venerdì 23 dicembre 2016

Classe lavoratrice. Da Almaviva al gruppo Novelli, fino alle ex Lucchini e Alcoa: 2016, anno di crisi industriali (sulla pelle dei lavoratori).


Il Governo Gentiloni ha ereditato da Renzi (e in alcuni casi dai suoi predecessori) molte vertenze su cui si gioca il futuro di migliaia di lavoratori e di famiglie italiane: da Nord a Sud, secondo i dati del Mise, a giugno erano aperti 145 tavoli tra aziende e sindacati. Non soli i casi storici (Ilva e Alcoa su tutti), ma anche vicende relativamente nuove, come quelle di Selcom e Vesuvius.
Da Almaviva al gruppo Novelli, fino alle ex Lucchini e Alcoa: 2016, anno di crisi industriali (sulla pelle dei lavoratori)Dalla crisi dell’azienda di call center Almaviva Contact con un accordo saltato in piena bufera post referendum, al progetto di rilancio delle ex acciaierie Lucchini, a Piombino, fermo al palo. Nel mezzo anche il capitolo Ilva, il più grande impianto siderurgico a ciclo integrato d’Europa, il cui futuro (anche in termini di posti di lavoro) è tutt’altro che certo. Sono diverse le crisi aziendali ancora aperte in Italia, per alcune delle quali sono anni che non si trova una soluzione e con cui il nuovo Governo Gentiloni dovrà fare i conti. Nel frattempo, però, tra inchieste giudiziarie, bonifiche ambientali, vendite e acquisti, a farne le spese troppo spesso sono i posti di lavoro e, in generale, l’incertezza del futuro.
UN PO’ DI DATI – Secondo il terzo Rapporto sulla gestione delle crisi aziendali dell’Ugv (Unità per gestione delle vertenze delle imprese in crisi) del ministero dello Sviluppo Economico, a marzo di quest’anno erano attivi 148 tavoli, che nel 2015 hanno viste coinvolte 151 società. Le regioni più interessate a questi confronti sono state Lombardia, Lazio, Veneto, Campania ed Emilia-Romagna. Sul sito del Mise, la mappa dei tavoli è stata poi aggiornata a giugno scorso: 145 i tavoli aperti. Il settore maggiormente in crisi è quello dell’industria pesante, seguono quello delle telecomunicazioni, dell’elettronica e del tessile. Ma anche agroalimentare, chimica e petrolchimica, edilizia ed energia.

