giovedì 11 febbraio 2016

Diritto vs amore, un conflitto inevitabile?

È possibile pensare ad un rapporto tra la norma giuridica e la concretezza delle relazioni d’amore che non sia basato solo sulla contrapposizione e sulla inconciliabilità tra le due? È la questione affrontata da Rodotà nel suo ultimo, piccolo ma densissimo libro: “Diritto d’amore” (Laterza), di cui pubblichiamo l'introduzione e la recensione di Chiara Saraceno.



micromega di Chiara Saraceno

“Il rapporto tra diritto e amore… è stato ed è conflittuale, quando non una prevaricazione del primo sul secondo. Il diritto è stato pesantemente usato come strumento di neutralizzazione dell’amore, quasi che, lasciato a se stesso, l’amore rischiasse di dissolvere l’ordinamento sociale” (p.3). Nel migliore dei casi, il diritto ha confinato l’amore senza legge allo stato di eccezione: non regolabile ma anche non riconoscibile, per questo anche asociale. Questo conflitto non si svolge ad armi pari, al contrario, spesso si è sviluppato e si sviluppa in rapporti fortemente simmetrici.

Se questo è il dato storico di partenza, è possibile pensare ad un rapporto tra diritto e amore, tra norma giuridica e la concretezza delle relazioni d’amore che non sia basato solo sulla contrapposizione conflittuale, sulla inconciliabilità tra le due? È questa la questione affrontata da Rodotà nel suo ultimo piccolo, ma densissimo, libro ("Diritto d’amore", Laterza, Bari, 2015), intrigante e spiazzante, fin dal titolo: “diritto d’amore” può essere letto sia come diritto regolato dall’amore, sia come riguardante i rapporti d’amore, sia, infine, come “diritto all’amore”, ad avere rapporti d’amore.

In effetti, l’intero testo è percorso dalla tensione, interazione, ma anche slittamento tra questi diversi significati, oltre che tra una concezione, e pratica, del diritto in conflitto con i rapporti e le scelte d’amore, ed invece una possibile concezione ed uso del diritto che, riconoscendo questi rapporti, abiliti i soggetti a svilupparli e sostenerli. Ciò lo rende un libro insieme complesso e affascinante, che apre su una serie di riflessioni e revisioni del dato per scontato. Un libro anche onesto, che riconosce, cosa per nulla consueta, il debito intellettuale alla riflessione messo in moto in primis dal movimento delle donne e poi dal movimento Lgbt sulle violenze e le censure rispetto ai rapporti d’amore, e prima ancora alla libertà di intrattenerli e svilupparli, operate nella storia plurisecolare della normazione giuridica dei rapporti famigliari e della generazione.

Il diritto, infatti, a lungo – e in Italia in parte ancora oggi – nella pretesa di normalizzare, costringere in un ordine, il potere dirompente dell’amore, da un lato lo ha espunto come fondamento legittimo e necessario proprio delle relazioni ove, almeno oggi, pensiamo debba trovarsi: le relazioni matrimoniali e quelle generazionali. La codificazione del matrimonio – chi può sposarsi, a quali condizioni e con quali conseguenze – e della filiazione legittima a lungo non hanno previsto l’amore ed anzi lo hanno visto come un potenziale rischio per la stabilità. Con l’amore si è sempre esposti al rischio della mesaillance, del “cattivo matrimonio” (e alla sua rottura, se l’amore viene meno). Ed un “figlio dell’amore”, ma non del matrimonio, è stato a lungo considerato non solo illegittimo – termine fortissimo nella sua condanna alla non esistenza sociale – ma una minaccia alla stabilità della famiglia e alla continuazione dei patrimoni. La subordinazione delle donne nel matrimonio e in società, il controllo sul loro corpo, sono stati insieme la conseguenza e lo strumento di questa espulsione dei rapporti d’amore dalla famiglia.

