Prima lezione. Un complesso sistema di equilibri.
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Conoscere la Costituzione significa comprenderne le radici storiche, le implicazioni filosofiche e le aspirazioni politiche. MicroMega propone un ciclo di brevi "lezioni" dedicate alla nostra Carta fondamentale - al di là di ogni vuota retorica sull'educazione civica - con lo scopo di risvegliare, soprattutto tra le giovani generazioni, un interesse concreto intorno ai valori che strutturano la nostra convivenza civile.
micromega Carlo Scognamiglio
Possiamo scrutare, nell’orizzonte ideale e assiologico della nostra Costituzione, un peculiare intreccio di mutamenti storici, che coinvolgono in una dinamica non lineare le eredità politiche dell’età giolittiana, i successi e le sconfitte del movimento operaio, l’evoluzione del cattolicesimo politico, l’esperienza viva dell’antifascismo clandestino e della lotta resistenziale.
Ancor più profondamente, gli ideali cui si ispira la nostra Carta vanno compresi nel loro racconto entro la storia e la filosofia del costituzionalismo moderno. Una storia, questa, riconoscibile in un tracciato sotterraneo, che sarà interessante esplorare in alcuni suoi tratti.
Ciononostante, se ci si attesta al livello della cronaca politica, la genesi storica della nostra Costituzione si può anche circoscrivere, senza con ciò svilirla, entro l’arco temporale che raccoglie due tornate elettorali: quella del 1946, per il passaggio all’ordinamento repubblicano ed elezione dell’Assemblea Costituente, e quella del 1948, per la composizione del primo Parlamento italiano.
Quegli anni, è importante comprenderlo, furono caratterizzati al tempo stesso da momenti di sincero sentimento di cooperazione nazionale e di irriducibili diffidenze reciproche.
Dopo la dittatura e dopo la guerra, il rinnovamento era necessario, ma non scontato. Non si può cambiare una società da un giorno all’altro, neanche dopo un evento catastrofico come la seconda guerra mondiale. La Costituzione che ci si avviava a predisporre doveva essere l’esito di una rinascita dal fascismo; tuttavia il fascismo, fino al declino delle forze militari dell’Asse, presentava un grado di persistenza in un’ampia fascia della popolazione. Molti cittadini si sentirono certo sollevati dall’idea della fine del regime, auspicando la rapida conclusione del conflitto, ma il paradigma morale e politico del fascismo non poteva certo considerarsi dissolto d’improvviso. Ci si trovava un po’ in quel rischio di vivere, come capita a ciascuno di noi quando attraversa una fase di pentimento per una serie di errori commessi – dalle gravi conseguenze – l’esperienza di cambiare radicalmente e rapidamente vita, senza tuttavia modificare nulla in profondità, rifiutandosi di fare realmente i conti con sé stessi e la parte di sé che si vorrebbe correggere.
La Resistenza fu certamente un momento eroico della storia italiana, ma fino a un certo punto non mostrò i caratteri di un fenomeno di massa, ed eventualmente assunse tale forma solo in alcune aree del Paese, mentre risultò pressoché residuale nel centro-Sud, dove prevalevano le forze conservatrici. Radicali differenze, protrattesi dal tempo dell’unificazione, continuavano a tracciare un solco tra il Nord e il Sud. La consapevolezza di tale disparità, di fronte all’urgenza della liberazione, aveva spinto il segretario del Partito Comunista Italiano (PCI), Palmiro Togliatti, a evitare l’esacerbarsi improprio di quella contrapposizione e a decidere la “svolta di Salerno”, concedendo cioè ai Savoia una sorta di tregua istituzionale, per avviare una collaborazione tra tutte le forze del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) fino al giorno della completa liberazione dell’Italia dalle truppe nazi-fasciste. I primi due governi degli anni di guerra (rispettivamente guidati da Badoglio e Bonomi) avevano congelato la questione istituzionale. In altri termini, il re aveva garantito il proprio ritiro a vita privata al termine del conflitto, e nel contempo aveva affidato al figlio Umberto la luogotenenza del regno, accettando l’idea di una consultazione elettorale a guerra finita, affinché gli Italiani potessero liberamente scegliere la forma istituzionale dello Stato, se monarchica o repubblicana.
Ma altri attori condizionavano la scena. Inglesi e americani erano concordemente determinati a far leva sull’Italia in una chiave geopolitica di equilibrio post-bellico. Durante l’ultimo anno di guerra gli Alleati lasciarono in qualche modo alla Germania e alla Repubblica Sociale Italiana (RSI) la possibilità di concentrare le proprie forze contro i partigiani, rallentando di fatto la lotta di liberazione. Probabilmente gli anglo-americani miravano a vincere la guerra senza dover concedere molto alle organizzazioni partigiane, e Churchill avrebbe preferito che il governo rimanesse nelle mani di Badoglio piuttosto che passare a Bonomi, dopo la svolta di Salerno. Persino la monarchia era preferita alla Repubblica. Contemporaneamente, lo stesso fronte resistenziale non era omogeneo, né per metodo né per aspettative.
