon, infatti, aveva addirittura chiamato il presidente egiziano Al
Sisi convincendolo a ritirare temporaneamente la risoluzione sugli
insediamenti israeliani, poi passata grazie alla spinta di Senegal,
Nuova Zelanda, Venezuela e Malesia. D’altronde va ricordato, restando
sul romantico tema dell’amicizia, che Trump, in piena campagna
elettorale, promise ad Al Sisi una “leale amicizia, e non solo una
semplice alleanza”.
Se è vero
che l’ultima astensione americana potrebbe sembrare, a una prima
superficiale analisi, un leggerissimo cambio di rotta rispetto alle
politiche degli ultimi anni, quello che più stupisce -e preoccupa- è
l’intervento di Trump in questa faccenda: basterebbe guardare il profilo
twitter del neo presidente americano che chiede a Israele di resistere
fino al 20 gennaio, quando tutto cambierà.
Ma tornando a noi..
Non
è mancata la reazione del capo della Knesset il quale, ha già convocato
gli ambasciatori dei paesi che hanno votato a favore, primi tra tutti
Senegal e Nuova Zelanda.
Tzipi
Hotovely, deputata del Ministero degli Esteri, ha annunciato che il
governo ridurrà i legami con quei paesi che hanno votato a favore della
risoluzione, riducendo le visite diplomatiche e i lavori nelle
ambasciate: “i paesi non possono pensare di fare pellegrinaggi in
Israele per imparare come combattere il terrorismo o per apprendere
diverse tecniche in campo agricolo e nel frattempo le Nazioni Unite si
comportano come vogliono”.
Bibi
la Furia, completamente fuori controllo e in preda a deliri di
onnipotenza, ma anche a qualche capriccio di troppo, sta mandando un
chiaro messaggio al mondo: Israele continuerà ad agire come ha sempre
fatto e non teme, o finge di non temere, grosse punizioni da parte della
comunità internazionale.
Del resto, quante sono le risoluzioni Onu che Israele ha violato nel corso degli anni? Tante, troppe. Da quanto tempo continua a beffarsi dei diritti umani e dei trattati internazionali?
Soprattutto
in un’era in cui la destra israeliana sta ancora più a destra, il Primo
ministro israeliano non ha intenzione di fare un passo indietro.
A
testimoniare quanto appena scritto, la notizia di qualche giorno fa del
nuovo piano per la costruzione di 618 unità abitative a Gerusalemme
Est.
Nulla di nuovo: quella
degli insediamenti è il cavallo di battaglia della politica israeliana, è
uno degli elementi di continuità che ha sempre contraddistinto lo stato
israeliano. Esattamente come scrive Fulvio Scaglione in un interessante
articolo del giugno 2016, “tra il 2009 e il 2014, Netanyahu ha
autorizzato ogni anno, come premier, la costruzione di 1.554 nuove case
nei Territori, mentre Ariel Sharon ne aveva autorizzate 1.881, Ehud
Olmert 1.774 ed Ehud Barak, nel suo primo anno di Governo (il 2000)
addirittura 5 mila (dati del ministero israeliano delle Costruzioni)”.
Eppure
stiamo entrando nel settantenario della famosa risoluzione 181 che
prevedeva l’esistenza di uno stato ebraico, dello stato palestinese e di
una zona internazionale che controllasse Gerusalemme.
Lo
stato israeliano sembra quindi soffrire di una gravissima forma di
Alzheimer (precoce, considerata la sua giovane età) e non sembra
ricordarsi di queste parentesi storico-politiche.
Infatti,
se mai avrete il piacere di chiedere al premier israeliano il perché
delle continue costruzioni a Gerusalemme Est, lui risponderà che la
Città Santa da 3000 anni è la capitale del popolo ebraico e che quindi è
legittimato a costruire quelle che il suo governo chiama “comunità” ma
che per il resto del mondo sono colonie, insediamenti. Impazzirebbe
Bibi se gli togliessero dalle mani Gerusalemme e se mettessero in
dubbio e in cattiva luce l’immagine dello stato che rappresenta, un po’
come fanno i bambini capricciosi con i propri giocattoli.
Ecco
perché ha deciso di punire i paesi che gli hanno voltato le spalle,
interrompendo, per esempio, i programmi di cooperazione con il Senegal,
paese che già vive profonde difficoltà economiche.
La Risoluzione 2334 non è l’unico elemento che ha fatto infuriare il capo della Knesset.
Qualche
giorno dopo, infatti, il segretario di stato americano uscente, John
Kerry, ha rincarato la dose con un discorso volto a giustificare il
mancato appoggio statunitense in quest’ultima occasione (dove per
mancato appoggio si intende la “semplice” astensione e non il voto
contrario!).
Ed è proprio Kerry
a parlare di eterna amicizia tra i due stati, ricordando a Israele
quanto costi all’America questo meraviglioso rapporto: i 38 miliardi di
dollari in dieci anni per le spese militari sono solo un piccolissimo
esempio.
Davvero commovente, chi non vorrebbe un amico così?
Ma
Netanyahu non si lascia scalfire dalle parole del segretario uscente
che invoca nuovamente la soluzione dei due stati, dichiarata dallo
stesso Kerry in pericolo, e ribatte accusandolo di condannare “la
politica che autorizza gli ebrei a vivere nella loro storica patria e
nella loro eterna capitale, Gerusalemme”.
Per
toglierci ogni dubbio, non troverete nessun trattato internazionale
in cui si parla di Gerusalemme come capitale di Israele, se non nella
Jerusalem Law varata dalla Knesset - e valida solo per il parlamento israeliano- nel 1980.
Mi
limito a citare solo questa parte della risposta del premier
israeliano, evitando, per non cadere nel gusto del patetico oltre che
dell’orrido, di riportare l'intero testo in cui parla di Israele come stato che rifiuta la guerra e di se stesso come uomo di pace.
Le amicizie vanno e vengono, ma i veri amori restano e siamo sicuri che tornerà presto il sereno tra Israele e Stati Uniti. In
tutto questo, viene da chiedersi dove siano i palestinesi:
l'unica parte non interpellata, quasi come se dovessero sempre subire,
impassibili, le conseguenze di scelte prese da altri.
Se
Abu Mazen è convinto che questa nuova risoluzione possa aprire la
strada a un ulteriore processo di pace, risulta difficile credere che la
società civile palestinese abbia tratto le stesse conclusioni,
soprattutto se pensiamo alle generazioni del post Oslo, cresciute nella
totale sfiducia nei confronti degli organi istituzionali.
Di
positivo resta il fatto che nell'ultima settimana si è tornato a
riparlare dei crimini commessi continuamente dallo stato israeliano.
Del resto, tra una risoluzione è un'altra, c'è una difficile
quotidianità in cui ogni semplice atto diventa atto di resistenza volto a
rivendicare il proprio diritto di esistere. Starà a noi non spegnere i
riflettori, soprattutto ora e soprattutto nell'era di Trump.
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