dinamopress Giansandro Merli, Rossella Marchini
Un quartiere di periferia, trasformato in dormitorio. La spina, complesso edilizio fantasma. Il centro sociale, punto di aggregazione ed esempio di mutualismo. A Spinaceto la differenza tra pubblico e comune si può fotografare.
È successo una mattina di inizio novembre dello scorso anno. Al centro sociale Auro e Marco hanno ricevuto la letterina. Ci sarebbe da ridere, se di mezzo non ci fossero le vite di chi, a fatica, è riuscito a costruirsi qualcosa: il Comune di Roma chiede ai ragazzi e alle ragazze del centro sociale più di sei milioni di euro. Siamo nel quartiere di Spinaceto, dove forse la differenza tra autogestione e bando pubblico non ha bisogno di una spiegazione.Basta una fotografia. Che però vi mostreremo più avanti.
Prima è utile raccontare la nascita del quartiere. La zona meridionale dell’agro romano, alla fine degli anni cinquanta, appare ancora intatta dal punto di vista naturalistico ed è ricca di reperti archeologici. La tenuta di Spinaceto e quella adiacente di Decima, bonificate nei primi anni del ‘900, sono interessate nel dopoguerra dai Piani di espansione urbana riguardanti l’edilizia economica e popolare. Questi integrano gli insediamenti sorti abusivamente nella limitrofa Tor de Cenci, dove famiglie di edili venuti a lavorare nella capitale durante il boom edilizio hanno dato vita ad una borgata, che prende il nome dall’omonima Torre dei Cenci.
È qui, dopo il Grande raccordo anulare, che nel 1965, su terreni di proprietà comunale, viene realizzato il quartiere di Spinaceto. Si tratta di uno dei 70 piani di zona previsti dal Piano per l’Edilizia Economica e Popolare (PEEP), il primo realizzato a Roma in attuazione della Legge 167 del 1962, cioè la legge con cui in Italia si inizia a parlare di programmi di edilizia pubblica. Una norma che, purtroppo, non è quasi mai riuscita a trasformare l’abitare in elemento di rapporto tra Roma, in rapido sviluppo edilizio, e il paesaggio, rappresentato dal territorio che avrebbe occupato.
L’insediamento interessa una superficie di 190 ettari e costruzioni per due milioni e mezzo di metri cubi. Nelle intenzioni dei progettisti quel quartiere, pensato per circa 30 mila abitanti, avrebbe dovuto assumere la «funzione di struttura residenziale qualificante nei confronti del territorio e capace di recuperare in una nuova dimensione umana quei valori urbani e civili perduti in tanti casuali insediamenti periferici». Una scelta tutta dentro le ipotesi del Piano regolatore generale appena varato (1962-1965), che fa della grande dimensione edilizia la materia dell’abitare, pensando a Roma come città di 5 milioni di abitanti in cui la mobilità si vota alla religione dell’automobile, al trasporto privato.
Il disegno del quartiere si dovrebbe articolare lungo un doppio asse viario, che contiene al centro una spina di attrezzature pubbliche e private e ai lati gli edifici residenziali, interamente immersi nel verde del parco. La collocazione degli spazi residenziali e delle attrezzature dovrebbe garantire a tutte le residenze una partecipazione fisica alla vita della collettività. Percorsi pedonali sopraelevati, mai realizzati, dovrebbe collegare la spina dei servizi con le residenze e le zone verdi. A Spinaceto si dovrebbe sperimentare la nuova città fatta per pezzi separati all’interno di un disegno unitario. Questi pezzi, però, non riescono a fare territorio al loro intorno.
Fin qui la teoria. Nella pratica, fra il 1966 e il 1969 vengono costruiti gli alloggi. La realizzazione delle case sperimenta per la prima volta le nuove tecniche di prefabbricazione francese, ma, nonostante la rigidità del sistema, a Spinaceto le case non sono brutte. Anche se oggi, minate dall’assenza di manutenzione, è difficile accorgersene. Le opere di urbanizzazione, invece, arrivano con molto ritardo. La spina centrale (chiamata edificio omnibus) vede la luce solo nel 1985. Sarebbe dovuta essere il centro servizi del quartiere, con attività commerciali e attrezzature pubbliche. Ma resta vuota e diventa il luogo della marginalità.