“Per poter neutralizzare l’amore, il diritto deve impadronirsi del corpo. E lo fa con la sua abituale prepotenza quando il corpo è, nella quasi totalità dei casi, quello della donna” (p. 49). Di qui, non solo la formazione sul matrimonio, gli obblighi a lungo asimmetrici di infedeltà, il divieto di contraccezione e di aborto, su su, in Italia, fino alla orrenda legge quaranta che, benché ampiamente smantellata da successive sentenze delle Corti Europee e nazionali, tuttora mostra le tracce della libido normativa nella definizione di chi, in quali relazioni, può accedervi. Una traccia che, secondo Rodotà, si trova non solo nelle persistenti resistenze, in Italia, ad una equiparazione dei diritti delle persone omosessuali alla famiglia e al riconoscimento dello status legale di coppia ai loro rapporti di amore e solidarietà, ma anche nella sentenza della Corte Costituzionale del 2010 che oggi viene invocata, ahimè anche dal presidente della repubblica, per rifiutare ogni equiparazione della coppia dello stesso sesso ad uno statuto di “famiglia”. Quella sentenza, infatti, pur riconoscendo che le unioni tra persone dello stesso sesso hanno diritto ad una qualche forma di riconoscimento sociale e giuridico, ne ha escluso la compatibilità con il matrimonio in nome sia del codice civile che non lo contempla, sia di una supposta tradizione millenaria data per scontata sia nella sua immobilità sia nella sua omogeneità. Rodotà osserva che ciò facendo la Corte Costituzionale da un lato ha operato una inversione impropria nella gerarchia tra Costituzione e codice civile, dall’altro ha tentato di fatto una costituzionalizzazione di una tradizione ipostatizzata come astorica e scevra da conflitti di potere.

Le pagine che Rodotà dedica all’analisi sia delle vicende della Costituente in materia di regolazione della famiglia e dell’uguaglianza tra i sessi, sia alle successive sentenze della Corte Costituzionale in materia di parità dei sessi e di famiglia sono di estremo interesse, anche perché mostrano come la Corte stessa, essendo un corpo fatto di uomini (letteralmente, per un lunghissimo tempo, aggiungo io) situati nel loro tempo e cultura, ha anche cambiato posizione, sollecitata da ciò che avveniva in società. Ed anche il confronto serrato con le vicende delle corti costituzionali di altri paesi e con la Carta europea sono molto istruttive anche per i non addetti ai lavori. Ma altrettanto interessanti, e meno scontate in un costituzionalista, sono le pagine dedicate al modo in cui il movimento delle donne (fin dalla Costituente, come ben esemplificato dalla posizione di Maria Maddalena Rossi), e la riflessione femminista hanno operato quella che lui definisce una “rivoluzione copernicana”, facendo della “sovranità sul proprio corpo” un diritto fondamentale di libertà e perciò indirettamente aprendo le porte alla possibilità che il diritto possa essere utilizzato non per costringere, escludere, subordinare, ma per eliminare costrizioni, discriminazioni, disuguaglianze, rendendo così possibile il riconoscimento dell’amore come fondamento di una relazione tra uguali.

Questo cambiamento di paradigma ha radicalmente cambiato il matrimonio dall’interno e reso legittima la richiesta di accedervi anche alle coppie dello stesso sesso. Si può capire che taluno abbia nostalgia per un tempo antico in cui il matrimonio aveva scopi riproduttivi e di mantenimento di un ordine sociale gerarchico, a prezzo della disuguaglianza al suo interno e dell’esclusione di alcuni. Ma si tratta di una nostalgia il cui fondamento giuridico è eroso. Riprendendo una sentenza del 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo, Rodotà osserva che il diritto al matrimonio non va più inteso nella logica contrattuale (neppure nel senso di un “contratto sentimentale”), ma come “strumento liberamente scelto per costruire vita e personalità” (p. 109). In questo senso, la sua apertura alle coppie dello stesso sesso non può essere intesa solo come vittoria di un gruppo che prima ne era escluso, ma come parte del complesso processo di cambiamento di questo istituto. Un cambiamento, per altro, sempre in corso, probabilmente mai compiuto così come mai compiuta è la vicenda umana di definizione, o forse meglio costruzione, di che cosa sia l’umanità e di come si esercitino sia la libertà e l’uguaglianza, sia la solidarietà.

Nelle pagine finali Rodotà non si sottrae alla domanda se tutto, in amore, debba rientrare nell’alveo del diritto, anche quando questo si ponga al servizio della libertà e non della coercizione e dell’esclusione. Lo fa in punta dei piedi, forse persino troppo, parlando di amore a bassa istituzionalizzazione. La questione, infatti, a mio parere, non riguarda il fatto che alcune relazioni d’amore non chiedono e non vogliono riconoscimento, e neppure il fatto che sia da evitare che la legge definisca puntualmente i criteri di fedeltà reciproca. Le società multiculturali sono oggi confrontate da modi diversi di intendere i rapporti matrimoniali e famigliari. Fatte salve le garanzie di libertà individuali, che non è poco e forse è tutto, che fare, ad esempio, della poligamia o anche della poliandria? Anche nelle società occidentali più aperte alla trasformazione del matrimonio, la monogamia legale (almeno temporanea, seriale) è il confine ultimo, ribadito anche nella, pur estesa, definizione di famiglia che nell’Unione Europea dovrebbe regolare il diritto al ricongiungimento famigliare. Il fatto che spesso neppure questa definizione estesa venga utilizzata dai singoli paesi, perciò negando i diritti d’amore (e di solidarietà) dei migranti è un’altra storia ancora.

