La presentazione, svolta a Collegno, vicino Torino, del primo “Almanacco di storia” di MicroMega intitolato Ora e sempre Resistenza (2015), il 19 febbraio scorso, ha avuto un ottimo risultato, sia in termini di presenza di pubblico, sia per il dibattito scaturito dagli interventi di Loriano Macchiavelli (lo scrittore che ha collaborato al fascicolo di MicroMega), di Giampaolo Zancan, giurista e appassionato conoscitore e apologeta della Costituzione repubblicana, e del sottoscritto.
Gli interventi hanno sottolineato la straordinaria qualità del dettato costituzionale, la leggerezza e insieme la forza delle parole usate dai Padri Costituenti e la enorme cultura non soltanto giuridica, ma storica, filosofica, e persino linguistica di quegli uomini e quelle donne. A me è toccato ripercorrere la vicenda del movimento di Liberazione sia nella storiografia, sia nel dibattito pubblico, compreso il chiacchiericcio mediatico dei revisionisti, che hanno finito per giungere al puro “rovescismo”, ossia l’ideologia programmatica del rovesciamento delle verità acquisite, e il ribaltamento dei valori politici e morali, tentando di cancellare il ruolo storico dell’azione dei partigiani, giudicato inutile in termini militari, se non, sovente, dannoso, e di collocare le loro figure sotto le fosche ombre del crimine organizzato.
Dopo gli interventi introduttivi dei tre relatori, il microfono è stata dato alla sala e il dibattito ha raggiunto una certa tensione quando, con un coraggio (o improntitudine) ha preso la parola un deputato del PD che con sprezzo del ridicolo ha lodato le “riforme” del suo governo, ricorrendo a termini ormai vieti e abusati come “modernità”, “innovazione”, “crescita”, “sblocco”, “velocità”, “competenza”, “merito”. Tutte formule politiche, direbbe il buon Gaetano Mosca, “conservatore galantuomo” (l’etichetta è di Piero Gobetti), buone a giustificare l’esercizio del potere, da parte di una minoranza su una maggioranza.
Postando un breve resoconto della serata su Facebook, accanto ai tanti consensi dei lettori, mi sono piovute addosso le aspre reprimende di un paio di studiosi, Giuseppe Bonazzi, sociologo dell’Università di Torino, oggi in quiescenza, a Serge Noiret, bibliotecario all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Mi ha sorpreso il tono d’attacco, che, davanti a qualche replica dei lettori, si è subito impennato verso l’ingiuria, in un crescendo di esternazioni.
Bonazzi (che aveva già al suo “attivo” interventi sul mio profilo, di concerto con un collega dell’Università della Tuscia, Maurizio Ridolfi, renzianissimo come il Bonazzi), si è limitato inizialmente a sentenziare che il referendum sulla “riforma costituzionale”, trasformato da Renzi in un “plebiscito” mussoliniano (o con me o contro di me), vede in ballo Italia (i sostenitori del “sì”) e anti-Italia (coloro che inviteranno a votare “no”). Davanti a qualche salace, ma garbata risposta di altri, incalzato da Noiret, che ha un’attitudine più aggressiva, alza il tiro.
Noiret a sua volta guarda le foto della serata e sentenzia che i presenti erano tutti vecchioni (bastava essere presenti per vedere un gran numero di giovani, al contrario, ma è un dato qui non rilevante), e si chiede: “C’erano anche giovani conservatori o solo vecchi militanti di un tempo che fu e che ce l’hanno con Renzi a prescindere?”. Ma non pago, poco dopo, davanti alle risposte di altri “conservatori” poco in linea con la retorica renziana, torna alla carica e scrive: “Che pena fanno questi catastrofisti avvelenati che non riescono ad emanciparsi dal passato per leggere il presente, confondono epoche e contest!i”. E riferendosi alla mia affermazione ripresa da altri che l’Italicum renziano è peggio della legge Acerbo del 1923, che spianò la strada alla tirannide mussoliniana, prosegue, imperterrito: “Fa così ridere sentire parlare con toni seriosi di ennesimo schiaffo alla democrazia che verrebbe la voglia di gridare svegliatevi e guardatevi attorno: si siamo nel 2016, non nel 1923 anche se si potrebbe ragionare oggi di una legge Acerbo adattata alle condizioni politiche del 21° secolo per farla funzionare meglio questa democrazia”.
A quel punto il Bonazzi ringalluzzito, offre una cordiale stretta di mano a Noiret: “Finalmente parole sagge in quel consesso di deliranti visionari”. E come due pescatori all’osteria che fanno a chi la spara più grossa, ecco il Noiret di rincalzo: “Magari fossero visionari ma ci confrontiamo qui con veri reazionari che delle forme della democrazia moderna nulla sanno ma che soprattutto hanno gli occhi bendati da vecchie convinzioni inutili e dannose oggi per pensare la modernità e i necessari cambiamenti per rispondere ai bisogni della gente: non fanno politica, inveiscono contro chi invece tenta di farla ragionando sul possibile nelle condizioni parlamentari attuali, ovvero su chi fa politica vera nel bene e nel male!”.
