Le politiche che devastano il pianeta sono intrecciate con l'idea patriarcale che pensa agli esseri umani come se fossero disconnessi dalla terra e dal loro stesso corpo. La complicazione di essere una specie ecodipendente e bisognosa di cura non può ricadere solo sulle donne
Yayo Herrero è un’antropologa femminista
argentina, che negli ultimi anni si è particolarmente concentrata
intorno al concetto di ecofemminismo. Quest’intervista è stata fatta in
forma video in esclusiva per la IX edizione della Scuola politica di Befree Cooperativa
che si è svolta tra il 27 agosto e il 1 settembre 2019 a Stiffe in
provincia de L’Aquila.
La Scuola è organizzata dall’associazione
culturale Le Funambole e il tema di quest’anno è stato la rivoluzione
che ha dato il titolo alla Scuola: “Rivoluzione sia!”.
Un’intera
giornata è stata dedicata alle esperienze internazionali con Silvia
Todeschini della rete di sostegno alle donne curde, l’attivista
messicana Diana Barreto e la traduttrice di Donne, razza e classe
di Angela Davis, Marie Moïse. In coda alla giornata sono state
proiettate due video interviste, una a Veronica Gago, portavoce del
collettivo NiUnaMenos Argentina e l’altra, appunto, a Yayo Herrero.
Io credo che la proposta ecofemminista riconduca la politica e l’economia a ciò che ci costituisce come esseri umani. Il punto di partenza è il riconoscimento che in quanto esseri umani siamo radicalmente ecodipendenti, dipendiamo dalla natura, e la natura ha dei limiti che in questo momento vengono completamente superati. Alcune dimostrazioni di tale superamento le vediamo con il cambiamento climatico, la fine del petrolio e la riduzione della biodiversità. Sono problemi ecologici che compromettono gravemente il funzionamento dell’economia e del metabolismo economico mondiale. Quindi il primo elemento del movimento ecologista è la necessità di articolare economie centrate su ciò che realmente la terra può produrre. Ciò significa iniziare a chiederci quali siano le necessità umane da sostenere, quali siano le produzioni di cui abbiamo bisogno e infine quali siano i lavori socialmente necessari.
L’altro elemento che ricaviamo dal pensiero ecologista è che siamo esseri interdipendenti, ovvero i nostri corpi sono vulnerabili, sono finiti e devono essere curati tutta la vita e specificatamente in alcune parti del ciclo vitale. Chi storicamente si è occupato di farlo sono le donne, non perché siamo geneticamente più dotate nel farlo, ma perché il patriarcato assegna in forma non libera l’obbligo di occuparsi della cura dei corpi principalmente alle donne. Per questo, in riferimento all’interdipendenza, ciò che l’ecofemminismo propone è valorizzare e rendere visibile il lavoro di cura e soprattutto condividerlo. La complicazione di avere un corpo ed essere una specie non può ricadere sulle donne ma è una co-responsabilità che condividono uomini e donne, e anche le istituzioni.
Scrivi che occorre recuperare il principio femminile per trascendere i principi patriarcali del cattivo sviluppo e trasformarli. Molti movimenti femministi occidentali hanno però lavorato molto, e lavorano ancora, per togliere il soggetto femminile da un’ottica essenzialista. Come possiamo conciliare questi orizzonti?
Io rifiuto sempre il termine «soggetto femminile», perché la mia non è una visione essenzialista femminile, è una visione femminista, che è qualcosa piuttosto differente. Non credo che le donne abbiano un principio femminile che le renda differenti, più portate a occuparsi della vita. Ciò che è vero è che la cura è stato un lavoro storicamente femminilizzato, ed è un lavoro importante, un lavoro trascendentale, e da un punto di vista femminista e non femminile c’è bisogno di suddividerlo, di fare in modo che l’insieme della società, l’insieme sociale integrato da uomini, donne, persone e istituzioni, si occupi corresponsabilmente della cura del corpo. Non è un lavoro strettamente di donne, non è un lavoro femminile, è un lavoro che fanno le donne perché viviamo in una società patriarcale che obbliga, in forma non libera, le donne a svolgerlo.
Una categoria usata dall’ecofemminismo è quella di «Impronta di civiltà» delle donne. Ci puoi spiegare che cos’è e come potremmo usarla aggiungendola alle categorie che usiamo nelle nostre lotte specifiche?