ALMAVIVA – Una delle trattative che vede più impegnato il governo, proprio in questi giorni, è quella che riguarda la crisi di Almaviva. A ottobre la società di call center Almaviva Contact ha annunciato l’apertura di una procedura di riduzione del personale all’interno di un nuovo piano di riorganizzazione aziendale. Il 6 dicembre, in piena bufera post referendum l’azienda ha ritirato la proposta di accordo “l’indisponibilità al confronto” dei sindacati, con i quali è ancora scontro aperto. Lunedì, 19 dicembre, è stato proclamato uno sciopero dopo che l’azienda “ha espresso la propria indisponibilità all’utilizzo della Cigs e ribadito il taglio secco del salario contrattuale dei lavoratori su tutte le sedi di Almaviva in Italia come unica soluzione alternativa ai licenziamenti” è la posizione delle sigle sindacali. Fallimentare l’incontro di lunedì con l’azienda nella trattativa portata avanti per cercare di salvare le due sedi (Roma e Napoli) del call center Almaviva Contact con i loro 2.511 dipendenti a rischio licenziamento.
L’azienda, a pochi minuti dall’inizio del tavolo di trattativa nell’ultimo giorno utile prima della spedizione delle lettere di licenziamento, ha ribadito la sua posizione. Poi è arrivata dal governo una proposta di mediazione che ha riaperto i giochi: la strada indicata e accolta con favore sia dai sindacati che dalla azienda è quella di proseguire il confronto, con il supporto e la vigilanza dell’esecutivo, sulla base del ricorso agli ammortizzatori sociali e della contestuale previsione di uscite a carattere esclusivamente volontario fino al 31 marzo 2017. Nel corso di questo periodo le parti si impegneranno a proseguire il confronto per individuare soluzioni in tema di recupero di efficienza e produttività in grado di allineare le sedi di Roma e Napoli alle altre sedi aziendali e interventi temporanei sul costo del lavoro. Ma anche qui non sono mancati i colpi di scena: dopo le trattative notturne, solo per la sede di Napoli è stato chiuso l’accordo, rifiutato invece dalla rappresentanza sindacale romana. Abbastanza per far dire ministro dello Sviluppo Calenda che a questo punto “i licenziamenti – a Roma si contano 1666 lavoratori – sono inevitabili”.
IL CASO ALCOA – Nel 2012 il colosso statunitense dell’alluminio ha deciso di fermare la produzione nello stabilimento di Portovesme (Sulcis), in Sardegna dove lavoravano 800 persone (tra dipendenti diretti e indotto). Dopo diverse trattative fallite, il Mise ha proposto di mettere in campo Invitalia, agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, perché facesse da filtro tra la multinazionale dell’alluminio e potenziali acquirenti dello stabilimento. L’azienda americana aveva trasmesso al Mise e a Invitalia una bozza di pre-contratto. Nel frattempo la multinazionale ‘Sider Alloys’ ha incontrato il Governo al quale ha manifestato il proprio interesse ad acquisire lo stabilimento. Il 1 dicembre scorso il ministro Carlo Calenda ha annunciato: “Abbiamo qualche compratore interessato all’acquisizione dello stabilimento, ma non scopriamo le carte finché non siamo certi che si tratti di cose concrete e decise”. Resta il problema degli ammortizzatori sociali che in tanti perderanno entro il 31 dicembre, ma anche la questione relativa alle bonifiche del sito.
ILVA, VELENI, PROCESSI E FUTURO AL BIVIO – Non è ancora chiusa la questione dell’Ilva, una delle più complesse e controverse con cui si è dovuto fare i conti negli ultimi anni. Dopo nove decreti in 5 anni, inchieste, sequestri e processi, qualcosa si muove. Ma il buco nero è troppo profondo perché Taranto sia già pronta a voltare pagina. Intanto, c’è lo sblocco di 1,3 miliardi, la maggior parte dei quali prima oggetto di sequestro penale, saranno trasferiti dalla Svizzera, via Procura di Milano, dopo l’accordo tra l’Ilva e la famiglia Riva. Eppure, secondo Federacciai, ci vorranno almeno 3 miliardi per ripartire. Oggi l’azienda è al bivio: è in corso l’iter per selezionale le due cordate pronte all’acquisizione, Arvedi-Jindal e ArcelorMittal-Marcegaglia, ciascuna con una propria strategia di business e con diverse prospettive che potrebbero riguardare anche i lavoratori. Oggi l’Ilva conta circa 15mila dipendenti.
MERCATONE UNO – Al momento della richiesta di concordato preventivo, nel gennaio 2015, la rete commerciale di Mercatone Uno contava su 79 punti vendita (4mila i lavoratori) e aveva maturato 780 milioni di euro di debiti. L’intero complesso aziendale era stato valutato 280 milioni di euro. A settembre i commissari straordinari di Mercatone Uno, Stefano Coen, Ermanno Sgaravato e Vincenzo Tassinari hanno comunicato che non sono arrivate offerte d’acquisto per il gruppo nei termini previsti dal bando pubblicato il 16 giugno scorso. È stato così predisposto, per la cessione delle aziende in amministrazione straordinaria dall’aprile 2015, un nuovo bando (in via di approvazione) che contiene  condizioni di vendita più flessibili e coerenti con le aspettative del mercato, rivolgendosi a un più ampio numero di operatori.
