Hanno partecipato esperti tra cui Stiglitz e Georgieva, persino il papa. La stampa italiana era distratta.
sbilanciamoci.info Rachele Gonnelli
Due importanti conferenze sull’economia della transizione e su come impostare un diverso modello di sviluppo, di livello internazionale, si sono svolti a Roma nella prima settimana di febbraio; la stampa nazionale non ha dato pressoché notizia.
Il 5 febbraio in una splendida palazzina cinquecentesca a ridosso della Basilica di San Pietro, la Casina Pio IV o Casa delle scienze della Città del Vaticano, la Pontificia accademia delle scienze sociali ha chiamato a convegno, per una discussione che è durata l’intera giornata, bei nomi degli studi economici e protagonisti istituzionali di primo piano (il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz e la nuova direttrice del Fondo monetario internazionale Kristalina Georgieva, nominata lo scorso ottobre, ma anche ministri come l’argentino Martin Guzman, il paraguaiano Benigno Lopez, la salvadoregna Maria Luisa Hayem, il francese Bruno Le Maire, la spagnola Nadia Calvino, il messicano Arturo Herrera, il presidente della Banca europea degli investimenti Werner Hoyer e il presidente del Banco centroamericano de intergracion economica Date Mossi e altri) sul tema “Nuove forme di solidarietà”.
E già nel sottotitolo della conferenza – “inclusione, integrazione, innovazione” – c’era un evidente riferimento agli obiettivi dell’agenda delle Nazioni Unite per i prossimi dieci anni. (l’evento è interamente visibile su YouTube https://youtu.be/mNoraYBzbtE)
L’altro appuntamento, che si è svolto alla Farnesina solo due giorni più tardi, era la presentazione del rapporto dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (AsVis), rete di associazioni, imprese, ong, università, rappresentare delle organizzazioni internazionali in Italia ed enti territoriali per promuovere politiche economiche, sociali e ambientali coerenti con il raggiungimento dei 17 “goals” o obiettivi fissati dalle Nazioni Unite per il 2030, in grado cioè di far fronte al cambiamento climatico con politiche che contengano le emissioni inquinanti e aiutino le popolazioni a resistere agli sconvolgimenti ambientali e agli altri disequilibri del mondo che minano la pace e il benessere, tra cui le migrazioni.
L’AsVis (qui il report sulla legge di bilancio https://asvis.it/presentazione-analisi-legge-di-bilancio/), -nata quattro anni fa su impulso dello statistico Enrico Giovannini, che oggi ne è portavoce, e dall’università di Tor Vergata a Roma – con la collaborazione di oltre 600 esperti ha messo a punto indicatori specifici per monitorare lo stato di avanzamento delle politiche italiane ed europee per l’avvicinamento ai target 2030.
“Solo dieci anni di tempo per salvare il mondo, non il pianeta che continuerà forse anche meglio di così, ma l’uomo, l’umanità”, ha detto Giovannini nel suo intervento iniziale per spiegare il senso del condensato di obiettivi, riconosciuti come esiziali a livello internazionale, nel cronoprogramma messo a punto dall’Onu.
I due eventi non hanno fatto che parlarsi, anche senza espliciti rimandi l’uno all’altro.
In entrambi la parola che è risuonata più spesso è stata “diseguaglianze”, con la specificazione – sottolineata da Alicia Barcena Ibarra in Vaticano, segretaria della Cepal, organizzazione economica dei paesi dell’America latina e Caribe legata all’Onu – che quando si parla di diseguaglianze non si parla di povertà, ma ad esempio dei movimenti di studenti che in Cile rivendicano, anche attraverso azioni di disobbedienza civile, un più ampio e gratuito accesso a servizi essenziali che vengono loro sempre più negati, dalla sanità a una formazione di qualità, a servizi di trasporto locali.
Un’altra parola che è risuonata in entrambi gli eventi è stata “bene comune”, un obiettivo che secondo Stiglitz è andato disperso dopo quarant’anni di ricette neoliberiste che hanno mandato in crisi “il capitalismo”.
Quindi è di tentativi di riforma del sistema, che non sembra più in grado di assicurare anche solo la speranza di un progresso sociale e di benessere, che si è parlato in ambedue le assise.
Esiste un enorme problema macroeconomico, è stato riconosciuto da più oratori, tra cui Jeffrey Sachs, della Columbia.
Un enorme deficit di capacità della politica di affermare un’agenda diversa da quella ormai fallita dell’austerity e del neoliberismo che sta portando l’umanità alla distruzione di risorse essenziali, libertà, diritti e speranze di miglioramento.
I due convegni hanno avuto anche espliciti riconoscimenti reciproci del medesimo cammino.
Riferimenti all’enciclica “Laudato Sì” da parte di Giovannini, dal presidente AsVis Pierluigi Stefanini e da altri alla Farnesina, riferimenti continui agli impegni per il Millennio delle Nazioni Unite in Vaticano, oltre che al primo testo economico della Dottrina della Fede: “Oeconomicae et pecuniaria quaestiones”, che toglie dal campo qualsiasi possibilità di doppia morale per l’imprenditore, il banchiere, il politico cattolico.
Nella Casa della scienza della Santa Sede, Jorge Bergolio, a sorpresa, si è appalesato nel pomeriggio, pronunciando un accorato discorso a braccio, in spagnolo, a proposito soprattutto della necessità di garantire uno sviluppo sostenibile anche consentendo la ristrutturazione del debito dei paesi più poveri – evidente il riferimento alla sua Argentina e gli sforzi dello stesso pontefice per evitare un altro disastroso default a causa del prestito più oneroso della storia del Fondo monetario internazionale contratto dal governo neoliberista di Macri e lasciato in eredità al nuovo corso kirchnerista.
Nessuno ha usato la parola “populismo” né qui né là, Oltretevere, neanche quando sono state incidentalmente evocate le speranze tradite da Peron negli anni Trenta dell’altro secolo. Ed è sembrata prevalere una analisi, implicita negli interventi, che vede casomai il popilusimo come un epifenomeno del più vasto problema di scollamento della democrazia e di cronicizzazione delle enormi diseguaglianze.
Di tutto ciò la stampa italiana non si è interessata, evidentemente convinta che questi argomenti siano scarsamente interessanti per i politici di riferimento, meno degli starnuti dell’ex ministro dell’Interno.
O delle psicosi alimentate dalla cattiva informazione sul coronavirus, cioè di una infezione che, in effetti, riguarda le diseguaglianze, l’accesso a servizi essenziali, la dissipazione delle risorse attraverso la guerra e la nuova guerra fredda tra Pechino e Washington.
Senza che parlare della paura del coronavirus possa però aiutarci a uscire da questo gorgo distruttivo.
Non sembra così incomprensibile che la scelta di privilegiare solo notizie che creino ansia, paura, senso di ineluttabilità, comporti poi l’abbandono di tanti lettori: da sei milioni i lettori di giornali sono passati, in meno di dieci anni, a quasi due.
Le testate mainstream – ma anche quelle che si dichiarano controcorrente – sembrano affette dallo stesso morbo che colpisce la politica: l’incapacità ad abbandonare il quarantennale palinsesto neoliberista, fatto di valutazioni che derivano dalle analisi delle agenzie rating, piuttosto che dall’attenzione a cosa succede alle persone fisiche e ai loro contesti.
Giornali e telegiornali risultano sordi alla scienza, ai richiami che vengono dalle Nazioni Unite o dal papa, come se questi fossero discorsi marginali, da riservare al secondo sfoglio, insieme alle cure per l’invecchiamento della pelle e al vegetarianismo.
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