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(pressreader.com)
– di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano – L’altra sera, facendo
zapping, mi imbatto nel programma di Barbara Palombelli su Rete4. Tanto
per cambiare c’è l’Innominato (scusate se lo chiamo così, ma appena lo
nomino mi fa causa, ritenendo comprensibilmente offensivi il suo nome e
soprattutto il suo cognome) che, con l’aria solenne di chi sta svelando
il terzo segreto di Fatima, annuncia: “Nel piano choc c’è anche la
Pontina”. Buono a sapersi, mi appunto subito la preziosa informazione
per non scordarmela. E immagino il sollievo che cotanto annuncio deve
aver suscitato nel Lombardo-Veneto terrorizzato dal coronavirus. Dal
Padovano a Codogno e Casalpusterlengo è tutto un passaparola: abbiamo
una fifa boia, però l’Innominato ha un piano choc autostradale, il che è
già incoraggiante, e per giunta contempla pure la Pontina, quindi siamo
a cavallo. Mentre prendo buona nota, un amico mi informa che il tizio
ha appena ricordato che il su babbo ha già vinto due cause civili contro
di me (una perché ipotizzai un conflitto d’interessi del padre del
premier che s’interessa di appalti Consip; l’altra perché definii
bancarotta il fallimento di una società del medesimo genitore, ora
imputato per tre bancarotte fraudolente); e ha svelato di averne
presentate altre due in un colpo solo (la n. 14 e la n. 15 in due mesi,
stracciando il record precedentemente detenuto da B., Dell’Utri e
Previti, però tutt’e tre insieme) per le mie ultime critiche. Che lui,
bontà sua, stima in 100 mila euro di danni.
La tecnica delle denunce a strascico serve a intimidire chi si lascia
intimidire (quindi non me) e a moltiplicare le possibilità di
imbattersi negli stessi giudici che diedero ragione al babbo che aveva
torto. Ma è anche un’arma a doppio taglio. Lo sa bene l’altro Matteo,
che mi denunciò (ma penalmente: è più sportivo) per “cazzaro verde” e il
giudice sentenziò la liceità dell’epiteto per la sua straordinaria
aderenza al soggetto in questione. Così ora tutti possono chiamarlo
Cazzaro Verde quando vogliono, prima e dopo i pasti. Figurarsi se ora un
altro giudice stabilisse che è lecito chiamare l’Innominato “mitomane” o
“caso umano”. Milioni di persone che non aspettano altro potrebbero
approfittarne per sfogarsi un po’. Ma c’è pure il caso di essere
condannati da un giudice poco avvezzo all’articolo 21 della
Costituzione, convinto che la libertà di parola sia concessa per
elogiare i potenti anziché per criticarli, dunque portato a confondere i
giornalisti con i cortigiani (e con qualche ragione, visto com’è
ridotta la prima categoria). In attesa di apprendere fra una dozzina
d’anni quale critica sia lecita e quale no, meglio andarci coi piedi di
piombo.
Chiamarlo l’Innominato mi sa che non basta, anche perché basta
aggiungere “mitomane” e/o “caso umano” e quello si riconosce subito.
Dunque, quando la Gruber o Floris mi chiederanno di lui, ne dirò solo
bene. Altro che mitomane o caso umano (se lo fosse, del resto, il prof.
Recalcati che lo ha in cura l’avrebbe segnalato su Repubblica). Egli è
anzitutto un bell’uomo: avvenente, magnetico, snello, slanciato e
atletico, manderebbe in crisi anche l’eterosessuale più impenitente. Un
apollo. E poi è un grande politico, lungimirante, competente, umile e
soprattutto coerente. Uno statista che, come al Riformista, mi ricorda
istintivamente De Gaulle. Ma anche, se non fosse per quell’inglese
ancora lievemente perfettibile, Churchill. Il suo primo e purtroppo
unico governo è già nella Storia per i grandi ministri (cito solo
Alfano, Madia, Boschi, Guidi, Pinotti, Lupi, Martina, Orlando, Galletti,
Poletti, Giannini e Lorenzin) e i balsamici effetti sulla Nazione
tutta, che purtroppo – ingrata – non li colse né ricambiò. La sua
riforma costituzionale, a sei mani con Boschi e Verdini, fu un gioiello
di scienza e sapienza, sventuratamente incompresa dal popolo bue
subornato da soloni, gufi e professoroni. La sua Rai monocolore fu un
modello di pluralismo, diretta da geni come Campo Dall’Orto e Moiro
Orfeo, grazie all’allontanamento di Gabanelli, Giannini e Giletti, noti
nemici della libertà. Ma non bastò a bilanciare l’ostilità preconcetta
della grande stampa che lo diffamava ogni giorno con le
interviste-imboscata di Maria Teresa Meli e i commenti urticanti dei
Merlo, dei Messina e dei Riotta.
Lui intanto salvava Alitalia, Ilva, Montepaschi, Etruria, giù giù
fino all’Unità: ma nessuno gliene rendeva merito, con la banale scusa
che le aziende salvate peggioravano o chiudevano. De Benedetti, anziché
ringraziarlo per la soffiata sul decreto Banche popolari che gli aveva
fruttato 600 mila euro sull’unghia, osò definirlo “un cazzone che non
capisce niente di economia” (senza beccarsi non dico 15 denunce, ma
nemmeno una). L’italica ingratitudine tocco l’acme nel 2018 quando il
suo Pd toccò il minimo storico, doppiato dagli zotici grillini e dai
barbari leghisti. Lui li chiamava “governo di cialtroni”, perché se c’è
una cosa che non tollera sono gli insulti, a parte quando accostò Paola
Muraro, assessora della Raggi, a Mafia Capitale. E neppure le minacce,
salvo quando promise “il lanciafiamme” ai suoi critici nel Pd (il che,
se posso permettermi, indebolisce un filino le sue denunce). Grazie a
Lui, abbiamo una classe dirigente nuova, brillante, geniale: da Lotti a
Boschi, da Marattin a Bonifazi, da Cerno a Scalfarotto, senza
dimenticare Teresa Bellanova, una via di mezzo fra Indira Gandhi, Golda
Meir e la Thatcher, orgoglio e vanto di Italia Viva, il nuovo partito
che tutti sognavamo. Qualcuno fa sterili polemiche sulle conferenze
all’estero, ma l’unica fondata è che si fa pagare poco: per 40-50 mila
euro, sono regalate. Stiamo parlando dell’autore del docufilm Firenze
secondo me, escluso dalle nomination all’Oscar per pura invidia. Ecco:
se riesco a dire tutto questo restando serio, è fatta.
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