La
mobilitazione contro la riforma delle pensioni iniziata il 5 dicembre
ha superato la “soglia psicologica” dei 22 giorni consecutivi di
sciopero, la durata del movimento vittorioso contro la riforma
pensionistica di Alain Juppé nell’Inverno del 1995.
Questo
giovedì 2 gennaio ha eguagliato con la sua 29sima giornata consecutiva
di sciopero la più lunga fermata nei trasporti del 1986-1987…
Se
il tasso di partecipazione sciopero è leggermente diminuito nelle
ferrovie, ed in dose minore nella metro parigina, l’astensione dal
lavoro ed il traffico sono ancora perturbati e lontani dall’assumere il
profilo della “normalità”.
Gli
auspici dell’Esecutivo per una “pausa” durante le vacanze natalizie –
che aveva avuto l’appoggio delle direzioni confederali della CFDT e
della UNSA – sono stati resi lettera morta perché la base del 4°
sindacato nelle ferrovie (la CFDT) e del primo nella RAPT (UNSA) è stata
indisponibile ad una tregua.
Il
sostegno della popolazione appare ancora maggioritario e negli scorsi
giorni una delle iniziative principali di raccolta fondi per gli
scioperanti promossa da una branca della CGT – Info’Com CGT – ha
superato il milione e mezzo di euro con l’anno nuovo.
Una
iniziativa di solidarietà concreta che permette di dare un contributo
effettivo anche a coloro che sono impossibilitati di fatto a fare
sciopero, considerando che chi ha fatto lo sciopero ad oltranza vedrà di
fatto azzerata la sua busta paga.
Si
attende la nuova giornata di sciopero inter-categoriale e
inter-generazionale del 9 gennaio per ridare un nuovo slancio alla
mobilitazione con importanti iniziative che precederanno ed
accompagneranno il quarto sciopero generale in poco più di un mese.
Il
collettivo “SOS Retraites”, che raggruppa una quindicina di professioni
liberali che dispongono di un regime autonomo – tra cui differenti
profili del settore sanitario oltre che ad avvocati, esperti contabili o
del comparto del trasporto aereo – ha chiamato allo sciopero già da
questo venerdì.
Anche
se i piloti hanno disdetto l’avviso di sciopero dal 3 gennaio che
avevano precedentemente depositato, dopo le assicurazioni governative
sulla possibilità di mantenere la cassa autonoma complementare di
categoria e l’età di pensionamento a 60 anni, si attende una
mobilitazione massiccia, considerato che – come aveva dichiarato a
settembre in una tribune del “Journal de Dimanche” – il collettivo SOS Retraits rappresenta un bacino di 700 mila persone con differenti profili professionali.
Dal 6 gennaio anche gli avvocati hanno annunciato che sciopereranno per una settimana, e potrebbero continuare oltre.
Accusano
il governo di essere sordo e di rifiutare il dialogo; e di essere
quindi l’unico responsabile delle conseguenze sul funzionamento della
giustizia e sui diritti dei giudicati.
In un comunicato, pubblicato a fine anno da differenti associazioni di categoria, affermano: «non
c’è altra scelta che quella di indurire il quadro dello sciopero e
dell’azioni di blocco che si svolgeranno a partire da lunedì 6 gennaio.»
Nel
comparto chimico, Thierry Dufresne – delegato della CGT alla Total – ha
annunciato che dal 7 al 10 gennaio verranno totalmente bloccate tutte
le raffinerie e non uscirà alcun prodotto per 96 ore, compresi i
terminal petroliferi e i depositi di carburanti.
«Alla fine delle 96 ore di sciopero ci porremo la domanda se si passa alla fase del fermo delle installazioni», ha dichiarato Dufresne.
L’ultima
“arrivata” è la raffineria di Feyzin, entrata in sciopero sabato
scorso. Come ha dichiarato Pedro Afonso, delegato sindacale della CGT,
nessun prodotto petrolifero esce dalla raffineria per andare ad
alimentare le stazioni di servizio.
«I salariati hanno voluto
raggiungere il movimento nazionale delle raffinerie per influire sul
governo e ottenere il ritiro della riforma delle pensioni», ha spiegato Afonso.
Una seconda giornata di “porti morti” ha riguardato gli scali francesi, bloccati per tutta la giornata il 30 dicembre.