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UN ESTRATTO DA "DIRITTO D'AMORE"


di Stefano Rodotà, da Laterza.it
Sono compatibili, sono pronunciabili insieme, le parole diritto e amore? O appartengono a logiche conflittuali, tanto che l’una e l’altra cercano reciprocamente di sopraffarsi? Il diritto è stato pesantemente usato come strumento di neutralizzazione dell’amore, quasi che, lasciato a sé stesso, l’amore rischiasse di dissolvere l’ordine sociale. Opinione antica, dunque non riferibile soltanto alle vicende a noi più vicine. Siamo di fronte ad un conflitto, combattuto però non ad armi pari, con il potere concentrato sostanzialmente dalla parte del diritto, che lo esercita come strumento per il disciplinamento dell’amore, fino a negare alla persona la libertà d’innamorarsi.

Nel definire la vita, Montaigne ne parla come di «un movimento ineguale, irregolare e multiforme». Qualcosa che, per la propria intima natura, si presenta irriducibile all’esigenza di un diritto che parla invece di eguaglianza, regolarità, uniformità. Dunque di astrazioni, che non tollerano l’imprevedibile, il volubile, la sorpresa, che invece sono caratteristiche della vita. Con intensità ancora maggiore possiamo dire lo stesso dell’amore, che consegna alla vita il massimo di soggettività, la immerge nelle passioni, evoca «gli spettri della discontinuità e dell’incoerenza», ci porta nell’intimo di motivi che la regola giuridica non può o non vuole cogliere, perché intende parlare il linguaggio della ragione e non dei sentimenti. La moderna concezione dell’amore sembra essere contrassegnata appunto «dalla nebulosità delle emozioni, dall’imprevedibilità degli eventi e dei loro sviluppi».

Dobbiamo allora chiederci, fin dall’inizio, se sia possibile l’integrazione dell’amore in una visione razionalistica del matrimonio, che di esso è stata riferimento costante, obbligato per il diritto. Una inconoscibilità radicale, che preclude ogni possibile riconoscimento? Dobbiamo concludere che l’amore, nella sua essenza, è «allergico alle goffagini del diritto civile»? O, più radicalmente, che, timoroso com’è degli incendi, il diritto ha confinato l’amore senza legge in uno stato d’eccezione. Dobbiamo allora convenire che, se il diritto vuole avvicinarsi all’amore, deve abbandonare non solo la pretesa d’impadronirsene, ma anche trasformare tecnicamente sé stesso in un discorso aperto, capace di cogliere e accettare contingenza, variabilità e persino irrazionalità. Soprattutto, di fronte alla vita, il diritto deve essere pronto a lasciare il posto al non diritto.

Ma il diritto non è stato solo nell’opera di anestesia dei sentimenti, tra i quali l’amore finiva con il presentarsi come il più pericoloso, per la sua pienezza, per il suo occupare la vita spesso senza lasciare spazi per altro che non fosse l’abbandono ad esso o comunque divenendone una possessiva componente. Al diritto è venuta in soccorso la politica, quando ha assunto tra i suoi compiti anche quello di «formare il cittadino serio e onesto, obbediente alle regole, parsimonioso nelle passioni», in una logica «di disciplinamento delle pulsioni». Questo modo d’intendere e praticare la politica ha fatto sì che, per una non breve fase della storia italiana, si è potuto sostenere che non fossero sostanzialmente visibili i caratteri distintivi tra «il rigorismo cattolico e quello social-comunista». Si comprende così la difficoltà di un mutamento pure delle più aggressive tra le regole giuridiche, che nella politica ha trovato, e ancora continua a trovare, fiere resistenze con motivazioni diverse, che parlano di tutela della morale pubblica e privata o di garanzia del matrimonio eterosessuale come storico fondamento dell’ordine sociale. Questo esempio italiano, assai eloquente, non è tuttavia isolato. Nei tempi e nei luoghi più diversi l’alleanza tra politica e diritto ha potentemente contribuito a creare condizioni propizie a costumi e abitudini che respingevano l’amore e la sua pienezza. [...]