LE EX ACCIAIERIE LUCCHINI – Sono stati in cassa integrazione a zero ore per circa un anno e mezzo e, per questo, quest’anno sarà bassa la tredicesima di 1.100 operai Ex Lucchini di Piombino (Livorno) assunti a novembre in Aferpi, la società creata dal gruppo algerino Cevital per gestire gli impianti e garantire la continuità produttiva e la capacità di rifornire i treni di laminazione. L’acquisizione è avvenuta nella primavera 2015, ma da allora poco è cambiato concretamente. Il piano industriale è fermo e, dopo la cassa integrazione, gli operai hanno fatto i conti con un regime contrattuale di solidarietà. L’imprenditore algerino Issad Rebrab ha ribadito il suo interesse, ma sono 2mila gli addetti dell’impianto siderurgico che rischiano il posto. Nel frattempo le banche non finanziano, le bonifiche sono bloccate e, senza risorse immediate – denunciano i sindacati – l’azienda fermerà l’attività all’inizio del 2017.
NOVELLI, SCONTRO PER LA CESSIONE – Tra scioperi e manifestazioni è tesa la situazione sul fronte del gruppo Novelli, dopo il ‘no’ alla cessione dell’azienda da parte dei fondatori, ora soci di minoranza. Nella passata gestione l’azienda aveva accumulato circa 120 milioni di euro di debiti che l’hanno portata, nel 2012, sull’orlo del fallimento. Dopo quattro anni di concordato preventivo e i sacrifici dei lavoratori pur di salvaguardare il posto e il destino dell’azienda, nei mesi scorsi è arrivata un’offerta. I Novelli, però, al momento non hanno sottoscritto la cessione al prezzo simbolico di un euro in favore della famiglia Greco di Cariati (Cosenza) disponibile a rilevare l’intero Gruppo. Bloccato, dunque, l’intero iter. Tanto che il Mise e le Regioni Umbria e Lazio hanno rilasciato un comunicato congiunto esprimendo “grande preoccupazione per il futuro del Gruppo Novelli, importante realtà imprenditoriale dell’agroalimentare italiano presente in Umbria, Lazio e Lombardia con 500 addetti” e ribadendo che “la famiglia Novelli, proprietaria del capitale azionario, sta mettendo a rischio in queste ore una importante operazione di cessione che garantirebbe il rilancio di tutte le linee di attività aziendale mettendo in sicurezza la salvaguardia dei posti di lavoro”. Nel frattempo i lavoratori sono sul lastrico con gli stipendi ridotti, negli ultimi 4 mesi, a 500 euro.
SELCOM, NATALE DA DIMENTICARE – La scorsa estate il gruppo ha rivelato di avere ingenti problemi finanziari. Il fatturato è crollato tra il 2014 e il 2015 da 280 a 200 milioni di euro. La Selcom occupa 770 lavoratori distribuiti negli stabilimenti di Castel Maggiore di Bologna (360), Palermo (110), Belluno (290) e Milano (10). E poi ci sono le sedi all’estero, in Cina, Turchia e Stati Uniti. In questi ultimi mesi è stato cambiato lo statuto ed è stato nominato un amministratore delegato unico. A permettere all’azienda di andare avanti, finora, è stato il sostegno dei clienti che garantiscono le maggiori commesse, come Coesia, Tetra Pak, Bosch, Coesia ed Eldor, che hanno garantito chi contratti, chi pagamenti immediati. Ad oggi si è ancora in attesa di conoscere i nomi dei potenziali acquirenti (diverse le proposte per lo stabilimento bolognese di Castel Maggiore) e mancano due mesi alla fine del concordato. Dopo i quali il fallimento sarà inevitabile.
VESUVIUS, FINE ANNO DI LICENZIAMENTI – Sono 181 i dipendenti degli stabilimenti Vesuvius di Macchiareddu (Cagliari) e Avezzano, in Abruzzo, che non hanno più un lavoro. La procedura di licenziamento collettivo, avviata dalla multinazionale inglese dell’acciaio il 26 settembre scorso, si è perfezionata nei giorni scorsi al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. “Ai lavoratori licenziati con la qualifica di impiegato, operaio e quadro – è scritto nell’accordo tra Vesuvius e i sindacati – la società si impegna a corrispondere un incentivo all’esodo”, mentre il licenziamento sarà intimato entro il 31 dicembre. Commentando la chiusura di questo capitolo, la Filctem Cgil ha ricordato che l’azienda ha chiuso gli stabilimenti italiani, ma manterrà il mercato italiano producendo nell’est Europa. L’ultima speranza risiede nell’impegno “a incalzare la multinazionale e le istituzioni – ha scritto il sindacato – al rispetto dell’accordo sottoscritto al fine di trovare soluzioni che contemplino la reindustrializzazione e la riconversione del sito per tutelare i 105 dipendenti sardi disoccupati dal 1 gennaio”.

Nessun commento:

Posta un commento