L’impronta di cura è una categoria, un concetto, che alcuni chiamano impronta di civiltà. È una categoria che è stata coniata in parallelo e in relazione con l’impronta ecologica, che è un’altra categoria stabilita dall’economia ecologica. Se l’impronta ecologica esprime la quantità di terra, misurata in ettari globali, che una persona, paese o comunità necessita per mantenere il proprio stile di vita, e quindi stabilisce quale sia il debito ecologico dei paesi ricchi rispetto ai paesi sottomessi, sfruttati, utilizzati come miniere e discariche; l’impronta di cura vuole mostrare il debito che il patriarcato nel suo insieme ha con la vita e con le donne a causa del disuguale apporto al sostentamento della civilizzazione. Mentre l’impronta ecologica si può contabilizzare, con elementi che misurano in termini fisici quale sia l’impronta ecologica, l’impronta di cura è molto difficile da contabilizzare, perché di base considera l’uso del tempo e l’uso del tempo non si può misurare in termini strettamente lineari. Non sono la stessa cosa il tempo dedicato alla cura della vecchiaia e quello alla cura nella prima infanzia, non è la stessa cosa curare persone che non desideriamo curare o persone che desideriamo curare, non è lo stesso il tempo di lavoro di auto-cura e quello per la cura dedicata ad altre persone. Non si tratta quindi di una categoria utile a stabilire politiche pubbliche misurate in «tempi», ma di una categoria politica per rendere visibile questa disuguaglianza. Per sottolineare la necessità di dividere i compiti, di strutturare società in cui si condivide il lavoro di cura. L’impronta di cura storica è impagabile, non c’è un modo umano di poter restituire a tante donne, che son le nostre antenate, la quantità di tempo investito, la quantità di tempo di vita dedicato, molte volte in modo non libero e molto duro, per sostenere la civilizzazione. Il punto è capire che siamo in un momento in cui ancora, per la maggior parte, sono le donne in tutto il mondo a occuparsi di sostenere la vita in un sistema in cui, senza dubbio, si attacca la vita stessa.
La critica al modello neoliberista legata ai temi ambientali interroga le categorie occidentali di povertà e sviluppo. Questo come si traduce in una richiesta urgente di decolonizzazione delle pratiche negli ambiti dei femminismi occidentali?
Io credo che il femminismo occidentale, ma anche il femminismo in generale, e i movimenti sociali occidentali – compreso il movimento ecologista – debba interrogarsi su tutto quello che stiamo imparando dai femminismi, dall’ecologismo e da tutti i movimenti sociali di ispirazione decoloniale. La cultura occidentale ha un peccato originale, quello di aver costituito un modo di intendere la vita, gli esseri umani, in cui teoricamente tale vita umana è sconnessa dalla terra, dai suoi limiti, ed è sconnessa anche dai corpi. Dal mio punto di vista la chiave per comprendere qual è o chi è il soggetto patriarcale è analizzare questa specie di fantasia dell’individualità generatasi in Occidente, dove il soggetto politico, il soggetto che definisce la politica, che definisce la legge, che articola come funziona il pubblico, è un soggetto che si considera disconnesso dalla terra, dal suo stesso corpo ed è deresponsabilizzato rispetto al corpo degli altri. Questa rottura, questa cesura radicale tra essere umano e resto della vita è il problema più grande. Perché la nostra politica e la nostra economia sono basate su un soggetto che non esiste, un soggetto astratto che alcune femministe chiamano Bbua, un gioco di parole che coincide con una banca spagnola che si chiama Bbua, ovvero il soggetto bianco, borghese, uomo e presumibilmente autonomo. Questo soggetto è sostanzialmente universale, è colui che ha definito qual è la categoria di individuo, di politica, di produzione, e di sviluppo. Io credo che lo sguardo decoloniale ci stimoli soprattutto a ritessere il legame indissolubile che c’è con la terra, tra le persone, affinché possa esistere la specie umana, e ci fa guardare la nostra scienza e la nostra politica con un’umiltà epistemica, ovvero riconoscendo che il criterio di sviluppo, di economia o la nozione di produzione che abbiamo raggiunto, sono posizioni razziste, patriarcali, ingiuste perché disuguali e completamente ecocide. Questo modello di sviluppo basato su «quanto più è meglio», sul produrre senza limiti, senza spiegare a che serve e a chi serve ciò che viene prodotto, è un modello che sta togliendo la possibilità di vita nel presente e nel futuro dei soggetti sociali che meno hanno contribuito a generare questo modello di sviluppo. Per questo lo sguardo decoloniale che ci interpella come femministe ed ecologiste occidentali, e che interpella tutti i movimenti sociali, ci sfida a guardare il nostro stesso razzismo, la nostra stessa concezione quasi universale del modo di intendere il mondo che senza dubbio si sta dimostrando completamente nefasta. Ciò non significa cancellare tutta la nostra civilizzazione, abbiamo imparato molto ma credo che il valore di ciò che abbiamo imparato si moltiplica se ci lasciamo interpellare dagli sguardi del pensiero decoloniale, dai subalterni che son stati storicamente nascosti e disprezzati.
*Sara Pollice è socia della Cooperativa Befree contro tratta, violenza e discriminazioni dal 2014 e socia fondatrice dell’associazione culturale Le Funambole. Lavora come operatrice presso la cooperativa Befree e dal 2014 è parte della staff della scuola estiva. Yayo Herrero è laureata in antropologia sociale e culturale, ingegneria tecnica agraria e in educazione sociale. È stata coordinatrice di Ecologisti in Azione e attualmente insegna all’Università Nazionale di Educazione a Distanza ed è direttrice generale della Fuhem.
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