Nell’esperienza storica, il diritto si è fortemente impadronito dell’amore, e questa esperienza deve essere considerata nella sua complessità, nelle variabili che l’hanno accompagnata. Nella modernità occidentale soprattutto, lo ha chiuso in un perimetro, l’unico all’interno del quale poteva e doveva essere considerato giuridicamente legittimo: il rapporto coniugale formalizzato, il matrimonio, tanto che si è giunti a scrivere che «non si dà ‘libertà sessuale’ fuori, e perciò anche prima, del rito-matrimonio». In questo perimetro veniva poi operata una seconda riduzione, costruendo i rapporti tra i coniugi secondo categorie tipiche del diritto patrimoniale. La proprietà: ciascun coniuge ha un diritto sul corpo dell’altro, dunque sulla sua persona, in una visione estrema sulla sua stessa vita. Il credito: il diritto di esigere prestazioni sessuali connota la relazione matrimoniale, all’interno della quale compare il «debito coniugale».

Ma queste vicende solo nelle apparenze riguardano allo stesso modo entrambi i coniugi. I loro rapporti giuridici sono costruiti obbedendo ad una «naturale» asimmetria, all’insegna di una permanente diseguaglianza. «La pretesa che la ragazza non porti nel matrimonio con un uomo alcun ricordo di relazioni sessuali con un altro, non è a ben vedere che la continuazione logica di quel diritto all’esclusivo possesso di una donna, che forma l’essenza della monogamia: l’estensione di questo monopolio al suo passato». Così scrivevano i giudici italiani all’inizio del secolo, dando rilievo all’error virginitatis che così diveniva causa di annullamento del matrimonio, per errore sulle qualità personali del coniuge. Per questi giudici erano del tutto irrilevanti le osservazioni contenute in una sentenza del 1911 della Corte d’appello di Milano, presieduta dal più gran magistrato del tempo, Ludovico Mortara, che ancor oggi possono essere lette con profitto.

«Elevare la verginità fisica della donna a qualità essenziale, il cui difetto, se non è stato prima dichiarato, diviene causa di annullamento delle nozze, significa abbassare il matrimonio al livello di un contratto commutativo, nel quale l’oggetto principale sarebbe costituito dal corpo degli sposi; vuol dire estendere al matrimonio i principi della garanzia che il venditore deve al compratore per i vizi e difetti occulti della cosa venduta, assegnando precisamente al difetto di verginità la funzione di un vizio redibitorio, per la quale si considera la sposa deflorata non atta a raggiungere i fini del matrimonio; nello stesso modo che si soleva nel medioevo subordinare la validità dei contratti di compra-vendita delle schiavette di Levante e di Barberia alla condizione che la giovane fosse ‘non fatta’, ma ‘sana,integra in totis suis membris sine macula’».

Possesso, e non amore dunque, come regola giuridica di base. Proprietà, e non appartenenza reciproca, come strumento per la legittimazione di un rapporto personale che, per questa ragione, si stenterebbe a definire amoroso. E quale fosse la considerazione dell’amore in importanti e influenti scritti giuridici lo conferma il modo in cui, discutendo della nuova codificazione civile del 1942, si esprimeva uno dei più celebrati giuristi dell’epoca, Francesco Carnelutti: lo «ius in corpus o in corpore dell’un coniuge verso l’altro (...) è più vicino che non sembri al diritto nascente per l’imprenditore verso il lavoratore dal contratto di lavoro». Può l’amore essere associato alla subordinazione?

Queste sono le costruzioni culturali che spiegano la persistenza nel Codice civile del 1942 dell’attribuzione al marito del ruolo di «capo della famiglia», come disponeva l’articolo 144, rimasto in vigore fino alla riforma del 1975, segno manifesto di una struttura gerarchica della famiglia di cui non fu facile liberarsi nell’elaborazione stessa della Costituzione. Quelle costruzioni spiegano, senza giustificarla, la fatica che la stessa Corte costituzionale dovette fare per cancellare la clamorosa discriminazione legata alla considerazione come reato dell’adulterio della moglie, mentre lo stesso non era previsto per il marito. Ribadendo con la forma della norma giuridica il modello maschile, il diritto alzava una robusta, talora inviolabile, barriera tra amore e vita.

