Discorso sul pessimismo che cresce spontaneo di fronte a
politica e media. Contro il conformismo suadente che crea mostri di
successo. Per la lotta necessaria.
Impossibile non farsi prendere dal pessimismo, in certe occasioni.
Apri un giornale, leggi i titoli, qua e là un pezzo. Accendi la tv,
segui uno dei mille dibattiti serrati tra politici e politici, tra
politici e giornalisti, intellettuali e giornalisti o politici, spesso
improvvisati, in ordine sparso. Guardi i libri più venduti, ti soffermi
sui saggi, e cogli questo inesorabile bisogno dei pochi ingenui lettori
di sfogliare un libro scritto da uno dei soliti politici, intellettuali,
giornalisti televisivi che scrivono anche sui giornali, che dispensano
fuffa come diamanti di intelligenza.
Un piccolo circo mediatico che partorisce libri pessimi pubblicizzati come fossero miracoli, che mettono in piedi arene televisive oscene e imperdibili, dove politica nazionale, pettegolezzi, calcio o analisi geostrategiche viaggiano sullo stesso piano inclinato di superficialità e sollazzo. Spot di dieci parole, alla ricerca della superficie più riflettente, che se uno azzarda una riflessione con due o tre concetti in sequenza gli tolgono la parola in quanto vetero.
Un mondicino conformista e narcisista che muove le leve dell’informazione e della cultura, che si autocelebra e santifica sull’altare del successo, ben prudente nel non muovere neanche un piede sul terreno infido della realtà, dei tram, dei treni di seconda classe, della periferia delle metropoli, delle campagne, dei sentieri tortuosi della vita. Fabbricanti di chiacchiere, nomi buoni per festival estivi di niente, per far felici e gonfi di gioia gli assessorati che anelano le briciole di quel conformismo ricco e celebrato, da nomi buoni e poteruncolo.
Impossibile non farsi prendere dal pessimismo quando vedi questi raffinati cantori del potere elargire la mancia a noi cittadini senza diritti e senza spirito critico, santificare il loro successo per distrarci con quell’ironia del ciufolo, con i corsivetti sessisti in prima pagina, i sorrisetti beffardi, le battutine da cena in società.
L’oppio del popolo. Così si intitola un gran bel libro di Goffredo Fofi. E io sono contento di fare un’azione sovversiva come quella di prenderlo e metterlo in vetrina della libreria di un paese libero dalla spettacolarizzazione della cultura. Lo ha pubblicato Eleuthera, una casa editrice di persone in gamba, che fa libri notevoli per niente leccatini. Non per un caso in vetrina ho anche “Turismo di massa e usura del mondo” di Rodolphe Christin e “Discorso sull’orrore dell’arte”, dialogo illuminante tra il pittore Enrico Baj e l’urbanista francese Paul Virilio.
A un certo punto della sua spietata analisi Fofi cita Vitaliano Brancati che diceva: la politica ha come scopo quello di risolvere il problema dei derelitti, e i derelitti sarebbero gli oppressi di ogni tipo. Lo scopo della cultura sarebbe invece quello di pensare agli stupidi, di aiutare gli stupidi a liberarsi dalla stupidità. Già, in un tempo in cui la politica ha abdicato, dal suo ruolo la cultura è precipitata nel calderone fumoso della spettacolarizzazione per distrarci, chi ci salverà?
Ci salveremo da soli. Scegliendo con coerenza di non stare dalla parte degli oppressori, degli sfruttatori, dei devastatori di natura e di identità culturali; di non parteggiare per i vincitori, per il successo, ma per mantenere spirito critico. Comprendendo che l’unica soluzione sta nel camminando-domandando. Solo così, guerreggiando disarmati controcorrente, leggendo scritti profondi e dolci, nell’idea della gentilezza e dello spirito rurale, è possibile che il pessimismo si possa esorcizzare. È possibile tenere la testa alta, analizzare le cose che ci piovono addosso e ci trasformano in giocondi lotofagi. Leggere e fare del pensiero un’azione, comprendendone le conseguenze. Perché sempre ci sono conseguenze quando si sceglie lo spirito critico e la libertà, quando le domande vengono poste e restano accese senza rispostine da quiz precotte.
