CONTROPIANO
Un gesto liberatorio, che marca
il confine insuperabile. La decisione delle Rsu romane di Almaviva ha
sorpreso soltanto i notai della “contrattazione a tutti i costi”, quelli
che accetterebbero di vendere anche la madre pur di arrivare a un
“accordo” con l'azienda.
A prima vista, dall'esterno e in
astratto, sembrerebbe incomprensibile preferire il licenziamento a un –
temporaneo – accordo che prevede riduzione del salario, telecontrollo
dei dipendenti, rinvio in ogni caso delle procedure di “messa il
libertà”. Cavolo, ma di questi tempi ti metti pure a fare lo schizzinoso
(il choosy, avrebbe chiosato Elsa Fornero)? Hai un lavoro e preferisci perderlo piuttosto che piegare ancora un po' la testa?
E allora conviene leggere cosa
hanno risposto i lavoratori Almaviva ai giornalisti spaesati che gli
facevano questa e simili domande.
“Perché abbiamo detto no?
Perché i nostri stipendi sono già ridotti all'osso; a Roma siamo tutti
lavoratori part time a 600-700 euro al mese e per noi è impossibile sia
accettare altri tagli sia cancellare tutte le conquiste di questi anni”.
“Meglio i licenziamenti
piuttosto che dover sottostare alle richieste dell'azienda che ha sempre
promesso tanto e non ha mai mantenuto nulla, e che ora voleva imporci
pure un nuovo sistema di telecontrollo”.
Anche il governo, al tavolo, “non ci ha mai concesso nulla”.
In definitiva “Sono più
sollevata. Le feste? Io voglio vedere il bicchiere mezzo pieno e almeno
dopo 15 anni non sarò costretta a dover scegliere se lavorare a Natale o
il giorno della vigilia”.
Ci si può girare intorno a lungo, ma il punto essenziale è questo: sotto una certa soglia di salario non si può e non si deve accettare di lavorare.
E in Italia, negli ultimi venti
anni, il salario è stato compresso fin oltre questa soglia. Qual'è?
Dipende dal livello dei prezzi, dal territorio, dalle dimensioni
dell'economia informale che affianca e integra quella “ufficiale”. Non a
caso, la Rsu di Napoli si è spaccata. Lì i prezzi sono più bassi, è
risaputo, e l'”economia del vicolo” resiste alla modernizzazione; quel
limite inaccettabile a Roma è leggermente più flessibile sotto il
Vesuvio.
Ma il limite c'è, è stato toccato.
Anche il settore in cui ciò avviene è importante. I call center sono
stati una delle poche “innovazioni” dell'imprenditoria italica. In
senso ironico, ovviamente. Sono nati da una necessità delle imprese più
grandi e delle amministrazioni pubbliche: recidere il rapporto con la clientela e gli utenti. Una pratica che smentisce ogni retorica aziendalista sulla customer care, altro tormentone pubblicitario sbattuto in faccia a ogni presentazione di mercato.
Per le grandi aziende il cliente va munto, non “curato”. E' un potenziale
rompiscatole che pretende di potersi lamentare e ottenere addirittura
“giustizia” se l'automobile appena comprata ha qualche problema, se
l'abbonamento non dà i servizi promessi, se il treno o l'aereo è in
ritardo, se viene in testa una domanda più o mano importante, se la
tariffa pretesa non è quella contrattata, se…
Dal lato del cliente-utente –
come sa ognuno di noi – in questo modo le aziende diventano di fatto
irraggiungibili, irresponsabili (puoi cambiare fornitore, certo,
ma il trattamento sarà lo stesso), separate definitivamente dalla
platea dei consumatori, inattaccabili dalle loro istanze (a meno di non
ricorrere a cause legali, costose e incerte).
È il capitalismo contemporaneo, sempre meno “territorializzato”. I call center, unicamente per via della lingua, andavano a fornire questo servizio minimo indispensabile – soprattutto sul versante outbound,
ovvero la tempesta di chiamate che ognuno di noi riceve per segnalare
offerte commerciali – di collegamento tra venditore e compratore.
Anche questo è un costo da tagliare, ridurre al minimo; un legame da tranciare. Paesi europei fuori dall'euro, come Albania
e Romania, sono per l'Italia una riserva simile – anche se ovviamente
minore – a quella rappresentata dall'India e da tutto l'ex Commonwealth
per la Gran Bretagna o gli Stati Uniti. Forza lavoro vocale a costo
bassissimo, che entra direttamente in competizione – stracciandola – con
quella autenticamente “nazionale”. Una delocalizzazione facile facile,
talmente diffusa da costringere il moribondo governo Renzi a inserire
nella legge di stabilità qualche norma di “sfavore” per i call center
che operano da paesi extra-Ue.
Ma un salario decente in un
paese arretrato è un concorrente terribile per un paese avanzato o
quasi. Quel che da una parte consente di vivere è al di sotto della
soglia della sopravvivenza da quest'altra parte. Finito il margine di
comprimibilità scatta il rifiuto.
Un rifiuto razionale, non disperato. Un rifiuto che mette al primo posto la dignità, la valorizzazione delle persone, non del capitale.
Da qui, non paradossalmente si riparte con il conflitto sociale vero e proprio. Quello in cui abbiamo da perdere solo le catene. Non si lavora per un salario che non consente di vivere; questo è qunto.
La possiamo dire anche con altre parole: schiavi mai!
Foto di Patrizia Cortellessa
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