Dopo la sbornia liberista e i relativi disastri crescono le spinte alla ripubblicizzazione. Ma, per potersi orientare nelle lotte politiche, è indispensabile capire le insidie della nuova fase che potrebbe aprirsi.
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di Federico Giusti 04/01/2020 Economia e Lavoro
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Abbiamo salutato il 2019 che ci ha portato poche
novità: storie di ordinaria repressione nei confronti di lavoratori,
dei movimenti solidali e degli attivisti sociali o ambientali. La
chiusura, come di consueto è stata con una manovra di Bilancio piena di
ricchi premi e cotillon per alcuni fortunati all’interno delle consuete scelte economiche e politiche di fondo.
Per decenni ci hanno fatto credere che il conflitto
sia un male da estirpare con ogni mezzo, non una necessità per
progredire verso rapporti sociali più equi. Anche le occasioni delle
celebrazioni degli anniversari dei movimenti del ‘68 e del ‘77 sono
state utilizzate per inculcare in intere generazioni i luoghi comuni
del liberismo predatorio, e disarmare ideologicamente la classe
lavoratrice.
Non siamo in Sud America e per tenere a bada il conflitto non servono i colpi di stato. Basta la mano del Fmi. I morti non sono causati dalla furia delle armi, ma dalle politiche economiche imposte e mascherate da “aiuti” condizionati all’attuazione di devastazioni sociali.
I paesi destinatari si sono ritrovati a stentare per restituire i
prestiti usurai concessi e sono stati accusati, per di più di essere
spendaccioni.
Partiti della “sinistra moderata”, sindacati
compiacenti e intellettuali distratti hanno abbracciato l’inganno del
secolo: “privato è bello e conveniente”. I lavoratori che
dovevano essere fiancheggiati da questi soggetti hanno subito così la
contrazione dei loro salari e dell'occupazione, l’aumento dell'età
pensionabile, la riduzione del potere contrattuale e degli spazi di
democrazia.
Il capitalismo predatorio ha raggiunto i suoi obiettivi più ambiziosi: da una parte l'indebitamento dei privati è stato scaricato sul pubblico,
dall’altra l’indebitamento delle famiglie per integrare i salari
insufficienti a mantenere adeguati consumi individuali. Marx, in un
passo dei Grundrisse, aveva già sottolineato che l’interesse di ogni
singolo capitalista è che i lavoratori degli altri siano buoni
consumatori “ad eccezione dei suoi propri”, che invece devono ridurre
la loro capacità di consumo al minimo indispensabile. Questo sogno di
avere bassi salari e buoni consumatori si è realizzato temporaneamente
con la concessione di prestiti anche a quanti avevano ben poche
possibilità di onorare il debito. Salvo il crollo del settore
finanziario una volta scoppiata la bolla del business immobiliare.
La tremenda crisi del 2008, che si sta trascinando
fino ai giorni nostri, ha contribuito a fare rinsavire qualcuno, anche
se prevalgono ancora gli ultimi giapponesi postisi a guardia del vuoto
bidone. E lo fanno negando l'evidenza dei fatti e riproponendo
ideologicamente privatizzazioni,
libero mercato e riformismo d'accatto. Niente a che vedere col
riformismo dei primi centrosinistra che nazionalizzava l'energia
elettrica, investiva nell'ammodernamento del paese e, sotto la spinta
delle lotte popolari ampliava i diritti sociale e gli spazi di
partecipazione.
Guardando all’Europa, balza agli occhi la differenza
fra il compromesso del Trattato di Roma del ‘57 che si proponeva
responsabilizzare socialmente i detentori dei monopoli di servizi
pubblici, contando, magari astrattamente, di contenere gli appetiti
speculativi del capitale a tutela dei cittadini e dei consumatori, e,
40 anni dopo, il Trattato di Maastricht in cui queste preoccupazioni
sono del tutto assenti e a prevalere sono gli interessi del libero mercato e il contenimento della spesa pubblica, giudicata come la causa di ogni male. Cioè l’affermazione dello “stato minimo”, come ebbe a definirlo Guido Carli.
Le privatizzazioni si sono affermate sconfiggendo le classi lavoratrici: nel Cile di Pinochet con le politiche dei Chicago boys imposte con le armi,
in Usa con Reagan che licenziava gli operatori di volo in sciopero e
in Gran Bretagna con la Tatcher che reprimeva le lotte dei minatori. In
Italia furono decisive la svolta dell’Eur, l’austerità, e la sconfitta
operaia a partire dallo scontro in Fiat.
Il declino della classe operaia e l’avvio della stagione liberista è iniziato con queste sconfitte.
I processi di ristrutturazione capitalistica e l’affermazione di una
nuova ideologia dominante sono stati possibili grazie a questo mutato
rapporto di forza, complici i compromessi al ribasso e il trasformismo
politico.
Il crollo del Muro di Berlino ci ha messo la sua, ma
sbaglia chi fa partire tutto da lì. Certamente la crisi dei paesi
dell’Est Europa, che risale a ben prima dell’89, ha favorito
l’offensiva liberista. Ma questa inizia negli anni ‘70, con la crisi del sistema monetario di Bretton Woods, la crisi petrolifera, la caduta a livello mondiale del saggio del profitto e della conseguente accumulazione capitalistica, proprio durante il culmine delle lotte operaie.
La sconfitta del mondo del lavoro ha consentito che
si affermasse il capitalismo della sorveglianza, la repressione
accanita delle avanguardie e delle lotte sindacali e sociali. Ci hanno
persuasi che le privatizzazioni, le esternalizzazioni e le
rilocalizzazioni delle attività siano l’unica alternativa alla
inefficienza burocratica dello Stato e che salari e organici nel
settore pubblico siano da contenere al massimo per impedire
l'inflazione.
