giovedì 25 febbraio 2016

La crescita non c'è. Il Fmi avverte il G20

La crescita non c'è. Il Fmi avverte il G20
contropiano Claudio Conti
Sulla capacità di previsione dei grandi organismi decisionali sovranazionali è sempre lecito ironizzare. Purché lo si faccia ricordando che le suddette “previsioni” sono di solito poco più che pretesti per imporre scelte di politica economica ai singoli stati – soprattutto se piccoli o in crisi, quelli grandi e in salute si difendono meglio – orientate dagli interessi del grande capitale multinazionale.

Si apre domani a Shangai il vertice del G20 e il Fondo Monetario Internazionale, come sempre, lo “prepara” sfornando il suo World Economic Outlook – sarà pubblicato solo in aprile, ma viene messo a disposizione subito dei “decisori” - contenente appunto le previsioni sui prossimi due anni.
Negative. Decisamente negative. Ancora peggiori di quelle diffuse a gennaio, poche settimane fa, che già davano la crescita globale attesa in sostanzioso ridimensionamento: +3,4% nell'anno in corso e 3,5% il prossimo. Se fossero previsioni riguardanti l'Italia si farebbe festa, ma come stime globali sono terribilmente basse (un calo dello 0,2% rispetto alle stime precedenti). Perché per fortuna c'è la Cina che ancora tira per tutti (+6,9, mentre fino a due anni fa stava stabilmente sopra il +10), insieme a qualche altro “emergente” come l'India, che però parte da un'arretratezza millenaria.
Non c'è bisogno di essere ai vertici del Fmi per capire che la tempesta borsistica globale di questo inizio d'anno ha avuto un peso nella revisione. Non solo o non tanto per la portata della “correzione” - -5,4% per il Dow Jones, -8,5 il Nasdaq, ma anche -15,2 Tokyo, -14,7 Francoforte, -6 Londra, ecc – quanto per la dimensione di problemi, e degli smottamenti, di cui è il sintomo più evidente.
«La ripresa globale si è ulteriormente indebolita a fronte di un aumento delle turbolenze finanziarie e di un calo dei prezzi degli asset», ricorda l'istituto che ha confermato ai vertici Christine Lagarde, definendo come «inatteso» lo stop registrato tra la fine del 2015 e l'inizio del 2016. Di qui a ironizzare sull'attendibilità delle “attese” precedenti, il passo sarebbe breve...
Ma non è il caso di perdersi in sorrisetti, perché «questi sviluppi puntano a rischi maggiori di un deragliamento della ripresa in un momento in cui l'economia globale è particolarmente vulnerabile a shock avversi». Dopo otto anni di crisi, gestiti imponendo “cure” suicide a mezzo mondo (gli Usa ovviamente fanno in casa l'opposto di quel che consigliano agli altri), il Fmi deve registrare che nulla è davvero migliorato. Che il sistema è fragilissimo, al punto che solo «politiche monetarie accomodanti» possono evitare che la situazione collassi. Un avvertimento diretto alla Federal Reserve statunitense, che proprio in dicembre ha per la prima volta dopo sei anni ritoccato al rialzo il tasso di interesse (a lungo fermo a livello zero), segnalando così una volontà di “ritorno alla normalità” che i mercati hanno interpretato come fine del denaro facile e a costo zero.
Il suggerimento del Fmi è dunque quello di innestare la retromarcia, o quantomeno “far intendere” ai mercati che ulteriori rialzo sono per il momento esclusi. Perché quelle politiche monetarie ultra-espansive (definite fino a poco tempo fa come “non convenzionali”, ma diventate rapidamente “normali”) «restano essenziali dove l'inflazione è ancora sotto i target delle banche centrali». Praticamente ovunque, nei paesi maggiormente sviluppati.
Non si tratta però di un orientamento lineare, visto che lo stesso Fmi si preoccupa di sottolineare che «va ridotto l'eccesso di dipendenza dalle politiche monetarie». Ovvero il contrario di quanto appena raccomandato. Se i mercati sono diventati infatti così sensibili alle scelte di politica monetaria fatte dalle banche centrali, vuol dire che hanno smarrito il proprio equilibrio “naturale”, se mai ne è esistito uno. E non lo ritroveranno da soli.
Lo sa bene il Fmi, che addirittura vorrebbe veder costruire una “rete di protezione” ancora più ampia per il sistema finanziario globale: «potrebbero essere necessarie riforme alla reti di sicurezza finanziaria globale, inclusi nuovi meccanismi di finanziamenti».
