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Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un
convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della
rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno.
Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il
paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di
esplodere in una guerra
civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e
sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei
confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il
ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto
califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una
potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche
regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata
magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza
delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio
arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra
civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e
scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad
estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.
Arriva l’estate ed iniziano le operazioni chirurgiche in Iraq da
parte dell’aviazione israeliana: è la prima volta che Tel Aviv estende
il raggio d’azione al di fuori di Libano e Siria, una mossa altamente
rischiosa. Gli aerei e i droni colpiscono basi militari,
depositi di armi, neutralizzano figure chiave della resistenza irachena
o del ramo locale di Hezbollah. L’intervento israeliano agisce in senso
contrario a quello statunitense: la divisione interconfessionale cala
di intensità, si compatta il fronte antiamericano, aumentano gli
attacchi contro obiettivi statunitensi. Poi, il 31 dicembre, la svolta:
un gruppo agguerrito di manifestanti circonda l’ambasciata statunitense
di Baghdad, viene appiccato il fuoco. È una ritorsione per i raid
statunitensi ed israeliani, sempre più frequenti e violenti, che nel
periodo natalizio hanno lasciato a terra più di 30 uomini, per la
maggior parte appartenenti all’Hezbollah locale e ai comitati di
resistenza popolare. Il presidente Donald Trump accusa l’Iran di essere
dietro l’assalto all’ambasciata e promette vendetta: il 2 gennaio firma
il mandato d’uccisione di Qasem Soleimani, il più capace ed influente
stratega militare al servizio di Teheran.
La notte del 3 gennaio, in quel convoglio, si trova proprio
Soleimani. Vengono lanciati dei missili, esplodono i veicoli, muoiono
sette persone: il generale, il leader del comitato di mobilitazione
popolare ed altri militari iraniani ed iracheni. Per anni si è
vociferato che Soleimani fosse un “intoccabile”, protetto da un patto
sottobanco siglato fra Russia
e Iran. Indiscrezioni che sembrano trovare conferma in un fatto: le
frequenti visite di Netanyahu e di esponenti della difesa israeliana a
Mosca durante l’anno scorso. Sembra che il primo ministro israeliano
volesse semaforo verde, perché ha fatto della guerra
all’Iran il punto focale della sua intera agenda estera, ma che gli
fosse stato negato. In questo contesto si inquadrebbero anche le
schermaglie che da mesi dividono Israele e Russia: l’arresto di cittadini israeliani in Russia,
condannati a pene detentive pesantissime rispetto ai reati commessi, i
raid israeliani in Siria nonostante i moniti del Cremlino, la decisione
russa di supportare l’economia
iraniana attraverso l’Unione Economica Eurasiatica, la collaborazione
nel nucleare civile e la recentissima esercitazione navale con la Cina.
La linea rossa, però, alla fine è stata oltrepassata: protetto o meno
da un “lodo Moro” in salsa asiatica, Soleimani è stato ucciso. La
campagna di propaganda da parte della rete sovranista, a cui si è unito
anche Matteo Salvini, è già iniziata: era un terrorista, una minaccia
per la pace mondiale, un pericolo comparabile a Osama bin Laden e
Al-Baghdadi, una ritorsione dovuta. Ciò che sfugge a giornalisti,
politici ed analisti, veri o presunti tali, è che la neutralizzazione di
Soleimani potrebbe essere benissimo, e giustamente, considerata come
una dichiarazione di guerra.
Non è stato ucciso un terrorista od un paramilitare, ma un soldato, un
esponente di primo piano di forze armate regolari. È il diritto
internazionale a parlare: se l’Iran volesse, potrebbe dichiarare guerra
agli Stati Uniti perché vittima di un’aggressione ed esposto
continuamente ad ingerenze nei propri affari interni. Ma il mondo è
dominato dalla realpolitik: l’Iran non ha i mezzi per sostenere una guerra
contro gli Stati Uniti, e neanche ha un’alleanza o dei partner su cui
fare affidamento. Il casus belli c’è, ma l’Iran è consapevole che, alla
luce della situazione
economica interna e della presenza capillare di quinte colonne entro i
propri confini, andrebbe incontro alla capitolazione o, comunque, ad uno
scenario Afghanistan: guerra permanente, paese distrutto.
Ciò che accadrà, con molta probabilità, è che la guerra
a distanza fra l’asse Washington-Tel Aviv-Riyad e Teheran salga di
livello: maggiore insurgenza a Gaza, maggiore ricorso ad Hezbollah in
Libano, attentati contro obiettivi americani o israeliani all’estero –
riportando lo scontro ai livelli degli anni ’90, quando Buenos Aires fu
insanguinata da due attentati contro la comunità ebraica – maggiori
pressioni su casa Sa’ud dallo Yemen e schermaglie nel Golfo Persico.
Ciascuna di queste mosse, però, sarà al tempo stesso controbilanciata da
reazioni sempre più sproporzionate, perché l’obiettivo degli Stati
Uniti – non di Trump – è di spingere l’Iran al passo falso che potrebbe
legittimare un intervento stile Iraq. Non ci sarà tregua finché il
regime rivoluzionario khomeinista continuerà a guidare il paese, perché
l’Iran è una di quelle nazioni che sono vittime della cosiddetta
“maledizione della geografia” e perciò destinate ad un “contenimento
infinito”.
È strategicamente incardinato fra Medio Oriente, Asia centrale e
meridionale, un punto di connessione fra le civiltà turcica, indiana,
cinese ed islamica, è ricco di risorse naturali strategiche, come gas e
petrolio, perciò non può essere consentito ad alcuna forza politica
ideologicamente anti-imperialista ed anti-occidentale di monopolizzare
il potere. Non è un caso che la storia
contemporanea iraniana, dall’arrivo dei britannici ad oggi, sia intrisa
di ingerenze straniere, rivoluzioni false e colpi di Stato. Ma
l’approfondimento sarebbe incompleto senza una descrizione di Soleimani,
che da ieri è dipinto come un terrorista e che
perciò merita di essere difeso dalla campagna propagandistica in corso.
Proveniente da una famiglia di umili origini, aveva scalato i gradi
dell’esercito mostrando le proprie abilità sul campo, durante la guerra
con l’Iraq, giungendo a ricoprire la prestigiosa carica di comandante
della brigata Gerusalemme delle guardie della rivoluzione.
Gli fu data l’importante responsabilità di guidare l’offensiva
dell’Iran contro lo Stato Islamico in Iraq, all’apice della sua
espansione, una missione che portò con successo a compimento, diventando
un’icona popolare non solo in Iran, ma in tutto il mondo islamico.
Soleimani, infatti, era apprezzatissimo anche fra gli oppositori
anti-khomeinisti. Con la sua morte, l’Iran perde il suo stratega più
abile e carismatico e l’asse della resistenza, con annesso il sogno di
un corridoio sciita da Teheran a Beirut, si ritira bruscamente. La sua
morte servirà a due scopi: spingere l’Iran a commettere un gesto
eclatante, che possa giustificare un intervento militare, o a portarlo
sul tavolo delle trattative per riscrivere l’accordo sul nucleare. Una
cosa è certa: il Nuovo grande gioco per l’egemonia sull’Eurasia è
entrato in una nuova fase e questa morte spettacolare, emblematicamente
avvenuta ad inizio anno, simboleggia la direzione che prenderanno le
relazioni internazionali nella nuova decade in cui siamo appena entrati.
(Emanuel Pierobon, “Soleimani è morto, viva Soleimani”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 4 gennaio 2020).
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