All'inizio degli anni novanta, nel quartiere si incontrano biografie diverse. Il punto di coagulazione è il Comitato d'occupazione delle case Genghini, un nucleo di alloggi “liberato” da 270 famiglie. Vi partecipano occupanti, studenti medi e universitari, ex militanti dell’Autonomia Operaia, ragazzi del quartiere. Sono stanchi di dover percorrere decine di chilometri per raggiungere uno spazio sociale. Vivono ogni giorno i problemi di Spinaceto. Decidono di occupare! Il 28 marzo 1992 alcuni dei locali della spina, vengono sottratti all'abbandono. Prima le persone ci giravano attorno, evitando di attraversarli. I ragazzi, invece, ci entrano dentro e puliscono a fondo. Riempiono sacchi di siringhe usate.
Il problema dell'eroina è molto forte nel quartiere, in questo come in molti altri della città. Così la lotta allo spaccio è uno dei primi terreni di lavoro politico. Nei locali al piano superiore, nasce quasi subito un'unità di strada autogestita contro l'eroina: la chiamano Strade Unite. Le stanze che si trovano sotto il livello della strada, che sarebbero dovute diventare l'autorimessa del centro commerciale, vengono trasformate in una palestra popolare e in una birreria, dove fare sport, ascoltare musica e incontrarsi. Nasce un'oasi nel deserto di un quartiere abbandonato dalle istituzioni e trasformato in dormitorio.
I ragazzi decidono di chiamare il centro sociale Auro. Come Auro Bruni, ucciso dai fascisti meno di un anno prima nel rogo del Corto Circuito, storico centro sociale di Cinecittà, oggi anch’esso sotto sgombero. Pochi giorni dopo l'occupazione, però, un attivista del collettivo muore in un incidente stradale. Il nome cambia: accanto ad Auro arriva Marco. In un primo periodo, l'intervento politico si concentra soprattutto sul territorio. Il progetto si rivela un potente catalizzatore sociale, intorno a cui si aggregano le comitive dei muretti che puntellano i palazzoni. Poi lo sguardo si allarga e ci si dispone su un piano organizzativo metropolitano: Auro e Marco partecipa a esperienze di mutuo appoggio e organizzazione come il Coordinamento dei Centri Sociali e la Consulta dei Centri Sociali, animando le principali battaglie che portano queste esperienze alla ribalta durante tutti gli anni novanta. Tra di esse, c'è quella per la Delibera 26, strumento normativo scritto dalle lotte, che riconosce le esperienze di autogestione e garantisce alcune forme di riconoscimento. Nel 1993, Francesco Rutelli e Renato Nicolini, da aspiranti sindaci, devono andare proprio a Spinaceto a incontrare i centri sociali romani. Per farlo, devono scendere nella palestra popolare, al di sotto dell'asfalto, più giù del manto stradale.
La scelta di “mettersi in regola” è orientata dal desiderio di uscire dall'emergenza perenne, dalla stagione degli sgomberi, dalla possibilità di ragionare in un'ottica più ampia, di programmare le attività e i percorsi nel medio periodo. Si vuole fissare un punto e sancire in maniera definitiva il recupero dello spazio a fini sociali, politici e culturali. Le attività della palestra crescono. È aperta dal lunedì al venerdì e più di un centinaio di persone vi si allenano regolarmente. Il sabato, invece, si gioca con la Special, squadra di calcetto per disabili. I corsi hanno prezzi popolari, ma chi non può pagare non paga. I corsi, a volte, rappresentano una via d'uscita da pregressi complicati per i ragazzi inviati dagli assistenti sociali del comune. Nei locali dell'Unità di strada, invece, dopo un periodo in cui si attrezza un'erboristeria, viene organizzata un'aula studio autogestita. Negli ultimi due anni, il progetto cresce rapidamente. Oggi è più efficiente della maggior parte delle aule studio pubbliche: decine di ragazzi la attraversano in forma totalmente gratuita (dalla connessione internet ai caffè e tè), la autogestiscono e la tengono aperta tutti i giorni, dalle 9.30 del mattino a sera. In queste mura nasce anche una scuola popolare, un progetto di contrasto alla dispersione scolastica. Moltissimi bambini del quartiere usufruiscono gratuitamente di un sostegno allo studio: dall’assistenza individuale nello svolgimento dei compiti alla possibilità di partecipare ad un laboratorio di scrittura e lettura. E sono tante le professionalità a disposizione del progetto, compresa quella di una logopedista. Tanto che i presidi delle scuole medie di zona inviano regolarmente gli alunni a studiare nel centro sociale. Il famoso welfare dal basso.
