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Dopo le prime sessanta
ore d’indagine trapelano diverse cose sulla vita e la morte di Mevlüt Mert
Altintaş, il poliziotto che ha freddato ad Ankara l’ambasciatore russo Andrey
Karlov. Dei circa due minuti che precedono la scarica assassina nella Galleria
d’arte contemporanea gira un filmato dove il giovane è appostato alle spalle
del diplomatico. Appare nervoso, si tocca sotto la giacca, quasi ad assicurarsi
che l’arma sia a posto, si prepara psicologicamente all’azione. Agenti di
sicurezza avrebbero sicuramente notato un comportamento inconsueto e sarebbero
intervenuti. A sparatoria iniziata, e assassinio compiuto, durante i proclami
lanciati su Aleppo martire, su scopo, costituzione e orgoglio della battaglia
jihadista e sulla grandezza di Allah, il quotidiano Hürriyet riporta che due agenti della polizia stradale, entrati nei
locali, abbiano intimato all’uomo di arrendersi. Erano le ore 19:27. Non è
accaduto nulla. Il killer continuava a motivare il gesto predicendo la sua
fine, che non è avvenuta immediatamente. Quando un reparto speciale è
intervenuto scoccavano le 19:32. Colpi reciproci e Altintaş dopo un paio di
minuti è a terra ferito a una gamba. Ma la sparatoria prosegue, lui riesce a
sostituire il caricatore dell’arma, viene colpito una prima volta al collo, poi
ripetutamente al petto, fino a spirare. Il referto medico afferma a causa della
ferita al collo. Sono le ore 19:40.
Forse la squadra
speciale ha provato a neutralizzarlo, senza ucciderlo. Certo che da vivo
sarebbe stato più utile per le indagini. Questa descrizione della sparatoria
confligge con la tesi di chi afferma che l’eliminazione del killer puntava a
prevenire ulteriori lutti, potendosi trattare d’un kamikaze. Però
l’abbigliamento non lasciava trasparire gonfiori o cinture esplosive,
valutazioni che pur nella concitazione occhi e menti esperte possono compiere.
Eppure chi è intervenuto appartiene all’eccellenza della sicurezza. Il tema della
sicurezza infiltrata dai fethüllaçi è
al centro delle spiegazioni turche, sia quelle politiche fornite dal governo e
dallo stesso presidente, sia le investigative a opera del Mıt. Il versante
russo, che sta indagando autonomamente con 18 super investigatori giunti da
Mosca, è assai più cauto. Un loro portavoce sostiene che parleranno quando
avranno il conforto di prove; le congetture servono a poco. Per i turchi le
prove ci sono tutte. Sono state trovate nell’abitazione del poliziotto, a Söke,
nella provincia di Aydin. Testi gülenisti che si raccordano alla sua formazione
passata, avvenuta in una delle scuole del movimento Hizmet. Però bisogna ricordare che fino a un paio d’anni addietro
di quelle scuole in tutta l’Anatolia ce n’erano migliaia, istituti che hanno
istruito milioni di bambini e ragazzi turchi, non tutti necessariamente
appartenenti a famiglie pro Fethullah.
Infatti la magistratura
si sta muovendo con maggiore cautela. Dopo aver interrogato i familiari stretti
di Altintaş (padre, madre, sorella, cognato, zii) li ha rilasciati perché li
ritiene estranei all’azione delittuosa. In verità lo zio Hasan Furuncu, aveva
lavorato proprio in una scuola del network Hizmet
a Kusadaşi, elemento al vaglio degli inquirenti che potrebbe diventare
un’accusa. Una certezza è che il poliziotto non abbia agito da solo e che
nell’Accademia reclute di Izmir, da lui frequentata, s’annidi una struttura di
affiliati al gruppo Fetö, sfuggita a precedenti retate e in grado di tramare
ancora contro Erdoğan e la nazione. Per questo sono stati arrestati e sono
tuttora interrogati sei colleghi di Altintaş, anche loro non colpiti dalle
epurazioni dei mesi scorsi. L’Intelligence turca fa trapelare la notizia che il
killer nel 2015 avrebbe partecipato a incontri di gruppi di quel movimento ora
giudicato eversivo. Si potrebbe domandare perché non sia finito nelle copiose
retate avvenute dopo il tentato golpe. C’è poi il mistero del suo congedo
richiesto per il 15 luglio (giorno del colpo di mano), che lo esentava da ogni
servizio dalle 7:45 del mattino. Qualora venisse confermata l’adesione di
Altintaş al “movimento terrorista” l’assenza potrebbe risultare un alibi oppure
un’aggravante, poiché l’allontanamento per l’intera giornata (e nottata)
puntava ad alleggerirne i sospetti. Resta, comunque, inspiegata la sua permanenza
nel nucleo delle scorte private del presidente.
E poi se i golpisti, com’è stato ricostruito, volevano rapire Erdoğan e assassinarlo, perché un piano simile non è scattato anche successivamente, potendo disporre di infiltrati così prossimi al sultano com’era Altintaş? Altre indiscrezioni riportate dai media (l’emittente Al Jazeera) sostengono che Ankara e Mosca saprebbero che dietro l’omicidio del diplomatico c’è lo zampino dell’imam esule, con tanto di sostegno passivo della Cia o di un diretto coinvolgimento statunitense. L’amministrazione Usa marginalizzata, e autoesclusa, dalle ultime vicende della crisi siriana cercherebbe in tal modo di mettere zizzania alla neo collaborazione fra le leadership russa e turca. Voci cui ha risposto piccato il portavoce del Segretario di Stato uscente Kerry, secondo il quale “il riferimento pur teorico di un’implicazione americana nella vicenda criminosa è un’affermazione ridicola e falsa”. Più pragmaticamente gli 007 russi sono sguinzagliati alla ricerca di prove. Uno strumento importante può risultare la disamina del telefono mobile ritrovato dai cecchini turchi sul cadavere del killer. Per decriptarne i codici di sicurezza le due strutture investigative potrebbero unire le forze e avviare una collaborazione. Questa servirebbe a chiarire un’altra voce inquietante: la ricezione da parte dell’attentatore di informazioni provenienti dall’interno dell’ambasciata russa. Una talpa potrebbe aver fornito puntualizzazione sulla presenza del diplomatico alla mostra fotografica. In primo momento Altintaş aveva affittato una camera presso la Galleria d’Arte il 16 e 17 dicembre, l’aveva lasciata il 18 trasferendosi in un hotel attiguo. Casualità o migliori notizie per attuare l’agguato?
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