Ho
concluso i lunghi mesi di militanza nei comitati per il NO alla riforma
costituzionale con un interrogativo ed una convinzione.
micromega m.boscaino
Partiamo dal
primo, angoscioso soprattutto nei giorni precedenti al 4 dicembre,
quando i rumore ci raccontavano di un’implacabile – per fortuna
contraddetta dai fatti e dal risultato referendario – risalita del SÌ. Ciò
che mi faceva davvero disperare era trovare una risposta ragionevole
per capire come fosse stato possibile dover impiegare tanta energia,
tanta fatica, tanti soldi, tutto il proprio tempo libero dal lavoro in
assemblee, volantinaggi, seminari, convegni per spiegare una semplice
realtà: comunque la si pensasse, non potevamo accettare che “bastasse un
Sì” per modificare in un sol colpo 47 articoli su 139 della
Costituzione. Che questo – in particolare – non potesse essere fatto
sulla base di parole d’ordine di facile impatto demagogico come
modernità, velocità, semplificazione. Che la Costituzione, quella che
qualcuno ha efficacemente definito “la Bibbia laica” è la Carta di
tutti, in cui chiunque deve rispecchiarsi sulla base dei principi
unificanti della nostra identità storico, politica e culturale.
E che,
pertanto, un’operazione così complessa dovesse necessariamente
richiedere i tempi distesi della riflessione e della condivisione, e non
un approccio superficiale e autoritario, perseguito sulla base di
scorciatoie e convenienze parlamentari, di rimozione del dissenso, di
voti di fiducia forzata e forzosa. Infine, poiché i costituenti prima di
licenziare definitivamente la Carta l’avevano sottoposto alla revisione
di fini intellettuali (Marchesi, Baldini, Pancrazi), che il
dilettantismo e la sciatteria della scrittura della proposta di riforma
risultavano inaccettabili: nella legge la forma è sostanza. Tanto più
che nel merito e nel metodo la proposta configurava una condizione di
irricevibile rifiuto dei principi su cui si basa la democrazia
parlamentare nel nostro Paese.
Ed ora la convinzione. Nel XXXVIII
capitolo dei Promessi Sposi Renzo elenca gli errori da lui commessi: “Ho
imparato – diceva – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non
predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a
non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il
martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa
calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver
pensato quel che possa nascere”. Lucia gli ribatte e – dopo una
discussione – i due concludono che i guai capitano spesso a chi si
comporta in modo incauto, ma anche a chi non ne ha alcuna colpa, e che
in un caso e nell'altro la fiducia in Dio li rende più sopportabili e li
rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, trovata da
poveri contadini, sembra all'autore come "il sugo di tutta la storia" e
perciò gli sembra opportuno collocarla la alla fine del romanzo.
Ecco, anche noi dobbiamo trarre il
sugo della storia. Siamo stati ad un passo dal baratro e non possiamo
limitarci a rallegrarci per il pericolo scampato e per la prova di
democrazia: la Costituzione italiana va modificata, ma in senso
esattamente opposto a quello individuato dal tentativo Renzi-Boschi.
La Costituzione non è ancora abbastanza forte, infatti, da aver impedito
che un presidente della Repubblica inanellasse – una dopo l’altra – una
serie di operazioni di esautoramento della sovranità del popolo; e
nemmeno che un parlamento delegittimato da una sentenza di
incostituzionalità della legge che lo aveva eletto votasse una legge di
riforma costituzionale di indirizzo governativo che prevedeva la
modifica di 1/3 dell’intera Costituzione; nemmeno, infine, che un altro
presidente della Repubblica, che ha contribuito a scrivere la sentenza
di incostituzionalità della legge elettorale di cui si diceva, non
trovasse quanto meno curioso che gli venisse presentata una nuova legge
elettorale (l’Italicum) che – anticipando la vittoria del SÌ al
referendum costituzionale – facesse già piazza pulita dell’elezione del
Senato; salvo poi insediare un governo dopo il 4 dicembre, rivendicando
la necessità di armonizzare la legge elettorale della Camera con quella
del Senato; lo stesso presidente che (un tempo membro della Consulta) ha
firmato la legge Madia, in seguito dichiarata parzialmente
incostituzionale dai suoi ex colleghi.
Come siamo arrivati fin qua? È stato
un percorso tortuoso, fatto di piccole e grandi disattenzioni, di
antipolitica, di disimpegno e di rassegnazione. Di distrazione pervicace
proprio da quel dettato costituzionale che abbiamo difeso con tanto
impegno, al punto da creare addirittura un’espressione – la Costituzione
materiale – a sottolineare la distanza tra la Carta e la sua
(dis)applicazione. Su tutto grava come un macigno sulle cui conseguenze
non ci siamo sufficientemente interrogati la modifica dell’art. 81: il requiem per lo stato sociale. Come ha affermato Tomaso Montanari,
siamo in “Una fase estrema in cui è necessario un nuovo radicalismo
democratico: se non vogliamo perdere, dopo la giustizia sociale e
l’eguaglianza, anche la democrazia stessa”.