Le
Havre, Rouen, Lorient, e altri porti sono stati al centro di queste
azioni, ed altre iniziative sono in programma nei prossimi giorni.
Il
manifesto della maggiore organizzazione sindacale degli insegnanti
della scuola secondaria – SNES-FSU – che chiama allo sciopero del 9
gennaio, è piuttosto esplicito sul prosieguo del movimento: “Pensioni nessuna risposta, 2020 in collera…”
Le
reazioni al discorso di capodanno di Macron di Benoît Teste, segretario
della FSU, come del resto quella degli altri leader
dell’inter-sindacale, testimoniano l’insoddisfazione di un settore che
ha visto per tre volte consecutive scioperare oltre la metà degli
effettivi nelle medie inferiori e superiori; non solo contro la riforma
pensionistica, ma contro lo stravolgimento che il Ministro
dell’Istruzione Blanquer vuole attuare rispetto alla condizione
dell’insegnante.
Il
calcolo pensionistico per il corpo docente viene attualmente svolto a
fine carriera e parametrato sullo stipendio degli ultimi sei mesi
lavorativi, mentre la “riforma” pretende di calcolare la pensione su
tutta la vita lavorativa. Per una categoria che entra relativamente
“tardi” in servizio, e che per la maggior parte della carriera
percepisce – rispetto agli studi fatti e sforzi effettuati –
remunerazioni piuttosto basse, anche rispetto ai propri colleghi europei
è un colpo mortale.
La
promessa di aumenti salariali per il comparto come per la sanità –
ribadita nel discorso di capodanno di Macron e su cui è previsto un
lungo tavolo di lavoro – appare per ora tale: una promessa e nulla più.
Teste non ha ravvisato nel discorso presidenziale «gli elementi che possano costituire delle vie d’uscita».
Ma
forse l’immagine-simbolo di questo lungo sciopero con cui si è concluso
il 2019 è quella delle ballerine dell’Opèra di Parigi, che hanno
rappresentato all’aperto gratuitamente una parte del “Lago dei Cigni” e
che hanno rifiutato di accettare la proposta governativa della
cosiddetta clausola “del nonno”, per cui sarebbero escluse dalla riforma
– che riguarderebbe comunque altri profili del settore dello spettacolo
– , e ricadrebbe solo le future generazioni di ballerine non ancora in
attività e quindi che non potrebbero godere della pensione a 42 anni.
La loro dichiarazione è una delle più belle manifestazioni della lotta di classe nell’Esagono: «Ci è stato proposto di esser personalmente escluse dalle misure, per vederle applicate solo alle prossime generazioni. Ma noi non siamo che un piccolo anello di una
catena vecchia di 350 anni. Questa catena deve prolungarsi nel futuro:
noi non possiamo essere la generazione che avrà sacrificato le
successive».
Veniamo
al discorso di Macron, che assume completamente la dimensione dello
scontro, e dà la cifra della polarizzazione politica in corso Oltralpe.
“Due France si trovano ormai faccia a faccia”, è scritto nell’editoriale di “Le Monde”: quella di Macron e quella della CGT per il quotidiano francese.
In
realtà il fronte sindacale è ben più ampio, come dimostrano le reazioni
dei vari responsabili sindacali, da FO alla combattiva SUD.
Nel
27simo giorno di “sciopero ad oltranza”, il 31 dicembre, il Presidente
Macron durante la sua locuzione di fine anno durata 18 minuti ha preso
per la prima volta la parola dall’inizio del movimento, che la riforma
delle pensioni «sarà portata a termine».
È
stato lapidario nel voler dare un segno di discontinuità rispetto
all’esperienze dei precedenti quinquenni presidenziali, che a metà del
loro mandato avevano mostrato di ascoltare le voci d’opposizione al
proprio operato, ricalibrando la propria azione, anche per non
dilapidare il proprio consenso con l’avvicinarsi dell’elezioni (ci
saranno le municipali, questa Primavera).
Macron tira perciò dritto per la propria strada, costi quel che costi.
Non ritornerà sui principi che ispirano la “riforma” – come il regime universale e l’età pivot, o di “riequilibrio” – «si aspetta che il governo di Edouard Philippe trovi la strada di un compromesso rapido nel rispetto dei princìpi» con «le organizzazioni sindacali e padronali che lo desiderano».