Si diceva “fissare un punto”. Ma nella vita di chi lotta non ci sono mai certezze, solo momenti di equilibrio precario. E infatti, il 5 novembre 2015 il postino recapita ad Auro e Marco la letterina. Il vezzeggiativo è quantomai eufemistico. I 6 milioni di euro di arretrati derivano da un calcolo retroattivo a canone di mercato realizzato su una metratura – non si capisce perché – triplicata. Canone di mercato: cioè una serie di criteri e di numeri che parlano una lingua incomprensibile per chi ha messo tempo, soldi, energie e passioni in progetti senza scopo di lucro. Per chi si sveglia presto e va a dormire tardi, durante anni impegnati a costruire spazi e percorsi che eccedono la logica del profitto. Che non la riconoscono. Che la mettono in discussione e non la rispettano. Lo Stato, il Comune, il Municipio si sono fatti vivi dalle parti del centro sociale di Spinaceto soltanto per pretendere questo denaro.
Ritorniamo alla fotografia. La spina, al cui interno vivono le attività di Auro e Marco, si inserisce in un territorio punteggiato dai mostri prodotti dal pubblico. A poche centinaia di metri lo stadio del rugby: milioni di euro stanziati, con regolare bando pubblico, nell'ubriacatura Capitale per lo sport, dal Sei Nazioni ai mondiali di nuoto. Migliaia di metri cubi di cemento colati in mezzo a un parco e subito abbandonati al saccheggio. Ancora più vicino, un “punto verde qualità”: un'area con alberi circondata da una ringhiera, curata al minimo sindacale per delimitare lo spazio di profitto di un chiosco privato. A ridosso, una delle 100 “piazze di Rutelli” costruite senza un piano di manutenzione e quindi lasciate da subito all'incuria. Ma queste cose nella fotografia non entrano. La fotografia comprende a malapena la spina. Cioè lo scheletro di un corpo nato morto, al cui interno l'autogestione ha acceso delle luci di vita. In senso letterale. Nei corridoi del complesso edilizio, le luci le mettono e le cambiano i ragazzi e le ragazze del centro sociale. Non il municipio. Sono loro che puliscono i corridoi. Non il municipio. Che pure qui ha una sede.
Intorno agli spazi autogestiti solo macerie. Il teatro costruito con i soldi pubblici, messo a bando, poi abbandonato e imploso: macerie. Le sedi di associazioni di volontariato impossibilitate a pagare l'affitto imposto dal bando: macerie. L'urban center, spazio immaginato scimmiottando i centri sociali in un'ottica istituzional-berlinese, mai aperto e ora sigillato per evitare vandalismi: macerie. Nel complesso, a parte Auro e Marco, gli unici spazi pieni sono: una sede dell'Unione Inquilini, un'altra dell'anagrafe municipale, quella di un’associazione di volontariato, una sanitaria (occupata a scopo di lucro) e un bar.
Dov'è passato il bando non cresce più erba. È rimasto solo il cemento dei locali in disuso. Le lampadine fulminate. I vetri rotti o le costruzioni lasciate a metà. In questo vuoto cosmico il Comune di Roma è tornato a Spinaceto per infilare le dita negli unici spazi vivi. Per sgomberare Auro e Marco,rinchiudere nella gabbia dei debiti chi ha restituito lo spazio al quartiere. È tornato per seminare nuove macerie. Con regolare bando pubblico.
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