Una tale prospettiva non può ignorare
(come invece stanno vergognosamente facendo tutti coloro che esercitano
ruoli istituzionali) il risultato del 4 dicembre 2016. Nella campagna
referendaria che lo ha preceduto, si è configurata una condizione da
tempo inedita: il popolo - l’inciampo democratico, quello che le forze
di governo e il Partito Democratico volevano cancellare, volevano
mettere a tacere – ha detto la sua, ha fatto la sua parte attraverso lo
strumento principale che ha (ancora) a sua disposizione: il voto. Si
sono attivati quanti hanno considerato aberrante la logica secondo cui
sarebbe bastato un SÌ per lasciare tutto in mano all’Esecutivo,
rinunciare a intervenire, a partecipare, a votare, a pensare in modo
critico. A dire la propria, a contribuire alla pratica della democrazia
nel Paese. Il popolo cui è stato rivolto il volgare “ciaone”, i milioni
di elettori dileggiati dopo il referendum contro le trivellazioni,
occasione in cui i vertici dell’esecutivo invitavano i cittadini
italiani a disertare le urne. Il popolo che è andato a votare per il
referendum sull’acqua pubblica, oggi privatizzata, nonostante la
partecipazione e l’esito, e che è oggi chiamato a ricordare che
l’ingiuria inflitta nel 2011 a più di 25 milioni di persone che avevano
votato per l’acqua pubblica non debba essere replicata contro coloro che
hanno votato inequivocabilmente NO alla manipolazione della
Costituzione repubblicana; ma anche NO alle politiche di un Governo che,
nonostante l’esito, rimane pervicacemente quasi immutato al suo posto,
sprezzante dei milioni di voti e – soprattutto – di un’insofferenza
sociale sempre più palpabile.
Il popolo che fa paura, attrezzato di
consapevolezza dei propri diritti e delle proprie responsabilità,
individuali e collettivi, quello fatto di cittadini attivi. Alcuni sono
tra i più pericolosi, perché appartengono al movimento della scuola
(docenti e studenti), il primo settore sociale che ha visto la
definizione e l’imposizione attraverso la prevaricazione del parlamento
di uno schema autoritario, con il dirigente capo assoluto, reclutatore e
valutatore dei lavoratori; con gli studenti ridotti a manovalanza
dequalificata da pessime esperienze di alternanza tra scuola e lavoro;
con finanziamenti dell’istruzione privata; con l'indebolimento degli
organi collegiali. La legge 107 del 2015 rappresentava infatti un primo
assaggio di un nuovo modello di società, figlia del dettato ideologico e
operativo neoliberista, riproposto poi sul piano istituzionale con la
“schiforma” costituzionale del duo Renzi-Boschi. Altri sono i più
imprevedibili: quelli che non andavano a votare da anni. Ma che, davanti
a prevaricazioni reiterate, alla arroganza di un potere esibito,
all’atteggiamento padronale e al dileggio, hanno sentito la necessità di
dire la propria: NO! Il popolo che si è schierato contro la
devastazione ambientale, che sostiene e considera sacro l’articolo 32
della Costituzione, quello per cui la salute è un diritto inalienabile
di ogni cittadino e non può essere privatizzata. Il popolo delle donne,
che contribuiscono costantemente e ostinatamente alla vita e allo
sviluppo della Repubblica. Tutti insieme, donne e uomini, il mondo
violato dal primato del mercato e del profitto, dall’irresponsabilità
dell’impresa e della proprietà privata, dal pareggio in bilancio in
Costituzione, dalla continua erosione dello Stato sociale, dalle
pressanti mistificazioni sul rapporto tra diritti e contabilità delle
casse dello Stato. Il popolo che ha messo in discussione le decisioni e
le procedure di un Parlamento delegittimato dalla sentenza 1/2014 della
Corte Costituzionale, che aveva dichiarato l’incostituzionalità dei
cardini della norma con cui è stato eletto (premi di maggioranza e liste
bloccate): oltre alla Pessima Scuola, il jobs act, la riforma della
Pubblica Amministrazione – a sua volta appena demolita sotto il profilo
costituzionale, con Renzi che ha avuto l’impudenza di affermare di
essere bloccato dall’eccesso di burocrazia (sic!) - lo Sblocca Italia.
Quel parlamento in cui non hanno quasi eco le cariche delle forze
dell’ordine contro cittadini inermi, in città ridotte a fortezze
blindate. Quel Parlamento che ha votato l’Italicum, una legge elettorale
di nuovo ipermaggioritaria, che – in combinazione con la deforma
costituzionale – avrebbe perpetrato la subordinazione definitiva del
potere legislativo a quello esecutivo e che è a sua volta in attesa di
una valutazione di costituzionalità da parte della Corte. Tutto questo
con il corredo estivo delle nomine dei direttori Rai, rigidamente scelti
tra persone di stretta osservanza filo-renziana e filo-governativa, da
impiegare nella campagna referendaria a garanzia delle posizioni del
SÌ. Il popolo che sente che situazioni come Taranto sono anche cosa sua.
Il popolo che non smette di chiedere verità per Giulio Regeni. Il
popolo che – c’è da giurarlo – non esiterebbe a votare SÌ per
l’abrogazione di 3 passaggi particolarmente indecenti del Jobs Act su
cui potremmo essere chiamati a pronunciarci in primavera. Il popolo,
infine, dei Comitati spontanei per il NO, fatti di brave persone, di
belle persone, il cui unico scopo è stato difendere la Costituzione
della Repubblica, basata sui valori antifascisti e della Resistenza.
Abbiamo votato con la testa e con il cuore, con consapevolezza e
passione democratica, come ha suggerito l'Anpi, che quel popolo ha avuto
l’onore di avere come compagno di strada.
Sono inciampati, in una tiepida notte
invernale, il 4 dicembre. Facciamo in modo che tutto questo patrimonio
insperato – ma vivo e presente – non vada disperso né dilapidato.
Marina Boscaino
(23 dicembre 2016)
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