Cioè, traduciamo noicon quelledisposte ad affossare il movimento rendendosi complici dell’esecutivo.
Più volte è tornato sulla volontà di continuare nel suo operato: «voglio assicurarvi che non cederò per niente al pessimismo e all’immobilismo».
Quindi
si è giocato la carta dell’esasperazione del conflitto, dopo aver
cercato in modo fallimentare di disinnescarlo nelle ferrovie e nella
metro, e ancor prima di criminalizzarlo nell’opinione pubblica…
Philippe
Martinez, segretario della CGT, anche in risposta all’allocuzione del
Presidente, il 1 gennaio ha annunciato in un intervista a BFMTV e RMC: «Da lunedì (…) chiamiamo a fare delle assemblee generali e a discutere delle mobilitazioni (…) bisogna fare scioperi ovunque, nel pubblico, nel privato, solo in questo modo possono ascoltarci».
Quella del segretario della CGT non è stata una boutade,
ma una indicazione precisa che le strutture dell’organizzazione
sindacale stanno ora concretizzando, come dimostrano una serie di
iniziative previste di tentativi di generalizzazione dello sciopero.
Ma
nonostante gli annunci, il cosiddetto principio del “regime universale”
sta conoscendo significative deroghe mantenendo di fatto i “regimi
speciali” per quei lavoratori che il governo vuole non vengano coinvolti
nell’attuale mobilitazione per depotenziarne l’impatto: poliziotti,
marinai, piloti, ecc.
Questo
è il segno tangibile che sia il principio annunciato non è poi così
granitico e, in secondo luogo, che la mobilitazione mette in seria
difficoltà l’Esecutivo e un Presidente che usa toni auto-compiacenti e
vive immerso in una “bolla”, ma pronto a rivendicare la necessità dello
scontro anziché la conciliazione.
Come ha brillantemente commentato il leader di La France Insoumise, Jean-Luc Mélenchon, l’allocuzione di Macron: «È una dichiarazione di guerra ai milioni di francesi che rifiutano la sua riforma (…) ha parlato un extra-terrestre»
***
Il
5 dicembre del 2019 è stata una “data di cesura” nella storia
contemporanea francese, così come lo fu poco più di un anno prima il 17
novembre, primo giorno dei blocchi dei gilets jaunes, che hanno fatto entrare l’Esagono in una nuova fase politica di conflittualità permanente non ancora conclusasi.Con la “marea gialla” è stato azzerato il capitale di consenso – se non per la ristretta cerchia sociale medio-alta da cui proviene e di cui è espressione – di Emmanuel Macron, divenuto presidente nell’estate del 2017.
È innegabile che l’attuale mobilitazione ha fatto tesoro della sconfitta delle mobilitazioni contro l’introduzione della “Lois Travaille”, durante la presidenza Hollande nel 2016, così come di quella relativa ai lavoratori delle ferrovie della primavera del 2018.
Questi movimenti nel primo caso non hanno portato al ritiro del “Job Act” francese nel 2016 – anche se è costato la carriera politica ad Hollande e ha costituito il requiem del partito socialista – e nel secondo caso non hanno impedito la privatizzazione strisciante delle SNCF, di fatto iniziata il primo gennaio di quest’anno.
Allo stesso tempo la marea gialla ha notevolmente influenzato la coscienza politico-sociale delle classi subalterne in Francia, al di là del talvolta difficile rapporto tra organizzazioni sindacali e giacche gialle, la cui distanza sembra ora ridursi sempre di più nella comune pratica di azioni dirette, “coup de poign”, che colpiscono il cuore dell’economia: dai blocchi agli hub logistici alle operazioni di “pedaggio gratuito”, dalle azioni nei depositi di carburante a quelle ai centri di smistamento postali. Tutte azioni che continuano anche in questi giorni.
I tagli all’energia elettrica alle aziende più importanti quotate in borsa nel CAC40, la “manomissione” dei contatori di ultimissima generazione Linky (utilizzati dai gestori per ridurre l’erogazione di corrente a chi non è in grado di pagare le bollette), sono espressione di questa tendenza all’azione diretta.