Ma chi deve mettere le risorse queste “reti di sicurezza”? Gli Stati, ovviamente, che contemporaneamente sono invece chiamati a ridurre il proprio debito, stabilizzando i bilanci. Botte piena e moglie ubriaca, si potrebbe dire, ma non è esattamente così. Perché il suggerimento è sempre lo stesso: taglia ferocemente quel che è rimasto di spesa pubblica “sociale” e mettere tutto il ricavato, e anche di più, nelle reti di sostegno al sistema finanziario.
Una conferma piena della politica economica in atto da un quarto di secolo e che ha avuto un grosso ruolo nell'esplosione stessa della crisi. L'”anomalia europea”, per esempio, consiste(va) negli istituti di welfare e nella legislazione a protezione dei lavoratori. “Rimuovere” questa anomalia, come si sta facendo da trenta anni a questa parte, non ha alcuna seria motivazione macroeconomica, ma principalmente ragioni di classe; ossia distorsive della ripartizione della ricchezza prodotta a vantaggio esclusivo della grande impresa e ancor più della finanza.
Il Fmi non ammette ovviamente l'esistenza di una contraddizione insolubile tra i due orientamenti consigliati (stimolare la crescita e tagliare la spesa che alimenta, almeno in parte, la domanda solvibile), in modo da poter come sempre stilare una lunga lista di consigli personalizzati ai vari paesi o aree monetarie.
Per esempio la Germania e altri paesi ancora in forze «dovrebbero fare di più per sostenere la crescita attraverso per esempio investimenti in infrastrutture». La Federal Reserve dovrebbe “comunicare meglio” le proprie intenzioni, eccc.
Ma tutto il castello di chiacchiere e indicazioni si regge su un'incognita grande come un continente: la Cina reggerà oppure no al passaggio verso un'economia “maggiormente orientata al mercato”? Qui, tra le righe, si possono vedere dita incrociate e ascoltare sommessi scongiuri. Ma non molto di più.
Non a caso, il più esperto degli analisti, Martin Wolf, ricorre alla vecchia cara metafora del “denaro da spargere con gli elicotteri”. Solo un mare di liquidità a costo zero, o addirittura negativo, insomma, sembra capace di impedire l'esplosione del sistema. E potrebbe anche non funzionare affatto. Basta ricordare, però, che regalare denaro (i tassi negativi significano questo: che il debitore dovrà restituire meno di quel che gli viene prestato), è il contrario della “normalità” capitalistica.
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Contro la frenata dell’economia servono elicotteri carichi di denaro
di Martin Wolf
L'economia mondiale sta rallentando, sia sul piano strutturale che su quello congiunturale. Come possono reagire le autorità? Con improvvisazioni disperate, su questo non c'è dubbio: i tassi di interesse negativi hanno già traslocato dal regno dell'impensabile a quello della realtà. Il prossimo passo sarà probabilmente l'espansione della spesa pubblica: è quanto raccomanda l'Ocse, per lungo tempo fiero sostenitore del rigore di bilancio, nel suo Interim Economic Outlook. Ma difficilmente la storia finirà qui. L'espansione della spesa pubblica potrebbe essere accompagnata da un sostegno monetario diretto, inclusa la politica più radicale di tutte: gli elicotteri che rovesciano denaro sulle città, per usare l'immagine del compianto Milton Friedman.
Più vicino ai giorni nostri, questa è la politica preventivata da Ray Dalio, fondatore dell'hedge fund Bridgewater. Non solo l'economia mondiale sta rallentando, dice Dalio, ma la «politica monetaria 1» – tassi di interesse più bassi – e la «politica monetaria 2» – l'allentamento quantitativo – hanno in gran parte esaurito la loro efficacia. Il mondo ha bisogno di una «politica monetaria 3», che punti direttamente a incoraggiare la spesa. È la stessa raccomandazione di Adair Turner (ex presidente della Financial Services Authority, l'organismo di vigilanza – oggi abolito – sui mercati finanziari britannici) nel suo libro Between Debt and the Devil.
Perché il mondo dovrebbe ridursi a simili espedienti? In sintesi, perché il rallentamento dell'economia globale è destinato a durare a lungo. L'Ocse ora prevede una crescita della produzione globale nel 2016 «non maggiore di quella del 2015, che già era il livello più basso degli ultimi cinque anni». Alla base di questo rallentamento c'è un semplice dato di fatto: l'eccedenza di risparmi a livello globale (cioè la tendenza delle intenzioni di risparmio a crescere più in fretta delle intenzioni di investimento) è in aumento e la «sindrome da deficienza cronica della domanda» si sta aggravando.