Difficile rimuovere queste barriere anche in tempi che sembrano i più propizi al rinnovamento. All’Assemblea costituente, quando si discute del matrimonio, suscita sconcerto e opposizioni la formula che lo vuole «ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». Prendono la parola Vittorio Emanuele Orlando, fondatore del diritto pubblico italiano e politico di spicco, Piero Calamandrei, che della Costituzione repubblicana diverrà il più eloquente banditore, e un altro politico eminente, Francesco Saverio Nitti. Come si vedrà più avanti, tutti sottolineano il contrasto tra quella norma e l’articolo appena citato del Codice civile che sancisce la superiorità del marito. La loro radicata cultura giuridica li paralizza, impedisce loro non solo di vedere quale inaccettabile tradizione fosse espressa da quell’articolo, ma addirittura la novità giuridica che essi stessi stavano costruendo. La Costituzione, infatti, modificava la gerarchia delle fonti giuridiche, ponendola al disopra di tutte le altre, sì che non era possibile invocare il Codice contro la Costituzione. Cattiva abitudine non del tutto scomparsa, visto che ritorna quando si discute della possibilità di riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ma all’Assemblea costituente si leva una voce che coglie il punto civile, prima ancora che politico, della questione. È quella di Maria Maddalena Rossi: «c’è qualcuno che ha intenzione di cambiare il Codice civile in materia, e sono precisamente le donne italiane».

Siamo sempre all’Assemblea costituente, quando si discute, anche con asprezza, intorno alla qualificazione del matrimonio come «indissolubile». Per i cattolici questo è un punto di grandissima rilevanza, e Togliatti si muove con fatica tra il timore di una rottura con quel mondo e la consapevolezza di una forzatura, tanto che si attirerà l’ironia di Benedetto Croce. Alla fine la proposta di dichiarare l’indissolubilità del matrimonio viene respinta, con il voto determinante dei comunisti. Ma le cronache parlamentari non riferiscono di quello che Togliatti confidò a chi gli chiedeva ragione di questa scelta, dopo i tentennamenti precedenti. Era stata proprio l’opinione delle donne del suo partito ad averlo indotto ad una decisione per lui così difficile.
Di nuovo, ancora le donne, sempre le donne. Non rivendicano solo i diritti del genere, ridanno senso al mondo. La liberazione di tutti, com’è accaduto infinite volte nella storia, viene dalla consapevolezza e dalla ribellione di chi è sottomesso, escluso, privato di libertà e dignità. Forse, in questo caso, vi è qualcosa di più e di diverso – il modo in cui le donne hanno «intelletto d’amore».

Di fronte a situazioni come quelle ricordate può essere forte la tentazione di proporre una versione tutta caricaturale della cultura giuridica, che pure per molti versi la meriterebbe, ignorando la lezione e le parole di Arturo Carlo Jemolo. Eccezione certo, in un panorama ben diversamente caratterizzato, ma che nasceva da una consapevolezza storica che gli consentiva di liberarsi, insieme, delle chiusure schematiche del diritto e di quelle della religione cattolica, che egli stesso professava, rivolgendo a matrimonio e famiglia uno sguardo ben più libero. Si è molte volte ricordata una sua frase sulla famiglia come «un’isola che il diritto può solo lambire, ma lambire soltanto». E, ancor più incisivamente, aggiungeva: «la famiglia è la rocca sull’onda, ed il granito che costituisce la sua base appartiene al mondo degli affetti, agli istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto». Su questo punto si discuterà più avanti, ma in quelle parole vi è un duplice insegnamento. Compare, prima d’ogni altro riferimento, quello al «mondo degli affetti», via che venne finalmente imboccata, pur con limiti ed esitazioni, dalla riforma del diritto di famiglia del 1975. Soprattutto vi è un netto rifiuto d’ogni pretesa statalista di impadronirsi della vita amorosa della persona, conformandola secondo categorie come quelle dell’ordine pubblico e del buon costume. E che dire, in uno scrittore così sorvegliato, dell’apparire degli «istinti primi», dunque del riconoscimento delle insondabili ragioni dell’amore?

