Della sua profonda passione e della
forte partecipazione alle vicende di quel paese è del resto piena
testimonianza l’articolo che ieri abbiamo pubblicato sul nostro sito, e
poi sul giornale. E’ il racconto, preciso e appassionato, di
un’assemblea sindacale. Giulio spiega la difficoltà dei lavoratori del
settore pubblico, la mancanza di democrazia nell’organizzazione del
sindacato egiziano, e la fatica di opporsi al programma di
privatizzazioni iniziato ai tempi di Mubarak in un paese ormai
martoriato dalla repressione feroce di un regime sanguinario. Nel suo
reportage si approfondisce l’analisi sociale e se ne ricava il giudizio
politico, con la consapevolezza che tutto, libertà, lavoro e diritti,
viene oggi giustificato, in quel paese, dalla guerra al terrorismo. E
forse, leggendolo, la polemica nata attorno all’affrettata diffida
scritta a nome della famiglia, potrà stemperarsi e trovare nella
concitazione di quelle ore terribili, la sua unica, comprensibile
spiegazione.
Ma nulla, purtroppo, può sfamare gli
avvoltoi che hanno infierito in queste ore su Giulio Regeni. Quegli
avvoltoi che vivono nella Rete e che lo hanno arruolato nei servizi
segreti italiani coprendo la sua vita di fango, come a giustificare la
sua morte. Purtroppo a questi bassifondi dell’informazione siamo
abituati perché, come abbiamo scritto, siamo un giornale di frontiera
che ha già vissuto sulle sue povere ma robuste spalle altri drammi e
tragedie, sempre e solo legate all’impegno politico e giornalistico, al
dovere di testimoniare. E così è stato anche nella terribile vicenda di
questo ragazzo che aveva appena iniziato a scrivere per noi perché
considerava «un piacere poter pubblicare sul manifesto», considerandolo
«il giornale di riferimento in Italia», come scriveva nelle mail.
Oggi il suo corpo viene restituito al
nostro paese. E mentre cominciano a emergere particolari sulle torture
subite, il dittatore egiziano si mostra cortese e comprensivo verso il
governo italiano messo nel grave imbarazzo di ritrovarsi il cadavere di
un giovane italiano mentre discute di affari con il nostro ministro
dello Sviluppo economico. L’incidente va archiviato, magari con la
punizione esemplare di qualche poliziotto (si parla di due arresti). Uno
di quelli indicati da Mona Seif, nota attivista dei diritti umani,
autrice di un appello agli stranieri di non recarsi in questo momento
nel suo paese dove «qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in
diritto di detenere e magari torturare chiunque cammini per strada».
Il caso Regeni va dunque risolto il più
rapidamente possibile, così da riprendere presto le normali, anzi, le
privilegiate, relazioni tra l’Egitto e l’Italia. Un punto fermo della
nostra politica internazionale, una corsia preferenziale sullo
scacchiere mediorientale, specialmente in vista di probabili,
ravvicinati interventi militari in Libia, con il dittatore Al-Sisi
schierato dalla parte giusta. Si chiama real-politik.
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