Il maxiemendamento del governo non fissa criteri oggettivi in base ai quali individuare le società da chiudere. E non recepisce le proposte che prevedevano il taglio degli stipendi per i dirigenti che al 31 dicembre 2015 non avranno portato a termine la razionalizzazione. Così il programma del commissario Cottarelli e le promesse di Renzi restano lettera morta.
Altro che “da 8mila a mille”. Il disboscamento delle società partecipate da enti locali e altri soggetti pubblici, già escluso all’ultimo minuto dal decreto Sblocca Italia con l’assicurazione che sarebbe entrato nella legge di Stabilità, dovrà aspettare ancora.Le promesse fatte da Matteo Renzi lo scorso aprile e ribadite in settembre vengono ancora una volta disattese. Così come resta sulla carta il dettagliato programma di razionalizzazione presentato il 7 agosto dall’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, che spiegava come l’universo delle partecipate costi alle casse pubbliche 1,2 miliardi di perdite l’anno senza contare quelle “non palesi, finanziate da contratti di servizio e trasferimenti in conto corrente e conto capitale”. E prefigurava, a regime, possibili risparmi per almeno 2 miliardi di euro (salvo sentirsi replicare che il governo avrebbe fatto da sé). Infatti nella versione finale della manovra, su cui il Senato ha espresso voto di fiducia nella notte tra il 19 e il 20 dicembre, le disposizioni per favorire le fusioni tra aziende di servizi pubblici locali e “incoraggiare” gli amministratori pubblici a chiudere quelle inutili sono a dir poco blande. Perché non fissano alcun criterio oggettivo per individuare le società da sopprimere e non prevedono alcuna penalità per i dirigenti inadempienti. Ovvero due pilastri fondamentali della strategia messa a punto da Cottarelli, secondo il quale era indispensabile chiudere le società senza dipendenti e quelle con fatturato inferiore a 100mila euro (“scatole vuote”, le definiva il suo piano) e introdurre “un sistema credibile di sanzioni sia sull’ente partecipante che sugli amministratori delle partecipate”. A poco vale, dunque, il fatto che il maxiemendamento del governo abbia aggiunto diverse indicazioni che non comparivano nel ddl varato dal consiglio dei ministri in ottobre, dai riferimenti alle partecipazioni di Camere di commercio, università e autorità portuali alla tempistica per la presentazione dei piani di razionalizzazione.
Partiamo da quello che c’è. Resta invariata, rispetto a quanto previsto nella prima stesura della manovra finanziaria, l’esclusione dal patto di Stabilità interno degli incassi derivanti dalla “dismissione totale o parziale, anche a seguito di quotazione, di partecipazioni in società”. Gli enti locali che cedono quote detenute in aziende di servizi pubblici, come le ex municipalizzate dell’elettricità, dell’acqua e del gas, potranno dunque spenderle liberamente per investimenti. Ma non si introduce alcun “premio” per gli enti che, invece che venderle, fondono o aggregano le proprie partecipate. Al contrario, il progetto del commissario alla revisione della spesa proponeva di introdurre incentivi finanziari anche per le aggregazioni. Le novità introdotte dal testo riformulato dall’esecutivo riguardano invece il calendario della razionalizzazione. Enti locali, Camere di commercio, università, istituti di istruzione universitaria pubblici e autorità portuali dovranno “avviare il processo” il prossimo 1 gennaio “in modo da conseguire la riduzione delle società e delle partecipazioni societarie possedute entro il 31 dicembre 2015”. Vengono poi elencati i “criteri” su cui basare la disamina: dalla “eliminazione delle società e delle partecipazioni societarie non indispensabili al perseguimento delle proprie finalità istituzionali” o “che svolgono attività analoghe o similari a quelle svolte da altre partecipate o da enti pubblici strumentali” alla “soppressione delle società che risultino composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti”, passando per la “riorganizzazione degli organi amministrativi e di controllo e delle strutture aziendali” e la “riduzione delle relative remunerazioni”.
Peccato che chi non rispetta queste linee guida non subirà alcuna penalizzazione: non sono passati, infatti, i correttivi previsti negli emendamenti presentati da Linda Lanzillotta (Scelta civica) e Federica Chiavaroli (Ncd): taglio del 20% dello stipendio lordo per i dirigenti degli enti titolari delle partecipazioni e azzeramento del compenso per gli amministratori delle società. Ed è stato stralciato anche l’obbligo di scioglimento o cessione delle aziende che non raggiungono i 100mila euro di ricavi (almeno 1.300, secondo il dossier Cottarelli) e di quelle con più amministratori che dipendenti (oltre 3mila).
Il comma successivo della Stabilità fissa nel 31 marzo 2015 il termine ultimo entro cui governatori, presidenti delle province, sindaci e organi di vertice delle amministrazioni a cui fanno capo società partecipate devono approvare un piano operativo con i dettagli su modalità e tempi di attuazione dello “sfoltimento” e risparmi previsti. Il documento verrà poi trasmesso alla sezione regionale della Corte dei conti e pubblicato sul sito dell’ente. Un anno dopo, il 31 marzo 2016, andrà presentata la relazione sui risultati conseguiti. Viste le premesse, però, è difficile sperare che per quella data la “giungla” – copyright Cottarelli – sia stata disboscata di molto.
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