Si potrebbe dire che, liberi da queste ipoteche, il diritto viene reintegrato in un contesto culturale dove alla disciplina dell’amore si sostituisce la sua consapevolezza. Al diritto è legittimo chiedere un’assenza, ma non di abdicare al suo ruolo di garanzia di libertà e diritti – dunque pure del diritto d’amore. Si tratta di rimuovere ostacoli, come dice con bella lingua l’articolo 3 della Costituzione, per rendere concretamente possibile, in ogni momento della vita, l’eguaglianza. Non solo ostacoli di fatto, radicati nel costume o nell’economia, ma ostacoli essi stessi giuridici. La legittimità della presenza del diritto discende così anche dalla sua capacità di negare sé stesso.

«Omnia vincit amor», si usa ripetere. Ma non facciamoci troppe illusioni, e non pensiamo che il libro che compare ai piedi del giovane ritratto da Caravaggio in sembianze d’amore, nel dipinto che ha proprio quel titolo, sia un libro di diritto.
Quando a Martha Nussbaum fu chiesto se avesse intenzione di risposarsi, rispose così: «Se pensassi di sposarmi, sarei preoccupata del fatto che godrei di un privilegio negato alle coppie dello stesso sesso». Anche una delle più intime tra le decisioni, dunque, non può separarci dagli altri, chiuderci in una dimensione tutta autoreferenziale, negare il legame sociale e precipitarci nell’egoismo. Ora la situazione negli Stati Uniti è mutata, grazie alla sentenza della Corte Suprema che ha riconosciuto il diritto di accedere al matrimonio anche alle coppie di persone dello stesso sesso, rimuovendo appunto un ostacolo che impediva loro di poter decidere sulla loro vita avendo le stesse opportunità delle coppie eterosessuali. L’esclusione giuridica ha ceduto di fronte ad una esigenza di normalità che, portatrice com’è di eguaglianza, questa volta è benvenuta. Ma le parole di Martha Nussbaum rimangono come un monito.

L’associazione forte tra amore e diritti fondamentali delle persone è legata ad una vicenda culturale che anche nell’amore trova un suo punto d’avvio, una miccia. «Può essere del tutto casuale che i tre più grandi romanzi ‘psicologici’ del Settecento – Pamela (1740) e Clarissa (1747-48) di Richardson e Giulia (1761) di Rousseau – siano stati pubblicati tutti nel periodo immediatamente precedente la comparsa del concetto di ‘diritti dell’uomo’? (...) L’apogeo di un genere letterario specifico – il romanzo epistolare – coincide cronologicamente con la nascita dei diritti umani». Il massimo del successo e della diffusione di quei romanzi si ebbe infatti tra gli anni Sessanta e Ottanta del Settecento.

L’intensità emotiva di una vita ordinaria, narrata da quei romanzi, avvicinava tra loro le persone, mostrava la possibilità di «creare autonomamente un mondo morale. I diritti umani nacquero sul terreno seminato con questi sentimenti. I diritti umani riuscirono a fiorire soltanto quando gli individui impararono a pensare agli altri come a loro pari, fondamentalmente uguali a loro. Impararono questa eguaglianza, almeno in parte, attraverso l’esperienza dell’identificazione con personaggi comuni». Il percorso è chiaro. «Leggendo, l’immedesimazione nei personaggi oltrepassava i limiti sociali tradizionali tra nobili e comuni cittadini, tra padroni e servi, tra uomini e donne, forse persino tra adulti e bambini».

Questa forza dirompente spinge verso la rottura di una continuità, apre la strada al riconoscimento dei diritti, contribuisce ad una nuova fondazione della società su libertà ed eguaglianza. Ma l’amore, si vedrà meglio più avanti, non sarà davvero remunerato, e non lo sarà soprattutto per le donne, che danno il titolo a tre romanzi scritti da uomini, dove compaiono in particolare i travagli e i drammi del loro amore. Quello, tuttavia, si presentava come lo spirito del tempo, tanto che si definì il Settecento come «il secolo dell’amore» (del “libertinage” secondo alcuni, soprattutto in quella prima metà del secolo illustrata dalla pittura di Jean-Honoré Fragonard), suscitando pure molte inquietudini morali e sociali, che spingevano verso critiche e istruzioni per un ritorno all’ordine.

Qual è oggi lo spirito del tempo? Da quella lontana vicenda viene, netta, l’indicazione della necessità di cercare in tutte le possibili direzioni la risposta a questo interrogativo, per cercar di comprendere pure come si muovano, e in che direzioni e con quale intensità, il sistema delle leggi e il sistema della reale vita familiare.

(10 febbraio 2016)

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