Un documento del Dap punta il dito sul sistema attuale: gli investimenti sono inadeguati e questo incide sul recupero e la qualità della vita nei penitenziari. Dove meno di un terzo dei reclusi svolge un'attività. Mentre chi fa ricorso perché la retribuzione è ferma da vent'anni vince sempre.
L'Espresso di Paolo Fantauzzi
Cesare Beccaria è solo un lontano ricordo. Il giurista illuminato, che propugnava il valore sociale della rieducazione dei detenuti, appare sempre più siderale rispetto al modo in cui l'Italia gestisce la questione carceraria. E se non rappresenta certo una novità, come dimostra la condanna irrogata dalla Corte europea di Strasburgo per trattamento inumano, fa comunque impressione leggere il documento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria dedicato al reinserimento lavorativo, che nei giorni scorsi il ministero della Giustizia ha trasmesso al Parlamento.
A metà 2015 erano 14.570 i reclusi che svolgevano un'attività di qualche tipo: il 27 per cento circa. Ma se i numeri sono confortanti (erano 13.727 nel 2013 e 14.099 nel 2014), il problema resta prettamente economico, come mette in chiaro nella relazione il capo del Dap Santi Consolo: "Nel corso degli ultimi anni le inadeguate risorse finanziarie non hanno consentito l'affermazione di una cultura del lavoro".
Il paradosso è che i soldi che lo Stato non mette in bilancio è costretto a tirarli fuori in tribunale.
La legge prevede che i detenuti che lavorano nelle falegnamerie, tipografie o sartorie all'interno delle carceri (attualmente oltre 10 mila) abbiano diritto a una paga pari ad almeno i due terzi dei contratti collettivi di categoria. Solo che dal 1994, per carenza di fondi, le somme non sono più state aggiornate. Risultato: i ricorsi davanti al giudice del lavoro si moltiplicano e l'amministrazione penitenziaria perde sempre. Ed è costretta a pagare agli ex reclusi non solo le differenze retributive ma anche gli interessi e le spese legali. Quando un paio di anni fa la commissione ministeriale calcolò quanto potesse volerci per chiudere i contenziosi, stimò che solo per il 2014 ci sarebbero voluti 50 milioni. Così, per fare prima ed evitare un salasso, adesso la soluzione allo studio è di sganciare le paghe dai contratti collettivi e introdurne uno specifico per i detenuti-lavoratori.
Ma non è questa l'unica conseguenza. Molti carcerati svolgono infatti i cosiddetti "lavori domestici" nelle case circondariali, come servizi di pulizia, cucina o manutenzione ordinaria. Con risorse insufficienti, le condizioni di igiene ne risentono e questo di riflesso incide negativamente sulla qualità della vita all'interno dei penitenziari. Tanto nelle celle quanto nelle aree comuni. Del resto basta guardare ai numeri: nel 2015 per il lavoro nelle carceri c'erano a disposizione 60 milioni. Divisi per i 10.175 detenuti che svolgono attività negli istituti, fa meno di 350 euro al mese. Per quanto basse, si tratta di somme che rappresentano per moltissimi l'unica fonte di sostentamento. Solo che, per far bastare i soldi per le retribuzioni e impiegare il numero più alto possibile di persone, le ore da lavorare vengono ridotte. E così anche la cifra che è possibile racimolare rimboccandosi le maniche diminuisce ulteriormente. Con la facile previsione che, una volta abbandonate le sbarre, sarà più facile tornare a commettere reati.
Va un po' meglio il lavoro in esecuzione esterna, grazie anche agli sgravi contributivi e fiscali introdotti nel 2000 dalla legge Smuraglia a favore di imprese e cooperative che assumono reclusi o ex. Incentivi ampliati ulteriormente con la legge Svuotacarceri nel 2013, che ha introdotto fra i beneficiari anche i detenuti in stato di semilibertà ed esteso gli incentivi fino a 18 mesi dopo la scarcerazione (che in alcuni casi possono salire a 24). Un paio di anni fa, ultimo dato disponibile, erano 1.413 i datori di lavoro che avevano ottenuto un credito d'imposta per questo motivo, più del doppio di un decennio prima. A conferma che se le risorse ci sono, le cose possono funzionare.
Sempre se poi non prevale la tentazione di metterci le mani sopra, come accaduto l'anno scorso. Per aiutare il reinserimento, nel 2013 si era deciso di raddoppiare gli stanziamenti per gli sgravi: da meno di 5 milioni a oltre 10. Ma è durata poco: preso dalla necessità di raggranellare soldi qua e là, il ministero della Giustizia l'anno scorso ha già drenato qualche centinaia di migliaia di euro. E non è eslcuso che nei prossimi anni, in tempi di magra, decida di attingere ulteriori risorse da questo capitolo di bilancio.
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