lunedì 22 febbraio 2016

BREXIT: lunga storia di una relazione difficile tra Europa e UK

dinamopress Vane Bix
Il 18 e 19 febbraio il Consiglio Europeo ha trovato un accordo sulla rinegoziazione delle condizioni di partecipazione del Regno Unito all’Unione Europea. David Cameron ha portato a casa ciò che voleva: restringere l’accesso al welfare per i lavoratori migranti di cittadinanza europea.
Il Regno Unito è entrato nell’Unione Europea nel 1973, sotto la guida del primo ministro laburista Callaghan, che riuscì a negoziare l’entrata solo dopo le dimissioni di De Gaulle in Francia. Durante tutti gli anni ’60, infatti, il primo ministro francese si oppose con forza all’entrata del Regno Unito nella Comunità Europea. Secondo lui il Regno Unito, cosi vicino agli Stati Uniti, non avrebbe permesso lo sviluppo della sua ‘Europa delle nazioni’.

Del resto la relazione del Regno Unito con la CE è sempre stata contradditoria. Nel 1975 si fece il primo referendum per decidere se rimanere o meno nella CE, e allora si decise di rimanere. Ma essa per i governi inglesi non è mai stata nulla di più che il Mercato Unico e così viene definita ancora oggi.
Fatto il referendum, il Regno Unito fu travolto dall’inverno del discontento, dagli scioperi, le richieste di più salario, la crisi della sterlina, l’assistenza del Fondo Monetario per la crisi valutaria, la débâcle laburista e infine undici anni di governo Thatcher. E il Regno Unito non fu più lo stesso!
«I want my money back», così negli anni ’80 Thatcher rinegoziò il budget del Regno Unito, ottenendo una sostanziale riduzione del contributo britannico alla CE. La lady di ferro era in grado di giocare a proprio vantaggio le spinte contradditorie dei conservatori nei confronti della CE. Riuscì, infatti, a farsi promotrice del Single Market, programma attraverso cui si dà avvio alla completa liberalizzazione del mercato dei capitali in Europa, uno dei motori della trasformazione neoliberale europea.
Certo, nessuno immaginava che sarebbe caduto il muro, crollata l’Urss e riunificata la Germania. Così dal Single Market si arrivò all’euro, che certo non era nei piani di Thatcher. In ogni caso, il Regno Unito non entrerà nell’euro e impedirà anche l’inserimento della Social Charter nel Trattato di Maastricht.
Dicono che la seconda volta la storia si ripete come farsa, e forse David Cameron ha sognato di sedersi al tavolo delle trattative sbattere il pugno e dire: «I want my Uk back»! Ma così non è andata, nonostante per lui non sia finita poi così male.
La lady di ferro aveva un’idea chiara dell’Europa: un mercato liberalizzato dei capitali, dove lasciar competere i nuovi attori della nascente economia neoliberale. Cameron non ha alcuna idea di Europa, non ha un progetto chiaro e non lo ha nemmeno il partito conservatore, completamente scomposto e diviso sulla questione referendaria. Eppure, con suo grande stupore, si è ritrovato a governare per un secondo mandato. Qualcosa doveva pur fare, soprattutto per recuperare popolarità dopo il referendum scozzese, che per la prima volta dopo anni ha spostato il dibattito della penisola britannica verso sinistra.
E quindi ri-negoziati siano! Ma cosa ha ottenuto Cameron? Il Regno Unito non entrerà nell’euro, il Regno Unito non seguirà le regole dell’unione bancaria del sistema euro (del resto non è nell’euro!), il Regno Unito non parteciperà a una «sempre più stretta Unione Europea», il Regno Unito reclama la propria sovranità e l’applicazione del principio di sussidiarietà, Il Regno Unito vuole un’Europa competitiva con una piena implementazione del mercato unico… Insomma fino a qua nulla di nuovo. Ma la questione centrale del negoziato era una sola: la libertà di movimento.
La libertà di movimento dei lavoratori – insieme alla libertà di capitali, beni e servizi – fa parte delle quattro libertà fondamentali alla base dell’Unione Europea, quindi, in astratto, non potrebbe essere limitata. E, in più, ai lavoratori dovrebbe essere garantita equità di trattamento ovunque in Europa, in base al principio di non discriminazione.
Il Regno Unito chiedeva di poter restringere l’accesso al welfare per i cittadini europei fino a un massimo di 13 anni. Ha ottenuto la possibilità di invocare l’emergency brake, che una volta votato dal Parlamento Europeo e dal Consiglio permetterà di restringere l’accesso al welfare dei nuovi migranti europei fino a un massimo di 4 anni e deve essere revocato entro 7 anni.
L’emergency brake non è automatico, ma potrà essere invocato in caso di un afflusso di lavoratori di «portata eccezionale per un periodo prolungato di tempo», che mette a rischio «aspetti essenziali del proprio sistema di sicurezza sociale». In tali circostanze le istituzioni europee potranno autorizzare il paese (e non solo il Regno Unito, ma tutti i paesi dell’UE) a limitare l’accesso al welfare per i nuovi lavoratori migranti di cittadinanza europea.
Altro ottenimento è che il child benefit (ben 20 pound a settimana per figlio!) per i figli non residenti nel Regno Unito verrà indicizzato al costo della vita del paese di residenza.
È la guerra al welfare tourism, già iniziata nel 2013, con restrizioni e riorganizzazioni su come chiedere i benefits. La narrazione conservatrice, inseguendo UKIP, ci racconta che è colpa dei polacchi (quasi 700.000) e dei nuovi migranti del sud (italiani in testa) se i servizi per i cittadini britannici diminuiscono. Ma il welfare britannico è sotto attacco dall’inizio della crisi: prima hanno triplicato le rette dell’università pubblica (oggi 9.000 pound all’anno); poi hanno riorganizzato e ridotto la job seeker allowance e ora il child benefit. Oggi sotto attacco è il sistema sanitario nazionale, dove ai medici è richiesto di lavorare di più a parità di salario.
Il piano dei conservatori inglesi è chiaro: protezione per la city di Londra, il più grande polo finanziario europeo, e sfruttamento del lavoro a basso costo dei lavoratori migranti.
Si voterà il 23 giugno per decidere se il Regno Unito debba rimanere nell’Unione Europea, sulla base di questi nuovi accordi, oppure uscire. Non importa chi vincerà al referendum del 23 giugno: entrambe le posizioni non fanno altro che rafforzare il conservatorismo populista, diventato la nuova faccia del capitalismo neoliberale inglese. Perde comunque l’Unione Europea che con questo accordo distrugge qualsiasi pretesa di non discriminazione tra i cittadini europei. Perde comunque qualsiasi posizione di sinistra, che se vota per il SI, accetta quest’Unione Europea, e se vota per il NO accetta la posizione populista inglese.
Ancora una volta ci troviamo stretti nel dilemma tra un cosmopolitismo europeo elitista e un welfare state nazionalista e razzista. Il referendum per la Brexit e questa rinegoziazione mettono ancora più in difficoltà qualsiasi posizione di sinistra sulla democratizzazione dell’Europa.
Oggi più che mai ci sembra chiaro che per democratizzare l’Europa è necessario rivendicare: salario minimo, reddito di cittadinanza e permesso di soggiorno sganciato dal lavoro. Questo dovrebbe essere il dizionario della nuova democrazia europea, da scrivere insieme nelle diverse reti e iniziative europee.
«Equal rights for all»! O meglio diritti per tutti i lavoratori migranti, siano essi europei o meno.

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