Non voglio neppure ribattere e mi fermo sul lessico, per riflettere su come le parole d’ordine renziane siano diventate egemoniche, sulla base di una lunga seminagione berlusconiana e craxiana prima, anche in una parte del ceto intellettuale: il “fare politica vera”, dunque, consiste nell’assicurare un “governo che governi”, diretto da un “capo” che dà ordini, senza i “lacci e lacciuoli” di un Parlamento che deve essere addomesticato. E questa viene spacciata per “democrazia moderna”, “adeguata al XXI secolo.
Politica di giovani per giovani: giovani innovatori, contro i vecchi conservatori, che addirittura appaiono non solo dei “deliranti visionari”, ma addirittura “veri reazionari”, dagli “occhi bendati”. In effetti, personalmente ammetto la mia colpa. Sono un vecchio reazionario, che vuole e vorrà sempre reagire, appunto, alla devastazione della democrazia, alla conservazione dei suoi simulacri (le elezioni), ma allo svuotamento delle sue istituzioni (un Senato da burla, e una legge elettorale che garantisce il 54% dei seggi a un partito che prenda il 22% dei voti, con liste bloccate, decise in sostanza da una persona sola, il capo, e al più dal suo cerchio magico). Aggiungo di essere un visionario che nel suo delirio sogna che la Costituzione venga prima di tutto applicata e quindi rispettata, invece che se ne faccia strame per i manipoli della nuova armata renziana. Siamo visionari tutti noi che ci batteremo fino all’ultimo respiro contro il plebiscito che vorrebbe accogliendo le “riforme” costituzionali, legittimare il potere assoluto di Matteo Renzi, usque ad mortem. Siamo reazionari tutti noi che riteniamo che con la complicità di Giorgio Napolitano si è dato credito a un Parlamento che la Suprema Corte ha decretato illegittimo, e che ha votato non solo un bis per la presidenza di Napolitano, ma gli ha fatto succedere, tirandolo fuori dal frigorifero dell’eterna riserva della Repubblica, l’inossidabile Democrazia cristiana, un personaggio come Sergio Mattarella…
Ma voglio aggiungere una considerazione: in fondo la battaglia per le forme è pleonastica, e comunque insufficiente. La sostanza della “post-democrazia”, come insegnano gli studiosi, è lo svuotamento dello Stato sociale: Renzi è molto avanti nel progetto. Ecco un sommario repertorio: la cancellazione di 130 prestazioni sanitarie, in nome della “razionalizzazione” del sistema; il Jobs act (su cui si continuano a fornire cifre inventate, per dimostrarne l’efficacia a pro dei lavoratori; si veda l’intervista ad uno studioso tutt’altro che antigovernativo come Luca Ricolfi, sul Fatto Quotidiano, che ha smontato le statistiche di comodo renziane); gli insani provvedimenti su scuola e università, in nome della “meritocrazia”; le privatistiche misure relative ai Beni Culturali, in nome della “valorizzazione del patrimonio”; le misure annunciate, poi ritrattate, ma rimaste sul tappeto, contro le pensioni di reversibilità, in nome dell’ “equità”, e così via, sono altrettanti passi della marcia postdemocratica, tasselli del mosaico di una democrazia non solo senza democrazia, ma di una società in cui le tutele e le garanzie sociali per i cittadini vengono smantellate.
Se n’è accorto anche il presidente della Corte dei Conti, che nella relazione annuale di pochi giorni fa, ha detto in modo chiaro e in equivoco che la spending rewiev, oltre a non conseguire l’annunciato, strombazzato risultato di risparmio stratosferico, è stato soltanto la foglia di fico per coprire il taglio delle prestazioni che lo Stato deve ai suoi cittadini, in ragione del contributo che da essi riceve in termini di prelievo fiscale.
Su questi temi, una sinistra a cui non voglio dare etichette, ma indispensabile, e necessaria, dovrebbe battersi, innanzi tutto. Fermiamo dunque col no al referendum costituzionale la devastazione della nostra Carta, legge fondante della Repubblica; e diciamo no al nuovo picoclo duce; creiamo dibattiti, diamo vita a comitati, raduniamo le forze e organizziamo l’azione territorialmente. Ma non dimentichiamo i contenuti di una politica che si sta rivelando come si diceva un tempo “ferocemente antiproletaria”: parole antiquate, che potremmo tradurre, come politica antiegualitaria, a vantaggio dei ceti dominanti. E gli intellettuali dovrebbero essere i primi ad accorgersene e a cercare di mobilitarsi per urlare il loro no, invece di plaudire, complici o conniventi.
(23 febbraio 2016)
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