Si è spostato in parte il teatro dell’azione sindacale dalla “sfilata in piazza” all’azione, quasi come unico strumento di pressione sui gangli dell’economia per “bloccarla” (come è comunemente rivendicato), per fare avanzare il rapporto di forza con il governo.
Questo percorso di convergenza pone le basi per una ricomposizione politica di classe contro lo stesso nemico – il Presidente dei Ricchi – sebbene i due fenomeni siano parzialmente espressione di porzioni di classe differenti. Le “giacche rosse” della CGT, o i militanti sindacali di base, in genere sono la punta di lancia del movimento operaio organizzato, che ha ancora “punti di forza” in settori strategici dell’economia nel pubblico (trasporti, settori dell’energia, porti) ed in dose minore nel privato (le raffinerie). Le “giacche gialle”, invece, sono espressione del precariato diffuso, degli strati più vulnerabili della working class, così come di quelle figure colpite da un processo di immiserimento crescente della ex-classe media.
Questa convergenza nel movimento contro la riforma pensionistica trae la sua forza dal carattere “decentrato” delle varie iniziative, fin dalla mobilitazione del 5 novembre che ha visto circa 250 manifestazioni locali in tutto l’Esagono – ripetutasi, per numeri ed estensione, nel terzo sciopero generale.
In misura maggiore, questa caratteristica policentrica e diffusa “erede” della marea gialla si concretizza nei momenti di iniziative “non programmate”, con quello che potremmo definire – con un neologismo cacofonico – la “gilet-jaunizzazione” del movimento sindacale.
In questo processo convergono settori “relativamente protetti” della classe lavoratrice, parti di due gangli vitali dell’organizzazione economica come l’istruzione e la sanità pubblica, che vedono sempre più ridefinito in peggio il loro status all’interno di sistemi in accelerata trasformazione e ormai sull’orlo del collasso.
Il personale della sanità, che ha visto nei lavoratori dei pronto soccorso i precursori dell’attuale mobilitazione trasversale, ha adottato una forma di coordinamento orizzontale “intra-ospedaliera” dopo che, proprio durante la marea gialla, non era raro trovare GJ che denunciavano lo stato di salute del settore partecipando al movimento e prestavano soccorso ai manifestanti colpiti dalla polizia, assumendo coscientemente questa funzione durante i vari sabati di mobilitazione.
I medici avevano poi denunciato le ferite da guerra procurate dai vari dispositivi utilizzati dalle “forze dell’ordine”, dopo aver visto con i propri occhi i risultati della violenza poliziesca (dalle amputazioni dovute all’esplosione delle granate dis-accerchianti, alle mutilazioni oculari procurate dalle “pallottole di gomma” o dai lacrimogeni sparati ad altezza uomo…).
La violenza della polizia, in quest’anno, ha lasciato tracce profonde nella società francese, specie nelle generazioni più giovani, facendo fare uno “scatto di coscienza” anche a settori sociali relativamente assopiti.
Nelle Assemblee Generali, non è raro che gli insegnanti facciano riferimento ai “gilets gialli”…
Così come le “rotatorie” prima, poi le cabanes dopo e poi le Assemblee Generali locali, erano state in fasi successive delle “Agorà” in cui le classi subalterne “in giallo” avevano ri-politicizzato la discussione su aspetti decisivi dell’attuale sistema politico-sociale, allo stesso modo le Assemblee Generali sul posto di lavoro – vero baricentro della mobilitazione attuale – dal 5 dicembre in poi sono state il complemento di un processo di ri-politicizzazione del movimento operaio organizzato che aveva conosciuto venticinque anni di sconfitte, ma non si è arreso.
Questo è un aspetto importante, perché le direzioni sindacali della CGT e della SUD non avevano accettato una logica “compromissoria” con il personale politico durante gli anni dell’offensiva neo-liberista; mentre in alcune centrali – come FO – la base ha messo in discussione l’operato troppo moderato delle proprie direzioni.
***
Siamo
quindi ad una nuova fase della “lotta di classe dall’alto” che
rivendica lo scontro in atto, ostentando indifferenza rispetto al fatto
che la propria azione incontri consenso o meno.
Dalla
parte opposta vi è ora la determinazione ad essere all’altezza dello
scontro, per sviluppare un rapporto di forza in grado di far retrocedere
il governo.
La lotta di classe, insomma, torna ad essere feroce anche nel Vecchio Continente.
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