di Tomaso Montanari
La santificazione a testate unificate di Giampaolo Pansa lascia sconcertati.
È naturalmente comprensibile il lutto degli amici e degli
ammiratori, così come è lodevole la gratitudine dei più giovani
giornalisti che ripensano ai loro debiti verso quello che fu, fino a un
punto preciso della sua vita, un maestro del nostro italianissimo
giornalismo. Ma il silenzio sulla scelta revisionista di Pansa (una
scelta che assorbe, portandolo di male in peggio, quasi gli ultimi
vent’anni della sua vita), o peggio i tentativi di liquidarla con
accenni a un suo gusto per le questioni «controverse», al suo essere
«bastian contrario» o «sempre contro», sono invece inaccettabili. E
nemmeno il combinato disposto dell’intollerabile ipocrisia italica e
borghese del «de mortuis nihil nisi bonum» e del corporativismo
giornalistico possono giustificare questa corale opera di depistaggio.
È esattamente questa coltre di silenzio che obbliga a prendere la
parola proprio ora, a caldo: perché ci sia almeno qualche voce che
contraddica la canonizzazione, e instilli dubbi proprio nel momento in
cui il nuovo santo viene innalzato sugli altari, a riflettori ancora
accesi.
E il punto non è solo che Pansa è stato uno dei più efficaci autori
dell’equiparazione sostanziale fascismo-antifascismo, cioè uno dei
responsabili culturali della deriva che conduce allo sdoganamento dello
schieramento che va da Fratelli d’Italia alla Lega di Salvini, passando
per Casa Pound. Già, perché con Pansa, «la pubblicistica fascista sulla
“guerra civile” italiana e la sterminata memorialistica dei reduci di
Salò, che per un cinquantennio non erano riusciti a incrociare la strada
del grande pubblico per la loro inconsistenza storiografica, hanno
trovato un megafono di successo, uno sbocco nella grande editoria e nel
grande schermo»
(http://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2017/06/Zap-39_14-StoriaAlLavoro2.pdf).
E i fascisti ringraziarono, come fece per esempio il leader di Forza
Nuova Roberto Fiore, parlando in tv nel 2008: «in generale l’Italia sta
cambiando e sta iniziando a valutare quel periodo in modo più sereno.
C’è stato un Pansa di mezzo in questi due anni. C’è stato un sano
“revisionismo storico”».
Basterebbe questo a renderne la memoria esecrabile: almeno per chi
crede davvero nei valori della nostra Costituzione. Ma se almeno la
qualità giornalistica del lavoro di Pansa fosse indiscutibile, potrei
faticosamente arrivare a comprendere (mai ad accettare, né tantomeno ad
approvare) la celebrazione corporativa della grande firma. È quello che
avvenne per la Fallaci: e se trovo mostruoso che le si dedichino vie o
strade, perché oggi sarebbe condannata per istigazione all’odio
razziale, posso capire che le si riconoscano qualità di scrittura e di
inchiesta (che personalmente, tuttavia, giudico al contrario assai
modeste).
Ma i peana per il giornalismo di Pansa rivelano in chi li eleva una ben curiosa idea di giornalismo. Il punto, infatti, è che i libri di Pansa dal 2003 (l’anno in cui esce il Sangue dei vinti) consistono in una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti che mira a costruire, nella percezione del pubblico, un sostanziale falso storico. Pansa era stato uno storico: si era laureato in storia con uno dei migliori storici della Resistenza, e aveva praticato egli stesso la ricerca storica con ottimi risultati. Ma quando decise di ribaltare il tavolo e sostenere le tesi opposte a quelle in cui aveva sempre creduto – quando, cioè, decide di costruire l’apologia di chi uccise e morì per la Repubblica di Salò – non adottò il metodo storico, ma scrisse una serie di testi narrativi in cui la memorialistica e il romanzo sfumano l’una nell’altro. Una affabulazione senza nessun apparato di documenti e di note: e dunque inverificabile per il lettore.