Siamo in cammino e non ci vanno bene le risposte dei vanagloriosi.
Un piccolo circo mediatico che partorisce libri pessimi pubblicizzati come fossero miracoli, che mettono in piedi arene televisive oscene e imperdibili, dove politica nazionale, pettegolezzi, calcio o analisi geostrategiche viaggiano sullo stesso piano inclinato di superficialità e sollazzo. Spot di dieci parole, alla ricerca della superficie più riflettente, che se uno azzarda una riflessione con due o tre concetti in sequenza gli tolgono la parola in quanto vetero.
Un mondicino conformista e narcisista che muove le leve dell’informazione e della cultura, che si autocelebra e santifica sull’altare del successo, ben prudente nel non muovere neanche un piede sul terreno infido della realtà, dei tram, dei treni di seconda classe, della periferia delle metropoli, delle campagne, dei sentieri tortuosi della vita. Fabbricanti di chiacchiere, nomi buoni per festival estivi di niente, per far felici e gonfi di gioia gli assessorati che anelano le briciole di quel conformismo ricco e celebrato, da nomi buoni e poteruncolo.
Impossibile non farsi prendere dal pessimismo quando vedi questi raffinati cantori del potere elargire la mancia a noi cittadini senza diritti e senza spirito critico, santificare il loro successo per distrarci con quell’ironia del ciufolo, con i corsivetti sessisti in prima pagina, i sorrisetti beffardi, le battutine da cena in società.
L’oppio del popolo. Così si intitola un gran bel libro di Goffredo Fofi. E io sono contento di fare un’azione sovversiva come quella di prenderlo e metterlo in vetrina della libreria di un paese libero dalla spettacolarizzazione della cultura. Lo ha pubblicato Eleuthera, una casa editrice di persone in gamba, che fa libri notevoli per niente leccatini. Non per un caso in vetrina ho anche “Turismo di massa e usura del mondo” di Rodolphe Christin e “Discorso sull’orrore dell’arte”, dialogo illuminante tra il pittore Enrico Baj e l’urbanista francese Paul Virilio.
A un certo punto della sua spietata analisi Fofi cita Vitaliano Brancati che diceva: la politica ha come scopo quello di risolvere il problema dei derelitti, e i derelitti sarebbero gli oppressi di ogni tipo. Lo scopo della cultura sarebbe invece quello di pensare agli stupidi, di aiutare gli stupidi a liberarsi dalla stupidità. Già, in un tempo in cui la politica ha abdicato, dal suo ruolo la cultura è precipitata nel calderone fumoso della spettacolarizzazione per distrarci, chi ci salverà?
Ci salveremo da soli. Scegliendo con coerenza di non stare dalla parte degli oppressori, degli sfruttatori, dei devastatori di natura e di identità culturali; di non parteggiare per i vincitori, per il successo, ma per mantenere spirito critico. Comprendendo che l’unica soluzione sta nel camminando-domandando. Solo così, guerreggiando disarmati controcorrente, leggendo scritti profondi e dolci, nell’idea della gentilezza e dello spirito rurale, è possibile che il pessimismo si possa esorcizzare. È possibile tenere la testa alta, analizzare le cose che ci piovono addosso e ci trasformano in giocondi lotofagi. Leggere e fare del pensiero un’azione, comprendendone le conseguenze. Perché sempre ci sono conseguenze quando si sceglie lo spirito critico e la libertà, quando le domande vengono poste e restano accese senza rispostine da quiz precotte.
Siamo in cammino e non ci vanno bene le risposte dei vanagloriosi.
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