mercoledì 24 dicembre 2014

Erri De Luca - 'Pasta' in "Napòlide".

"Un uomo in cucina si apparecchia la cena. È solo, mette ogni sera un coltello, una forchetta, un piatto, mosse soprappensiero. Quando prende il bicchiere si accorge di essere lui e basta. Il bicchiere accusa, non si solleverà verso nessuno.
L’uomo vive in poco spazio, c’è quello che gli occorre, il resto che potrà lasciare. È avviato negli anni e non ricorda quand’è che si stava in due.


erri de luca
È rientrato nei suoi metri quadrati, che quando beve gli sembrano tondi e profondi. Il vino corregge la geometria.
L’uomo non accende voci elettriche, radio e altre onde, sta coi suoi rumori. Il giorno fuori è spento, la luce di una lampada fa brillare il coltello con cui spezzetta l’aglio. Intanto ha poggiato una pentola sul fornello grande. Ci ha messo poca acqua, non è vero che la pasta deve cuocere in molta. Ha aggiunto una presa di sale. Taglia un pomodoro, del sedano, mette olio, prezzemolo, il rosso secco di un peperoncino, lascia crudo così.
Entrando in casa si è tolto le scarpe, è scalzo, una mossa da ragazzo che gli è rimasta amica. Il pavimento non è fresco di scopa, si laverà i piedi prima di ficcarsi a letto.
Va alla finestra, guarda fuori. La pioggia lo protegge dalla malinconia. Le gocce sul vetro scintillano come le pallucce di Natale. È Natale. Se lo ricorda adesso che ha incontrato la sua faccia opaca nel riflesso, coi coriandoli intorno di gocce illuminate.

L’acqua bolle, ci cala dentro il ciuffo di spaghetti, si spargono a corona intorno al bordo. Ha una marca preferita, una pasta di Napoli, Garofalo, ricordo di bambino, mandato a comprarla nel vicolo con le lire contate e ricontate. Era scomparsa, poi l’hanno rimessa in commercio, è bello quando tornano i pacchi dell’infanzia.
L’uomo si versa il vino, beve un piccolo sorso e se lo allarga in bocca. Il primo assaggio gli disserra gli occhi, che stavano a riposo dietro palpebre strette. Ora vede i colori del condimento crudo, la tovaglia che è blu, inghiotte il sorso che s’infila in petto anziché nello stomaco. Tossisce, anche stasera il primo vino è finito a sputo sopra il cuore. Ma sì, è malinconia, non respinge la mano che da sola sale agli occhi, lascia che li stropicci. Scottano e subito deve calmare le palpebre toccate con le dita del peperoncino. Gli capita ogni sera di irritare le palpebre, forzare due lacrime speziate.
Va al fornello, assaggia, «ancora un poco» dice. L’ha davvero detto, a bassa voce. A chi? Gli è scappato, uno scatto che viene per sentire una parola intorno. «Ancora un poco», la frase resta appesa nella stanza. Gli dà fastidio la stupida pretesa di una frase, di restarsene lì a durare, a far finta di contenere altro: ancora un poco. Ma di che? Basta. Non lo dice, lo fa, spegne il fuoco, solleva la pentola, scola, mischia gli spaghetti nella scodella con il condimento. E siede e gira il primo colpo di forchetta e mastica il boccone. È un po’ forte, al dente, ma è la cosa migliore del suo giorno, l’ora di remissione dei debiti al suo corpo.
Mastica piano, inghiotte, la faccia muove i muscoli di legno, le rughe si sgranchiscono, la lingua gira tra le gengive a rastrellare il resto da inghiottire. È la sua pace quella pasta scolata sopra il crudo. Tira su il bicchiere, lo vuota e adesso non ci bada che quel bicchiere è solo.
Se lo riempie, tocca il pane mettendoci su il palmo, come si fa con la mano di una moglie. Mastica la sua pasta, respira col naso, i piedi sotto il tavolo stanno incrociati e quieti.
Non il vino, la pasta scrolla via le mancanze di quell’ora al giorno in cui l’uomo si basta. Non se ne sazia, perché di pasta se ne deve desiderare ancora un poco quando il piatto è vuoto. Ancora un poco: alla tavola d’infanzia non ce n’era. A fine pasta si ringraziava il cibo. Ricorda le ultime parole: «perché abbiamo mangiato da lui». Lui era il vivandiere universale. Perché non ce ne dava un po’ in più? Gli ospiti non fanno queste domande, non è educazione.
Spinge la crosta del pane sul fondo di scodella, finisce il vino. Si alza, è Natale, toglie dal chiodo la chitarra e canta. Adesso sì la voce non si deve scusare di uscire solitaria, rivolta a nessuno. Col fiato bruciato dall’aglio il canto si sparge per la stanza, smussa angoli, spigoli, arrotonda la fine di un giorno di un uomo."

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