sabato 31 dicembre 2016

Il caso Monte dei Paschi ed il "capitalismo straccione" italiano Intervista ad Andrea Fumagalli


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Il salvataggio statale della Monte dei Paschi di Siena, oltre a palesare la continuità del governo Gentiloni con quello precedente in materia di aiuti alle banche, mette a nudo elementi congeniti di debolezza del capitalismo italiano, che rendono la vita delle classi lavoratrici ancora più difficile e precaria. Abbiamo intervistato Andrea Fumagalli, che recentemente su Effimera ha messo in relazione il fallimento della banca senese con quello del Jobs Act.

A partire dal 1999, quando la Monte dei Paschi di Siena acquisisce la Banca Agricola Mantovana e la Banca del Salento, divenendo uno dei principali istituti di credito su scala nazionale, sono state diverse le crisi ed i piani di ristrutturazione, che spesso hanno visto lo Stato italiano come protagonista. La decisione della BCE di non ammettere un nuovo aumento di capitale si inserisce in un contesto da tempo malato. Quali sono i passaggi che hanno condotto a questa situazione?
La situazione di crisi in cui ha versato la Monte dei Paschi di Siena in questi anni ha inizio con la decisione del consiglio d’amministrazione nel 2007 di acquisire Banca Antonveneta. La banca senese aveva assunto già da alcuni anni una posizione rilevante all’interno del sistema bancario italiano, che da sempre è stato un sistema frammentato, composto da banche piccole che fanno riferimento a mercati locali, talvolta colluse con piccoli o grandi potentati territoriali. Una situazione tipica soprattutto dell’area NEC (Nord-Est-Centro), dove storicamente si è formato un modello di sviluppo economico basato sui distretti industriali e sulla piccola e media impresa.
L’operazione Antonveneta costò alla Monte dei Paschi 9 miliardi di euro, una cifra esorbitante che già all’epoca avrebbe dovuto far pensare che ci fosse qualcosa di poco chiaro dietro. Si trattava infatti di una banca sull’orlo del fallimento perché era stata al centro, insieme alla Banca Popolare di Lodi, di uno scandalo noto alle cronache come quello dei furbetti der quartierino. Uno scandalo di portata nazionale, che aveva coinvolto anche l’allora presidente della Banca d’Italia Antonio Fazio, costretto a dimettersi perché accusato di «scarsa vigilanza». L’Antonveneta era stata precedentemente acquisita dalla banca franco-olandese ABN Amro, che in seguito alla crisi dei subprime è fallita ed è stata in parte recuperata grazie ad aiuti statali, in parte spezzettata e ceduta al Banco di Santander, che a sua volta viene investito dalla crisi. Questa reazione a catena di fallimenti ha segnato il passaggio di Antonveneta alla Monte dei Paschi, per una cifra assolutamente fuori da qualsiasi parametro di mercato.
L’esborso di questi 9 miliardi ha dato inizio ad un calvario patrimoniale per la banca senese, che viene sempre nascosto grazie ad operazioni contabili di dubbia legalità, perpetrate senza alcun controllo da parte dell’autorità statale. Quando il maggiore azionista della Banca diventa la Fondazione Monte dei Paschi, si palesa un debito complessivo pari a 4 miliardi di euro, che impone una ricapitalizzazione. Nel 2011 i vertici della banca saltano ed amministratore delegato diventa Alessandro Profumo, già esautorato da Unicredit, e si ripropone il classico “circolo vizioso” che ha sempre contrassegnato in termini corporativi il sistema bancario italiano. Profumo presenta un piano di ristrutturazione molto pesante, che prevede anche la chiusura di diverse filiali ed il licenziamento di circa 6.000 dipendenti, proponendo un aumento di capitale di 5 miliardi di euro, andato a buon fine. In questa operazione vengono emessi titoli obbligazionari denominati FRESH (Floating Rate Equity-linked Subordinated Hybrid Preferred Securities), altamente rischiosi e speculativi, simili a quelli imposti agli azionisti di Banca Etruria e Banca Popolare di Vicenza, per citare due casi recenti.