Ma i peana per il giornalismo di Pansa rivelano in chi li eleva una ben curiosa idea di giornalismo. Il punto, infatti, è che i libri di Pansa dal 2003 (l’anno in cui esce il Sangue dei vinti) consistono in una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti che mira a costruire, nella percezione del pubblico, un sostanziale falso storico. Pansa era stato uno storico: si era laureato in storia con uno dei migliori storici della Resistenza, e aveva praticato egli stesso la ricerca storica con ottimi risultati. Ma quando decise di ribaltare il tavolo e sostenere le tesi opposte a quelle in cui aveva sempre creduto – quando, cioè, decide di costruire l’apologia di chi uccise e morì per la Repubblica di Salò – non adottò il metodo storico, ma scrisse una serie di testi narrativi in cui la memorialistica e il romanzo sfumano l’una nell’altro. Una affabulazione senza nessun apparato di documenti e di note: e dunque inverificabile per il lettore.
Sono testi, i suoi, che non hanno nulla a che fare con la
storiografia: ma nemmeno col giornalismo, per quanto estesa possa essere
l’idea di quest’ultimo. Perché sono testi in cui è inutile chiedersi se
le cose narrate siano vere o meno: ed è inutile perché è impossibile
rispondere. Ciò nonostante, moltissimi storici professionisti (a partire
da Giovanni De Luna) hanno chiarito in molte occasioni (si leggano per
esempio questo e questo)
come si tratti di testi privi di qualunque valore cognitivo, irti di
coscienti omissioni, falsificazioni, disonestà intellettuali di ogni
tipo. Carta straccia che racconta una storia falsa: fiction ideologica,
dalla parte dei fascisti.
Nonostante questo – e con un metodo ben calcolato – l’abilissimo
Pansa e un’ampia corte di giornalisti (quelli fascisti, quelli di
destra, quelli che semplicemente non leggevano nulla e quelli troppo
ignoranti per porsi il problema) a ogni uscita di libro hanno
trasformato la percezione di quei romanzi nel racconto di una nuova
storiografia di riscoperta, di revisione, di rovesciamento della verità
stabilità dai vincitori antifascisti. Cosicché, nel discorso pubblico,
Pansa oggi non è (come dovrebbe) l’autore di romanzetti curiosamente
filofascisti, ma è il giornalista antifascista che ha svelato –
dimostrando la coraggiosa capacità di andar contro ‘la sua parte’ – il
lato oscuro della Resistenza. Una clamorosa distorsione della verità:
una lunghissima, perversa ambiguità che non solo ha eroso, di libro in
libro, il consenso alla Repubblica antifascista, ma che contestualmente
ha mandato in vacca ogni idea di giornalismo, ledendo programmaticamente
il primo essenziale patto che lega chi scrive e chi legge, perché «la
prima cosa che chiediamo a uno scrittore è che non dica bugie» (George
Orwell).
Una risposta efficace era quella di Giorgio Bocca, un giornalista
che aveva eguale udienza presso i media, e che definiva Pansa,
semplicemente, «un falsario».
Invece, contro questa mistificazione gli storici veri hanno avuto
più difficoltà a rispondere: perché come disse (con straordinario
cinismo) lo stesso Pansa allo storico Angelo D’Orsi, che lo rimproverava
di non mettere nessuna nota nei suoi libri: «Tu vendi 2.000 copie e io
400.000… vuoi anche le note?». La stessa situazione, a me ben nota, in
cui si trova lo storico dell’arte che voglia smontare le bufale di Dan
Brown su Leonardo, o anche solo l’ennesima attribuzione farlocca a
Caravaggio sparata in prima pagina dal redattore orbo di turno.
Come si possa salutare oggi, dando fiato senza risparmio a tutte le
trombe della retorica, un ‘maestro di giornalismo’ è veramente un
mistero doloroso del rosario di fake news, falsi storici, manipolazioni o
semplici sciocchezze che si snocciola ogni santo giorno sui media
italiani. Per fortuna, in queste ore non sono mancate lucide voci
contro: per esempio quelle del collettivo Nicoletta Bourbaki, rilanciate dai Wu Ming, o quella di Luca Casarotti su Jacobin Italia.
Ma sulla carta stampata non si è trovato davvero nessun antidoto (salvo
un timido cenno sul Manifesto): e non per caso anche queste righe non
appaiono su un giornale, ma su un sito felicemente eretico.
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