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Ricomposto un rapporto che poteva incrinarsi per l’omicidio eccellente dell’ambasciatore russo ad Ankara (rimasto comunque tuttora oscuro) l’establishment turco guarda al futuro prossimo della sua politica interna e di quella che si sviluppa appena oltre confine nel turbolento scenario siriano. In questi giorni si parla con insistenza d’un tavolo di colloqui da tenere ad Astana (Kazakistan) assieme ai due ferrei alleati di Damasco, Russia e Iran. Sul tema interviene il ministro degli Esteri turco che la prende larga, puntando il dito sugli Stati Uniti, poco amati da tutti gli interlocutori. Cavuşoğlu, con un’intervista rilasciata ieri a un’emittente del suo Paese, risolleva un argomento noto da mesi: il rifornimento di armi americane alle Unità di Protezione del Popolo che, difendendo i territori del Rojava, combattono l’Isis.
Tali forniture, a suo dire, finirebbero anche nelle mani del Pkk, che dall’estate del 2015 ha riaperto un fronte interno di guerriglia con Ankara, spina nel fianco che preoccupa non poco l’esecutivo e l’onnipresente presidente. Il ministro fa notare l’affievolito impegno aereo americano a favore dello Scudo dell’Eufrate, visto che l’amministrazione Obama, ormai in uscita dalla Casa Bianca, ha puntato tutto sullo scontro di terra anti Isis per mano dei combattenti kurdi.
Ricomposto un rapporto che poteva incrinarsi per l’omicidio eccellente dell’ambasciatore russo ad Ankara (rimasto comunque tuttora oscuro) l’establishment turco guarda al futuro prossimo della sua politica interna e di quella che si sviluppa appena oltre confine nel turbolento scenario siriano. In questi giorni si parla con insistenza d’un tavolo di colloqui da tenere ad Astana (Kazakistan) assieme ai due ferrei alleati di Damasco, Russia e Iran. Sul tema interviene il ministro degli Esteri turco che la prende larga, puntando il dito sugli Stati Uniti, poco amati da tutti gli interlocutori. Cavuşoğlu, con un’intervista rilasciata ieri a un’emittente del suo Paese, risolleva un argomento noto da mesi: il rifornimento di armi americane alle Unità di Protezione del Popolo che, difendendo i territori del Rojava, combattono l’Isis.
Tali forniture, a suo dire, finirebbero anche nelle mani del Pkk, che dall’estate del 2015 ha riaperto un fronte interno di guerriglia con Ankara, spina nel fianco che preoccupa non poco l’esecutivo e l’onnipresente presidente. Il ministro fa notare l’affievolito impegno aereo americano a favore dello Scudo dell’Eufrate, visto che l’amministrazione Obama, ormai in uscita dalla Casa Bianca, ha puntato tutto sullo scontro di terra anti Isis per mano dei combattenti kurdi.
Al di là della denuncia,
che dovrà fare i conti con le prossime decisioni del nuovo staff presidenziale
statunitense in Medio Oriente, i possibili negoziati sulla Siria ruotano
attorno a punti tutt’altro che convergenti fra gli interlocutori. Quello sul
futuro di Asad risulta centrale e appare in totale discordanza. Finora Mosca e
Teheran continuano a offrire un appoggio incondizionato (e interessato) al
presidente siriano, mentre con le sue dichiarazioni Cavuşoğlu afferma non solo
che nessun esponente del regime di Damasco dovrà sedere al tavolo in
preparazione, ma nega che nel piano stilato di recente fra Erdoğan e Putin
siano previste garanzie ad Asad per una conservazione del potere sino a
elezioni venture. A suo giudizio la trattativa dei piccoli passi deve
assicurare il cessate il fuoco fra i gruppi contendenti, senza che lealisti e
opposizione partecipino al tavolo di discussione, né tantomeno i rappresentanti
delle Ypg o del Pyd, seppure in prima linea contro i miliziani del Daesh. Nell’intervento
tivù Cavuşoğlu si sofferma sul filo diretto stabilito da Washington coi
guerriglieri kurdi, che potrebbero essere utilizzati dalle forze della
coalizione anti Isis anche nella prevista offensiva di terra su Raqqa.
Quest’impegno avrà certamente una contropartita, che preoccupa la dirigenza
turca perché riguarderà la giurisdizione dei cantoni del Rojava, rafforzati
militarmente e politicamente.
Per evitarne la
continuità territoriale dall’agosto scorso la Turchia fa di tutto - l’ingresso
del suo esercito a Jarabulus lo dimostra - e molte delle polemiche rivolte agli
Usa in merito al supporto offerto alle unità combattenti kurde, riguardano
proprio la volontà di Ankara di tenere isolate le enclavi di Afrin e Kobanê. Il
controllo jihadista di Al-Bab, che separa le due aree, può a sua volta rientrare
nei sotterfugi tattici presenti in ogni mossa compiuta dai vari contendenti nel
conflitto dei cento e uno interessi perseguiti da ciascun attore di questo scontro.
Così come i frazionamenti, reali e presunti, del cosiddetto Hêzên Sûriya Demokratik, l’alleanza
multietnica e multireligiosa avviata quattordici mesi fa che somma alla
consolidata guerriglia kurda del Rojava gruppi locali di combattenti arabi,
assiri, armeni, armeni, ceceni. Obiettivo comune: la battaglia verso il cuore
del Califfato che deve vedere nella presa di Raqqa un obiettivo centrale.
Un’offensiva che sarebbe dovuta scattare dopo quella di Mosul, e che era
annunciata sin dallo scorso novembre. Ma dietro lo scopo (davvero comune?) di
piegare l’Isis, si celano i contrasti territoriali, minori sotto un’ottica
militare, non sotto quella politica. Così si vocifera che Ankara abbia promesso
aiuto ai peshmerga se quest’ultimi lanceranno attacchi nell’area di Sinjar, nel
nord iracheno, dove stazionano unità operative del Pkk.
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