Questo aumento di capitale, a cui ne fa seguito un altro di 3 miliardi di euro alcuni mesi dopo, riesce anche grazie all’intervento del governo Monti, in carica in quel periodo, che emette multibond e garantisce la possibilità di acquisto di questi titoli da parte di altri sottoscrittori. In questo modo lo Stato, già alla fine del 2012, diventa il principale azionista della Monte dei Paschi, pur con una partecipazione pari solamente al 4%. Nonostante i due aumenti di capitale a distanza di poco tempo, l’avvento della crisi economica e l’aumento esponenziale dei Non Performing Loans (i crediti non più esigibili) peggiorano la situazione della banca, tanto che nell’ottobre del 2013 si assiste ad un crollo azionario.
La situazione patrimoniale della Banca, in seguito ad una condotta peregrina e non adeguata da parte del suo stesso management, diventa sempre più critica mentre avviene un cambiamento di governance del sistema bancario a livello europeo. All’inizio del 2015 iniziano infatti le trattative per formare un sistema bancario unico nell’UE, il cui primo passaggio (entrato in vigore il 1 gennaio 2016) è stato quello di trasferire la vigilanza per la solidità patrimoniale dei singoli istituti di credito dalle banche centrali nazionali alla BCE (ci sono alcune eccezioni significative che riguardano le Sparkasse tedesche e che la Bundesbank è riuscita ad imporre alla BCE, a sottolineare ulteriormente il peso della Germania nell’attuale sistema economico e politico europeo). Con la centralizzazione del controllo vengono creati i cosiddetti stress test, ossia una serie di parametri che le banche devono rispettare per essere giudicate credibili e sostenibili sul piano economico e finanziario. I primi test vengono compiuti nel periodo di maggio, giugno e luglio 2016 e non vengono superati dalla banca senese. Il giudizio particolarmente negativo della BCE obbliga, pena il fallimento, ad un nuovo piano di ristrutturazione.
Questo piano viene compiuto con il sostegno della multinazionale della finanza JP Morgan, che impone una persona di sua fiducia a capo del consiglio d’amministrazione, e prevede un nuovo aumento di capitale pari a 5 miliardi di euro, come iniezione di liquidità che serva a coprire i debiti. L’operazione avviene in un momento di particolare sofferenza finanziaria del titolo legato a Monte dei Paschi, le cui azioni perdono oltre il 30% in seguito ala bocciatura della BCE negli stress test. L’ulteriore deterioramento del valore del capitale sociale e dello stato patrimoniale della banca inducono a pensare che i 5 milioni di euro previsti non siano in realtà adeguati al risanamento della situazione. La BCE approva l’aumento di capitale, ponendo la data del 20 dicembre 2016 come limite massimo per rendere effettiva l’operazione.
I 5 miliardi devono essere trovati ricorrendo al mercato finanziario privato e si chiede pertanto ai detentori delle obbligazioni FRESH di trasformarle in azioni, entrando direttamente a far parte del pacchetto azionario. Il tentativo fallisce miseramente (vengono raccolti meno della metà dei fondi necessari, circa 2,4 miliardi) e la banca si trova sull’orlo del fallimento, imponendo un intervento diretto da parte dello Stato. Il governo Gentiloni, che già prima del 20 dicembre aveva dichiarato che fosse già pronto un piano per il salvataggio della Monte dei Paschi, promuove un decreto che mette a disposizione un ammontare complessivo di 20 miliardi di euro come “capitale precauzionale”. Questo verrà utilizzato per risanare la banca senese e per rimpinguare quel Fondo Atlante stanziato dal governo Renzi a gennaio per il salvataggio della Banca Popolare di Vicenza ed altri istituti.
Nei giorni scorsi la BCE ha comunicato che l’ammontare complessivo della liquidità necessaria per evitare la bancarotta della Monte dei Paschi è di 8.8 miliardi di euro e non di 5. Si è dato il via ad un rimpallo di accuse tra la BCE ed il governo italiano rispetto alla poca trasparenza con cui è stato gestito l’intero caso, il cui esito è consistito nella proroga, a metà luglio 2017, della dead line entro cui rendere effettivo l’aumento di capitale.
Come si inserisce il “caso Monte dei Paschi” nella crisi strutturale del sistema bancario italiano?
