martedì 7 gennaio 2020

Ambiente & Clima & "Moda". Saldi, stracci e inquinamento

Il Quadrilatero della Moda, appare in questi giorni effervescente come non lo si vedeva dagli Anni Ottanta. Le boutique di via Montenapoleone, via Spiga, via Manzoni e Corso Venezia sono prese d’assalto da stuoli di cinesi, russi, americani e pure italiani: la settimana dei saldi nel capoluogo lombardo come in tutti gli altri centri sembra partita alla carica.

Risultato immagini per moda e inquinamentoA spingerla oltre ai retailer, magazine, quotidiani, on line, telegiornali nazionali e regionali.
Da questi ultimi (specie quelli di Stato) ci si aspetterebbe un po’ più di riflessione: almeno un briciolo; non per indebolire un comparto come quello del tessile - abbigliamento italiano che soprattutto in passato ha dato grandi soddisfazioni al nostro Paese, quanto per rendere avvertito chi come suo diritto sceglie di comprare o stra-comprare “capi alla moda”,
Perché la produzione che sta dietro a ognuno di essi ha il suo lato oscuro.
Il tessile abbigliamento, solo dopo quello dell’estrazione degli idrocarburi è il settore più inquinante che esista.
Pare sorprendente ma quanto incide il comparto moda nell’inquinare il pianeta è presto detto.
Occorre innanzitutto partire dalla considerazione che la produzione globale di abbigliamento è più che raddoppiata negli ultimi vent’anni: le vendite sono passate da 1 trilione di dollari del 2002 a 1.8 trilioni nel 2025 raggiungeranno i 2.1 trilioni.
Greenpeace da sempre punta il dito contro l’accelerazione costruita dal fast-fashion, capace di sfornare sino a 10 collezioni l’anno, messe a disposizione di consumatori che acquistano in media il 60% in più di prodotti ogni anno, con una durata media dimezzata rispetto a 15 anni fa.


Risultato? Montagne di rifiuti tessili: l’equivalente di un camion di tessuti va in discarica o viene bruciato ogni secondo sul nostro pianeta: quasi i 3/5 degli abiti acquistati nei 12 mesi precedenti.

Il settore produce il 20% delle acque reflue globali; in un anno il 10% delle emissioni globali di carbonio va a suo carico: 1 kg di tessuto prodotto genera in media 23 kg di gas serra. 
Secondo una ricerca condotta dall’Agenzia per la protezione ambientale (EPA), i rifiuti tessili sono aumentati del 811% dal 1960 al 2015.
E’ la plastica che mostra il più grande aumento dei rifiuti dal 1960: ad un colossale 8.746%.
Ma anche la gomma e la pelle, materiali comuni utilizzati nelle calzature e nell’abbigliamento, hanno mostrato un aumento significativo: 361%.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite.
Tra il 20 e il 25% di tutti i composti chimici attualmente prodotti sono utilizzati per il finissaggio degli abiti, mentre il nostro bucato rilascia mezzo milione di tonnellate di microfibre nell’oceano ogni anno
Sono numeri che spaventano.
Ma non è solo un problema di quantità: si è trasformato anche il modo di produrre.
Un materiale come il poliestere è decisamente più economico di lana, lino o cotone, e per di più è capace di performance spesso superiori.
Ma il riciclaggio di tessuti contenente poliestere richiede una separazione assai complessa. I metodi meccanici degradano le fibre naturali, quelli chimici sono assai più costosi e quindi poche aziende di abbigliamento si preoccupano di utilizzarlo.
Le più avvedute tra le case di moda, da qualche tempo (non moltissimo in verità e non in maniera sufficiente) si sono attivate.
Lo scorso agosto alla vigilia del vertice del G7 di Biarritz Emmanuel Macron, ha invitato all’Eliseo i rappresentanti di 32 aziende leader nel settore del tessile-abbigliamento. Iniziativa preceduta dal mandato affidato nel mese di aprile a François-Henri Pinault e CEO di Kering (Gucci, Bottega Veneta, Alexander McQueen, Balenciaga… ): coinvolgere gli attori più importanti nel campo della moda per raggiungere obiettivi virtuosi in materia di riduzione dell’impatto ecologico delle loro attività.

E all’Eliseo qualcosa di significativo è accaduto: 32 aziende leader a livello hanno dato vita al Fashion Pact definendo una serie di obiettivi focalizzati su tre aree principali per la salvaguardia del pianeta: arresto del global warming. Ripristino delle la biodiversità. Protezione degli oceani. 
L’elenco dei marchi aderenti al Fashion Pact - che riportiamo qui in ordine alfabetico – è confortante
ADIDAS, BESTSELLER, BURBERRY, CAPRI HOLDINGS LIMITED, CARREFOUR, CHANEL, ERMENEGILDO ZEGNA, EVERYBODY & EVERYONE, FASHION3, FUNG GROUP, GALERIES LAFAYETTE, GAP INC., GIORGIO ARMANI, H&M GROUP, HERMES, INDITEX (ZARA), KARL LAGERFELD, KERING, LA REDOUTE, MATCHESFASHION.COM, MONCLER, NIKE, NORDSTROM, PRADA S.P.A., PUMA, PVH CORP., RALPH LAUREN, RUYI, SALVATORE FERRAGAMO, SELFRIDGES GROUP, STELLA MCCARTNEY, TAPESTRY.
Assente LVMH (Louis Vuitton, Fendi, Givenchy…) la più potente tra le conglomerate del lusso mondiale, ma in ogni caso un allineamento di questa portata che vede schierate aziende di nazionalità diverse, indifferentemente leader nel luxury goods, nel fast fashion o nell’abbigliamento sportivo non si era ancora visto.
Tuttavia i punti critici non mancano.
Il Fashion Pact è una dichiarazione di intenti, non è legalmente vincolante e quindi totalmente affidato alle buone intenzioni di chi vi partecipa.

In ogni caso i fari si sono accesi su un problema ineludibile le cui soluzioni non sono più posticipabili. Sta ora ad ognuno di noi fare pressione favorendo chi davvero si impegna in questa direzione.
Di certo c’è che la nuova generazione “verde” (quella che ha eretto a proprio simbolo Greta Thunberg) desidera anche nell’abbigliamento un impegno decisamente maggiore di quello che hanno attuato sino ad oggi le case di moda e si tratta per fascia di età proprio dei clienti più appetibili per questo genere di mercato.

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