“A volte Elena si chiudeva nella sua stanza privata prima ancora che me ne andassi, e allora sentivo il brusio del telaio, il rumore della spola che andava avanti e indietro.I meriti di Pat Barker ne “Il silenzio delle ragazze” sono diversi, in primis quello di aver dato voce a un bottino di guerra, la bella Briseide, motivo della contesa tra l’iroso Achille e il litigioso, avido Agamennone: la schiava, che nella maggior parte dei capitoli parla in prima persona, riesce a narrare sotto forma di tacito grido (grido espresso sottovoce o pensato) le ingiustizie, gli oltraggi, le violenze, l’invisibilità cui quelle come lei erano condannate.
Secondo una leggenda che non ha bisogno di spiegazioni, ogni volta che Elena tagliava un filo della sua tela un uomo moriva in battaglia. Era lei la causa di ogni morte”.
Lo sfondo del romanzo è la guerra di Troia, in particolare la parte conclusiva, dal nono anno in avanti.
L’Iliade rivisitata non in funzione spettacolare come avvenne col kolossal “Troy” – cui si rimprovera di aver ceduto a troppe forzature, come la falsa cuginanza di Briseide con Ettore – ma con la precisione di cui la Barker è maestra per narrare fatti così lontani nel tempo, di cui resta eco non solo nei poemi omerici, ma nelle diverse versioni del mito.
Con alcuni colpi di genio – tra cui l’attaccamento morboso del quasi invincibile Achille per una madre acquea e sfuggente e il potere seduttivo, per il grande eroe, della pelle salmastra e salata, particolare di chiara evocazione edipica – questa scrittrice inglese traccia una storia verosimile, pur se calata nelle nebbie della leggenda: una storia verosimile di sopraffazioni, di orgoglio, di ferocia, dove le donne erano le ultime pedine di uno scacchiere a predominanza maschile, issato sul potere e sulla legge del più forte (fisicamente).
Oltre il conflitto più celebre dell’antichità ci sono le contese umane, piccole e meschine, che spesso separano le stesse donne tra loro e altro pregio dell’autrice è quello di aver scandagliato le tante rivalità femminili, i pregiudizi, le occasioni perse, per le donne, di appoggiarsi l’un l’altra, di mostrarsi solidarietà.
Come avvenne, ad esempio, tra una suocera distaccata e Briseide, giovanissima nuora:
“Ero entrata nel suo palazzo a quattordici anni, una ragazzina senza il sostegno di una madre. Avrebbe potuto essere gentile con me, ma non lo era stata; avrebbe potuto aiutarmi a trovare il mio posto nella nuova casa, ma non l’aveva fatto. Non avevo motivo di amarla, e poiché si era lasciata consumare fino a ridursi a un mucchietto di carni raggrinzite e ossa sporgenti, mi era anche rimasto ben poco da odiare: era questo che mi mandava in bestia. Avevo vinto io, certo, ma era una vittoria di nessun valore”.Una volta persa la libertà, la dimensione servile diventa un rito collettivo che divide biecamente le “favorite” dalle “femmine pubbliche”; quelle di tutti, quelle che dormono come delle bestie, cui la vita non riserva più nessuna pietà. La morte pende su ciascuna concubina come una spada di Damocle, l’ignoto è dietro l’angolo e il destino più avverso può dipendere da un ghiribizzo o dal capriccio del padrone cui ciascuna è stata assegnata.
Per questo il lettore segue con trepidazione le vicende già note – e mirabilmente rinarrate, la morte di Patroclo, l’assassinio di Ettore, la visita di Priamo al campo nemico –, ma più di ogni altra cosa, attende l’evolversi dei sentimenti e, dentro, vi trova epiloghi che accomunano l’umanità, ergo plausibili.
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