Io ritengo che la crisi del sistema bancario italiano abbia poco a che vedere con la crisi finanziaria partita nel 2008, che ha interessato soprattutto, oltre alle banche americane, in particolare quelle tedesche, inglesi e spagnole, storicamente legate alla speculazione immobiliare. Le banche italiane sono poco internazionalizzate, hanno principalmente legami con il mercato locale ed hanno un sistema di gestione corporativo: tutti elementi che hanno generato un sistema con delle regole specifiche. Un modello di gestione chiuso, unito con un management approssimativo, ha portato ad una situazione di sofferenza per molte banche. Ormai gli istituti che si trovano in una situazione di forte crisi sono decine, dando vita ad una condizione di debolezza che è strutturale e non più isolata.
Tutto questo è emerso quando, a livello europeo, in seguito ai tanti errori commessi subito dopo l’esplosione della crisi dei subprime, si è resa necessaria una governance più rigida del sistema creditizio. Il passaggio del controllo da un livello nazionale ad uno europeo ha messo a nudo tutte le defaillance delle banche italiane, spesso colluse con gli interessi imprenditoriali e politici. L’arretratezza e la scarsa managerialità del sistema creditizio italiano, da un punto di vista strettamente capitalistico, non consente a questo di reggere le evoluzioni del sistema delle forme di governance che vengono imposte dai processi di finanziarizzazione globale.
A questo va aggiunto che i costi di gestione delle banche italiane sono circa 4 volte superiori alla media europea. Un’inefficienza che è tipica di una storia del sistema creditizio italiano che, dall’Unità d’Italia ad oggi, è sempre stata molto “provinciale”.
Da un’analisi dei debitori della Monte dei Paschi è emerso che gran parte di essi appartengono alla grande imprenditoria nazionale. Alla luce di questo quali considerazioni si possono fare sul legame attuale tra banche e grande impresa nel nostro Paese?
Quello che Gramsci definiva “capitalismo straccione”, che altro non è che il “capitalismo familistico”, è sempre stato una costante della storia nazionale. Non c’è mai stata una rivoluzione manageriale in Italia; basti pensare al fatto che le poche grandi imprese esistenti sono ancora attribuibili a persone fisiche.  Questo è un elemento di arretratezza molto pesante, che rende il sistema bancario troppo oneroso e poco flessibile e penalizza le piccole imprese, che devono sobbarcarsi i costi delle detrazioni fiscali di cui beneficiano i grandi marchi aziendali.
Per quanto riguarda nello specifico le grandi banche di carattere locale, abbiamo negli anni addietro assistito ad un “effetto di sostituzione”. Fintanto che l’economia locale tirava, negli anni Ottanta e primi anni Novanta, si era creato un connubio positivo tra sistema creditizio e piccola e media impresa. Un circolo virtuoso dovuto in primo luogo alla capacità dei distretti economici territoriali di fare export, in secondo luogo a quella propensione al risparmio che immetteva continua liquidità nel sistema bancario. Successivamente, quando i processi di finanziarizzazione e di cognitivizzazione della produzione hanno investito in maniera massiccia l’economia globale, il capitalismo italiano non è stato in grado di reggere la sfida, sia sul piano manageriale sia su quello tecnologico. L’effetto di sostituzione consiste nel fatto che il canale privilegiato di accesso al credito per le grandi imprese veniva compensato dalla tenuta della piccola impresa sul mercato. Quando questa tenuta, a partire dalla metà degli anni Novanta, ossia con l’inizio effettivo della stagnazione in Italia, è venuta meno, il canale preferenziale è rimasto invariato, grazie anche alla mediazione politica,  ma l’effetto di sostituzione si è sgretolato, accelerando il deterioramento di tutto il sistema creditizio.
La differenza tra piccola e grande impresa consiste nel fatto che, qualora fallisca la prima, le banche si appropriano dei mezzi di produzione; nel caso in cui fallisca una grande impresa questo non avviene e l’insolvenza diventa parte integrante del sistema bancario stesso. Con la crisi di tante grandi imprese, avvenuta dal 2008 in poi, e la conseguente insolvenza di molte di queste, le banche hanno iniziato a bloccare il credito, nonostante le politiche di Quantitative Easing adottate dalla BCE negli ultimi anni. Da qui si è innescato un circolo vizioso: le banche non guadagnano più sugli interessi perché non assolvono alla funzione economica per cui sono state create; le imprese, non ottenendo credito, non hanno più interesse ad investire, anche per la contrazione della domanda dovuta alla diminuzione di salari e redditi. Questo è il meccanismo che da oltre 20 anni è alla base della stagnazione dell’economia italiana.

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