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Il
corpo di ragazza, seminudo e maculato di sangue, sta su un impiantito di
mattoncini. Già rigido, la vita è volata via, oltre le macchie rosse che
s’intravvedono su un fianco, sul petto. Via dall’enorme grumo rappreso di lato.
La foto è stata lanciata su un social network. Le due mimetiche turche, di poliziotto e
militare, che osservano il cadavere potrebbero essere indossate da chi è giunto
dopo, a “lavoro compiuto”. Oppure firmano direttamente il misfatto. Kurdi di
Cizre che finiscono i loro giorni così ce n’è molti, fra l’indifferenza dei
potenti della terra. Certo altrove, non distante, negli stati liquefatti di
Siria e Iraq, si sparisce in egual modo con un’imposizione della morte
diventata incubo giornaliero. Ma questo non sminuisce i crimini che il
militarismo di Ankara ha ripreso a diffondere con meticolosa, spietata
pianificazione. Uccisioni efferate di persone catturate e seviziate, istillando
sofferenza e godendo sadicamente della stessa, come fanno i peggiori aguzzini
della storia. E’ l’infamia che sempre più la ‘geopolitica del cinismo’ mette in
mostra in molti scenari. Questo è il sud-est turco, ma non è l’unico. Anzi. Si
dirà che nei secoli quella che ora definiamo geopolitica, e un tempo era espansionismo,
conquista imperiale, invasione, colonizzazione e cento altri termini dell’incontro-scontro
fra popoli nei territori più vari, s’è sempre macchiata di nefandezze.
Egualmente non giustifica l’attuale necrostoria che ogni premier rifugge con la
litanìa di quel “mai più” e che invece prosegue.
A
Cizre si muore in cantine assediate, dopo che le pareti di case triturate dall’artiglieria
crollano e non si sa più dove nascondersi. Tu non sei un guerrigliero, sei un
kurdo: uomo, donna, ragazzo, vecchio; sei un testimone di te stesso, dell’etnìa
che lega famiglie, generazioni a una storia millenaria, vissuta in quei luoghi
dove vengono a toglierti la vita. La tua lotta è ideale, e da mesi è rivolta
alla sopravvivenza verso chi la insidia con le armi. Addirittura armi chimiche,
come in guerra, perché lo stato turco sta praticando una guerra contro civili
definiti terroristi. Visto che i muri crivellati di proiettili vengono giù, ti
rifugi in cantina, sperando che l’onda di fuoco s’attenui. Magari scompaia.
Invece l’incubo resta. Chi ti bracca aspetta e ti tiene a tiro. Mira a
prenderti per sete, vuol farti soffrire e poi ghermirti. Oppure ti dà la
caccia, viene a prenderti sottoterra per metterti lui sottoterra. Il
copresidente del partito filo kurdo Hdp Selahattin Demirtaş usa il termine
genocidio per definire l’azione repressiva attuata dal governo turco nelle
province sud orientali del Paese, poste da settimane sotto assedio e scenario
di terribili violenze contro i civili. Un concetto respinto da chi identifica
il genocidio solo coi grandi numeri. Di fatto gli stermini pianificati non
hanno bisogno di annunci pubblicitari, avvengono spesso in silenzio, aiutati
dall’omertà di chi non vuol vedere.
Ciò che accade alle comunità di Cizre, Sur, Şırnak (e Urfa, Mardin e molte altre cittadine) è uno stillicidio sistematico, una pianificazione della morte con gli strumenti più vari. Attuata da chi, come il partito-regime dell’Akp, teorizza una nazione basata su un partito, un leader, una bandiera, un’etnìa alla maniera del peggior fascismo vecchio e nuovo. Da leader d’opposizione ovviamente Demirtaş fa politica e sostiene come tale disegno distruttivo può essere fermato solo da un blocco alternativo, come quello creato dal suo schieramento, che segua la via pacifica della conciliazione delle genti dell’attuale Turchia, aperta alla collaborazione e a una reale democrazia per l’eguaglianza e la giustizia. L’esatto contrario del percorso intrapreso negli ultimi due anni da Erdoğan e Davutoğlu che usano la confessione islamica per introdurre pratiche militariste e fasciste. Combattono per interposta guerriglia in Siria, e non disdegnano l’eventuale intervento diretto, ma soprattutto sfruttano il caos attaccando i kurdi fuori e dentro i confini nazionali. Una linea della guerra esterna e del massacro interno, condito col terrore e la paura. Se l’establishment non recede lo facciano almeno quei turchi, in divisa e abiti civili che hanno una coscienza. Rifiutandosi d’uccidere, aprendo gli occhi alla tragica realtà, questo è il messaggio lanciato da Demirtaş per fermare l’orrore.
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