sabato 27 dicembre 2014

Lavoro salariato, una questione sociale ieri e oggi.

Guido Baglioni è uno dei maggiori studiosi del lavoro e delle relazioni industriali in Italia. Dopo avere speso la vita e la carriera accademica a occuparsi di questi temi, dedica il suo appassionato “canto del cigno” (come egli stesso lo intende) – ( Un racconto del lavoro salariato , Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 252, euro 21,00 – a narrare, dalla prospettiva ed esperienza di un sociologo cattolico, la storia del lavoro salariato dal secondo dopoguerra ad oggi.
 
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Il volume è un “racconto”, appunto, costruito attingendo anche ai ricordi personali, e riflette la curiosità ma anche l’apprensione con cui Baglioni s’interroga sul futuro del lavoro salariato, in una fase in cui non rappresenta più una questione centrale e tuttavia non può essere ancora del tutto accantonato. In particolare, come precisa all’inizio del libro, “si insiste soprattutto sui significati socio-culturali del lavoro salariato”, a cominciare dalle basi ideologiche che ne hanno sostenuto il percorso e segnato il destino. Il contesto di riferimento è soprattutto quello nazionale, ma è la realtà del Nord Italia che fa da sfondo alle riflessioni e ai ricordi, legati al mondo dell’industria e del lavoro agricolo, alle tradizioni produttive, ai mestieri e alle attività di sussistenza, alle condizioni di vita in quella parte del paese dai lontani anni ’50.
Il primo riferimento teorico è la dottrina sociale della Chiesa, di cui vengono ripercorsi i passaggi fondamentali, segnati “dalla continuità di ispirazione, come si trattasse di una collana seppur con perle non tutte uguali”. Le perle sono le encicliche di cui l’autore richiama i princìpi, dalla Rerum Novarum di Leone XIII, del 1891, alla Caritas in Veritate di Benedetto XVI, del 2009. Sette encicliche in sette pagine e quasi centoventi anni di storia attraverso cui si sviluppa la dottrina sociale della Chiesa e si trasforma il lavoro: dal lavoro operaio come condizione penosa e misera, che merita cura e assistenza dallo Stato, via via fino al lavoro che assume i tratti del rapporto cui si associano “obblighi di giustizia”, che consentano di innalzare le condizioni materiali di vita, ma anche di ridurre le ragioni del conflitto tra lavoratori e imprese, a cominciare dal ricorso allo sciopero (“moralmente legittimo quando appare come lo strumento inevitabile, o quanto meno necessario, in vista di un vantaggio proporzionato”: il Catechismo della Chiesa Cattolica , 1986). Desta un po’ di sorpresa che non sia citata l’enciclica interamente dedicata ai lavoratori – Laborem Excersens – in cui nel 1981 Giovanni Paolo II affermava “il principio della priorità del ‘lavoro’ nei confronti del ‘capitale’”, in quanto “chiave essenziale di tutta la questione sociale”.

Il libro è attraversato da una preoccupazione insistente: scongiurare l’antagonismo di ispirazione marxista sia nell’analisi del lavoro che nell’azione sindacale, e affermare la solidità dell’approccio negoziale, pluralista, delle “soluzioni pragmatiche e praticabili, diverse dall’approccio antagonistico”, che secondo Baglioni anche le scienze sociali prediligono – “Le scienze sociali (…) sconsigliano normalmente risposte antagonistiche” –. L’autore torna ripetutamente sulla netta distinzione tra “coloro che aspirano al miglioramento graduale della condizione dei lavoratori attraverso gli strumenti della contrattazione collettiva e della legge, senza mettere in discussione i fondamenti dell’economia capitalistica; e coloro che invece puntano alla modificazione di tali condizioni con l’utilizzo degli stessi strumenti e, insieme, con obiettivi che contemplano il superamento dell’economia capitalistica e, a volte, dello stesso assetto istituzionale della società”.

Le distanze tra le due posizioni vengono accentuate ben oltre la loro dimensione effettiva, omettendo che la concertazione e “il metodo geniale e duttile della contrattazione collettiva” sono ormai da tempo una pratica generalizzata dell’azione sindacale, con differenze marginali tra le grandi confederazioni, Cgil e Cisl. Del resto, l’obiettivo del riscatto della classe operaia è stato abbandonato da tempo, perfino prima che si decretasse la fine della classe operaia, e la cultura antagonista è diventata “più circoscritta e astratta”; ma riflettendo su alcuni fenomeni evidenzia del periodo recente, come il “ripiegamento del lavoro rispetto alle imprese e al capitale”, le difficoltà dell’azione sindacale, la riduzione tendenziale della tutela, viene da dolersi di questo abbandono precoce più che esserne rassicurati.

Il libro racconta con ricchezza di dettagli e di riferimenti le trasformazioni del lavoro attraverso due fasi distinte e concluse (la prima va dal dopoguerra agli anni ’80, la seconda dagli anni ’90 al 2007-2008), cui si aggiunge una fase ancora in corso, che coincide con la crisi che attraversiamo. Il racconto del lavoro salariato diventa il racconto del profondo cambiamento del lavoro, di cui Baglioni descrive ogni aspetto, che nel corso di sessant’anni perde progressivamente, con alcune accelerazioni, i tratti originari: si assottiglia in termini di tempo, si contrae in termini di spazio, si alleggerisce in termini di tutele e sicurezze, si sfuma in termini di contenuto professionale, perde identità. Il lavoro salariato non è più al centro della questione sociale: ora l’attenzione “è volta ai lavori irregolari, sottopagati, disagevoli”.

Eppure la condizione di precarietà di un numero elevato e crescente di persone dovrebbe suscitare maggiore interesse ed entrare a pieno titolo tra le questioni che sono diventate più rilevanti: la povertà diffusa, la disoccupazione di massa, l’immigrazione e l’emigrazione (che non sono un semplice fenomeno di mobilità territoriale), l’invecchiamento della popolazione, la salute e l’assistenza legate soprattutto all’aumento delle aspettative di vita. La risposta a tutte le questioni indicate sembra essere il welfare, che è perennemente sotto accusa per i livelli raggiunti dal debito pubblico e per le pressioni politiche a ridurre l’intervento dello Stato; ma alla base del welfare c’è il lavoro – che in Italia è largamente insufficiente – soprattutto il lavoro dipendente e stabile – proprio quello che si vuole cancellare – e una ripresa economica che ancora non si vede. 

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