La forbice della ricchezza si è allargata. Mentre le rendite e i profitti, gli utili e i dividendi tra gli azionisti hanno sottratto risorse alle comunità, si è arrestata la mobilità sociale, sono aumentati i tempi e i ritmi di lavoro. Tutti i settori dell'economia fondamentale sono stati soggetti a feroci processi di privatizzazioni, dall'acqua all’energia, dai cosiddetti beni comuni ai trasporti. Perfino la scuola e l’istruzione ha seguito modelli privatistici e ha accresciuto la selezione di classe.
Il prodotto di questi processi predatori, imposti
dai veri decisori, gli agenti del capitale, è sotto i nostri occhi e
spinge anche settori borghesi a rimettere in discussione le
privatizzazioni invocando l'intervento dello Stato. Un intervento però
finalizzato prevalentemente a socializzare le perdite, non già a mettere in discussione il meccanismo unico del profitto.
In ogni caso un tabù si sta sbriciolando.
Paesi che, a causa della crisi finanziaria hanno visto devastare lo
stato sociale e crescere la miseria, paesi che hanno subito la
predazione da parte delle potenze imperialistiche, stanno ricercando, violentemente osteggiati,
un riscatto a partire dalla riappropriazione delle risorse naturali, a
cui sono connesse quasi sempre le loro prevalenti attività economiche.
In Italia, i privati hanno individuato un business senza dare niente
in cambio. Sono emblematiche la vicenda delle acciaierie di Taranto
che il privato ha saccheggiato seminando morti e disoccupazione e il
caso delle autostrade, dei ponti e delle strade, che si stanno
sbriciolando, talvolta con vittime, come nel caso del ponte Morandi. Il loro ritorno a una gestione statale si rende necessario per operare investimenti e manutenzione,
una sorta di ciclicità dei processi, dopo anni di speculazione
finanziaria e profitti privati si deve tornare alla gestione diretta,
pubblica e statale. Ma la cosiddetta “efficienza” dell’impresa privata
si vede anche in molti servizi, primo fra tutti la sanità, che stanno
perdendo in qualità e soprattutto nella loro universalità. Ciò rende
evidente che le privatizzazioni sono consistite prevalentemente
di economia predatoria, fatta di servizi pubblici scadenti e di
forza-lavoro sottopagata.
Lo stesso Pil, quale unico indicatore di benessere è
ormai messo in discussione da diversi economisti mentre viene
auspicato l’uso di altri indicatori che hanno a che vedere con la
qualità della vita (disponibilità di acqua e cibo, salute, istruzione,
ambiente, lavoro, mobilità, abitazioni ecc.). Così come si va
affermando l'idea che siano stati proprio gli affari e la
speculazione la causa dell'impoverimento progressivo nei paesi a
capitalismo avanzato e della crisi ambientale.
Rivendicazioni di rinazionalizzare o
rimunicipalizzare alcuni servizi, quale l’acqua, alla luce
dell'impoverimento sociale, cominciano a farsi strada. La
nozione di pubblico, di welfare e di lavoro e la stessa contraddizione
tra capitale e lavoro stanno assumendo nuove configurazioni.
Il rischio attuale è di cadere nuovamente vittime dell'ideologia
dominante, che questa volta potrebbe sostituire ai dogmi delle
privatizzazioni la richiesta di nuovi sacrifici per consentire il
rilancio del ruolo del pubblico, che poi pubblico non sarà almeno nella definizione propria del termine, ma solo un puntello per Monsieur le Capital.
Pubblico dovrebbe essere sinonimo di controllo e indirizzo, di ridistribuzione degli utili a fini sociali, di politiche occupazionali e contrattuali improntate alla ricerca di lavoro stabile e adeguatamente retribuito.
Per anni invece ha significato aziende, utili e profitti, rincaro
delle tariffe e mancato reinvestimento degli utili, deregolamentazione
del lavoro, precarietà diffusa. Si sono ceduti ai privati i beni comuni
e la gestione di settori economici strategici. Il capitale ha fatto
affari demandando al pubblico il compito di calmierare le disuguaglianze
o di assicurare ammortizzatori sociali. Più crescevano gli appetiti
speculativi e i redditi da capitale (e con essi anche la vendita di
prodotti finanziari tossici), maggiori erano le richieste allo Stato di
assicurare la ripresa degli investimenti facendo leva sulla riduzione
delle tasse, non sull'aumento della spesa pubblica che continua a
essere assoggettata a tetti ai limiti imposti dai dettami europei. E
così lo stato si è trasformato in agente al servizio della distruzione
dell'economia fondamentale e di quel principio, pur vagamente
egualitario, che prevedeva una tassazione progressiva senza le
scappatoie degli sgravi fiscali.
Qui sta la contraddizione che si cela dietro ad
alcuni fautori del pubblico. Talvolta sono gli stessi neoliberisti e
privatizzatori pentiti a celarsi dietro alla nuova richiesta di
ripubblicizzazione, perché nella nuova fase ciclica stanno
attrezzandosi per garantirsi la gestione dei cicli economici e dei
profitti. E lo faranno facendo propri, retoricamente, i contenuti delle
vecchie battaglie contro le privatizzazioni alimentando confusione e
smarrimento in seno al popolo.
Si capisce allora perché si vadano affermando
la sanità e la previdenza integrativa, o si continui ad investire
nella politica dei bonus secondo una logica clientelare: un sorta di
welfare “fai da te”.
Conoscere bene i processi in atto e rilanciare il
conflitto per affermare i conseguenti obiettivi della classe
lavoratrice diventa quindi indispensabile. Questa riconquista di
un’autonomia di pensiero, presupposto necessario per l’iniziativa
politica, è il nostro augurio per il 2020.
04/01/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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