Questa fase della debolezza della domanda va vista nel suo contesto storico. Il tasso di interesse reale a lungo termine sui titoli sicuri è in calo da almeno due decenni. È dall'inizio della crisi finanziaria del 2007-2009 che si aggira intorno allo zero. Prima di allora, la debolezza della domanda era compensata in Occidente da un insostenibile boom del credito. Dopo di allora, i disavanzi di bilancio, i tassi di interesse a zero e l'espansione dei bilanci delle Banche centrali hanno stabilizzato la domanda in Occidente, mentre in Cina un'espansione del credito ha finanziato investimenti su larga scala. Le politiche monetarie accomodanti in Occidente e le politiche creditizie accomodanti in Cina hanno anche alimentato il boom delle materie prime seguito alla crisi, anche se il fattore più importante in questo caso è stata la crescita eccezionale della Cina.
La fine di questi boom del credito è una delle cause principali della debolezza della domanda. Ma la domanda è debole anche se rapportata al rallentamento della crescita dell'offerta. A livello mondiale, la crescita dell'offerta di manodopera e della produttività della manodopera è calata sensibilmente dalla metà del decennio scorso. Una crescita più bassa della produzione potenziale indebolisce la domanda, perché fa scendere gli investimenti, che in un'economia capitalista rappresentano sempre un motore di spesa fondamentale.
È questo contesto – rallentamento della crescita dell'offerta, aumento della sproporzione fra intenzioni di risparmio e intenzioni di investimento, fine di boom del credito insostenibili e, non da ultimo, una situazione pregressa di debiti enormi e sistemi finanziari indeboliti – che spiega le attuali circostanze. Spiega anche perché economie che non riescono a generare un adeguato livello di domanda internamente sono obbligate a puntare, tramite l'indebolimento del tasso di cambio, su una crescita trainata dalle esportazioni, a scapito degli altri paesi. Il Giappone e l'Eurozona fanno parte di questo club, e anche le economie emergenti che vedono crollare il tasso di cambio. La Cina resiste, ma per quanto ancora? Un renminbi più debole sembra quasi inevitabile, indipendentemente da ciò che dicono le autorità.
Non esistono soluzioni semplici per gli squilibri economici globali attuali, solo palliativi. La tendenza del momento nella politica monetaria sono i tassi di interesse negativi. Dalio sostiene che «è vero che i tassi di interesse negativi renderanno un po' meno attraente (ma non di molto) il denaro liquido, ma non per questo spingeranno […] i risparmiatori a comprare quel genere di attività in grado di finanziare la spesa». Sono d'accordo. Non riesco a immaginare che questa cosa possa bastare a spingere le imprese a investire. Lo stesso si può dire per l'allentamento quantitativo convenzionale. L'effetto più importante di queste politiche probabilmente passerà attraverso i tassi di cambio. Altri Paesi perseguiranno una crescita trainata dalle esportazioni di fronte al sovraindebitamento dei consumatori americani. È un meccanismo destinato a saltare per aria.
Un'alternativa è la politica di bilancio. L'Ocse sostiene, con argomenti convincenti, che un'espansione coordinata degli investimenti pubblici, abbinata a riforme strutturali appropriate, potrebbe potenziare la produzione e perfino ridurre il rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo. È uno scenario particolarmente plausibile nella situazione attuale, perché i Paesi più importanti possono prendere denaro in prestito a tassi di interesse reali a lungo termine nulli o addirittura negativi. L'ossessione per l'austerity perfino in una situazione di tassi così bassi è una follia.
Se i Governi non sono disposti ad adottare questi comportamenti logici – e purtroppo tutto lascia pensare che non lo siano – restano in campo solo le Banche centrali. Si potrebbe assegnare loro il potere di spedire denaro, idealmente in forma elettronica, a tutti i cittadini adulti. Basterebbe a far crescere la domanda? Assolutamente sì. Con l'assetto monetario esistente, genererebbe anche un aumento permanente delle riserve delle banche commerciali presso la Banca centrale. Il modo semplice per contenere qualsiasi effetto monetario sul lungo termine sarebbe incrementare i coefficienti di riserva obbligatoria, che potrebbero diventare un elemento auspicabile dei nostri instabili sistemi bancari.
Il punto principale è questo: le forze economiche che hanno spinto l'economia mondiale a una situazione di tassi di interesse reali nulli e, sempre più spesso, tassi ufficiali negativi, oggi si stanno rafforzando. È quello che evidenzia l'economia mondiale, è quello che indica la politica monetaria ed è quello, sempre di più, che dimostrano i prezzi delle attività.
I policymakers devono prepararsi a una nuova normalità fatta di politiche più sgradevoli, meno convenzionali o tutte e due le cose. Il mondo è in grado di uscire da questa situazione di debolezza cronica della domanda? Assolutamente sì. Ne uscirà? Solo se ci sarà il coraggio necessario. Quando le opzioni vagamente possibili sono esaurite, la risposta va cercata in quello che resta, per quanto improbabile.
Copyright The Financial Times Limited 2016
(Traduzione di Fabio Galimberti)
- da Il Sole 24 Ore

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