La Community Supported Agriculture nasce in Giappone e si sviluppa negli Stati Uniti. È un modo di fare agricoltura insieme che propone la condivisione del rischio tra produttore e consumatore. Da qualche anno sono nate esperienze anche in Italia. A Roma si chiama Semi di Comunità e in un solo anno ha già coinvolto più di centocinquanta persone. Non è solo una nuova esperienza di agricoltura biologica ma un progetto per rimettere al centro il principio che il cibo non è una merce, la partecipazione e la convivialità legata alla terra. Per il raccolto 2020 si cercano altri soci.
Si chiama Semi di Comunità
ed è il primo progetto di Community Supported Agriculture (CSA) di
Roma, ma anche il più a sud del nostro paese.
Non è un gruppo di
acquisto solidale né un’azienda di agricoltura biologica. Nasce un anno
fa dalle idee e dalla visione di un piccolo gruppo pioniere e già vanta
155 soci.
Alle porte di Roma, nel parco di Veio, su un terreno in
affitto di tre ettari lavorano tutti i giorni Riccardo e Saverio,
impegnati in questi giorni in un intenso tour di presentazione del
progetto in diversi spazi sociali della città. Raramente sono soli.
Perché si tratta di una comunità, costituita in cooperativa, che fa
vivere un progetto di autoproduzione del cibo a chilometro zero.
Un cibo sano e di qualità, sul quale non si genera nessun profitto e che paga il giusto prezzo a chi lavora.
I
soci lavoratori sono la parte tecnico-agricola, ma le decisioni sulla
programmazione delle colture, sul piano economico e su tutte le attività
di gestione vengono prese collettivamente nell’assemblea e nei gruppi
di lavoro.
La CSA è un modello mutualistico di produzione,
distribuzione e consumo che consente al produttore e il consumatore di
condividere il rischio prefinanziando il raccolto. I soci acquistano una
quota del raccolto prima delle semine e in cambio ne ricevono ogni
settimana una parte proporzionale. Nel caso del progetto “Semi di Comunità” i produttori sono gli stessi soci della cooperativa che con questo meccanismo può disporre delle risorse necessarie per pianificare al meglio la semina ed eventuali investimenti in attrezzi, macchinari e infrastrutture. Il piano economico comprende solo i costi vivi, incluso il lavoro, ma non è previsto profitto per nessuno.
Il modello di agricoltura sostenuta dalla comunità nasce in Giappone a cavallo tra gli anni sessanta e settanta ma è negli Stati Uniti una decina di anni dopo che diventa popolare contribuendo a salvare anche aziende agricole di piccole dimensioni messe in crisi dal modello dell’agroindustria e dal sistema dei sussidi.
In Italia la CSA sbarca sei anni fa a Bologna con il progetto Arvaia e oggi conta una ventina di esperienze a livello nazionale. Arvaia ha dato un contribuito fondamentale all’avvio del progetto Semi di Comunità, che non vuole solo garantire cibo sano ai propri soci ma propone un progetto politico collettivo che si oppone ai meccanismi della grande distribuzione. Un progetto che rimette al centro della produzione agricola il principio secondo il quale il cibo non è una merce ma anche la partecipazione e la convivialità legata alla terra.
Il 2 febbraio, in vista della preparazione delle semine estive si chiuderà la raccolta delle quote 2020 con una vera e propria asta per generare un meccanismo di compensazione tra chi ha diverse possibilità economiche ed abbattere eventuali barriere alla partecipazione.
Quest’anno si punta a centossessanta soci fruitori ma chiunque può partecipare al progetto come socio semplice con una quota di cento euro, un piccolo contributo per una grande idea resa possibile dall’impegno e l’entusiasmo dei sui promotori.
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