Alle spalle del percorso costituente, si scorge dunque un sistema di equilibri assai complesso da decifrare.
Le personalità politiche forse maggiormente capaci di mantenere una costante lucidità in questa fase erano Alcide De Gasperi, leader della Democrazia Cristiana (DC), evidentemente consapevole del quadro politico internazionale, nonché dei punti di debolezza di molti tra i soggetti politici italiani, e Palmiro Togliatti, anch’egli ben conscio della pluralità e del peso degli attori in campo, dagli Alleati alla Chiesa, dal re agli altri partiti di massa. De Gasperi e Togliatti furono certamente antagonisti, ma entrambi condividevano una prospettiva determinante: era quanto mai indispensabile riuscire a trovare il giusto equilibrio per non scivolare in un nuovo fascismo, né in un ritorno al liberalismo prefascista. La disordinata situazione post-bellica rendeva la ricerca di tale punto d’approdo quanto mai difficile e delicata. Uno ritorno al passato, ad esempio in un quadro liberale primonovecentesco, sarebbe stato un suicidio politico, oltre che socialmente inconcepibile. Occorreva tenere insieme ideali forti, storicamente legittimati, come l’antifascismo e l’opzione democratica, con una robusta dose di realismo politico. Scegliendo una chiave poco retorica, la gestione del potere tra il 1945 e il 1947 può anche essere interpretata come un gioco di equilibri che attraverso manovre di palazzo più o meno cristalline, condusse al tramonto alcuni simboli della Resistenza, come il Partito d’Azione (PdA) e la figura di Ferruccio Parri, capo partigiano e primo presidente del Consiglio italiano; ma anche della “vecchia Italia”, interpretata in certa maniera da autorevoli personalità quali Benedetto Croce o Vittorio Emanuele Orlando, che solo per poco tempo ebbero l’illusione di poter condizionare significativamente il quadro politico. Ma quel movimento di palazzo non era astratto, esso corrispondeva nei fatti a un reale processo di riconfigurazione della partecipazione alla vita politica. Ecco perché il terreno d’azione risultò interamente occupato dai tre grandi partiti di massa: DC, PCI, e PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, era questo il nome che aveva assunto in quegli anni il vecchio Partito Socialista Italiano).
Ma erano dinamiche che risentivano anche del grande sistema di equilibri internazionali, alla vigilia della Guerra Fredda. Il primo governo De Gasperi, alla fine del 1945, venne salutato positivamente dagli operatori economici (la Borsa già condizionava con le variazioni di rendimento dei titoli le decisioni politiche) e dagli Alleati anglo-americani, che fino alla sostituzione di Parri avevano ritenuto più prudente mantenere le proprie truppe sul territorio italiano, specialmente in considerazione dell’irrisolta questione triestina.
Prima di ancora del testo costituzionale, fortemente tormentata fu poi la vicenda relativa all’individuazione dell’assetto istituzionale dell’Italia. Se opinione unanime era la necessità di dare al Paese quanto prima un’Assemblea Costituente per la scrittura della nuova Carta fondamentale, complessa rimaneva la gestione dei rapporti con la monarchia. La Corona fece ogni sforzo – anche con l’appoggio non esibito degli Alleati – per tentare di rimanere al proprio posto. Gli esiti del referendum del 1946 vennero persino contestati segnalando presunte irregolarità nel conteggio dei voti. Si arrivò a un passo dalla ripetizione della consultazione referendaria. Alla fine, il re Umberto II, a favore del quale aveva abdicato Vittorio Emanuele III pochi giorni prima del referendum (nel tentativo di condizionarne gli esiti), decise di abbandonare improvvisamente il Paese, non senza aver lasciato dietro di sé note polemiche e sospetti di brogli, cui rispose con un testo estremamente duro il presidente del consiglio De Gasperi, che in riferimento al comportamento del re utilizzò la vigorosa espressione: “pagina indegna”. Turbolenze, dunque, molte turbolenze nella società italiana già fortemente provata dalla gravità e dalla responsabilità della guerra mondiale.
L’esito della prima consultazione, per l’elezione dell’assemblea Costituente, nel 1946, concesse largo spazio alla DC, che raccolse il 35,2% dei voti, ma anche gli altri partiti di massa, come il PSIUP e il PCI, ottennero rispettivamente il 20,7% e il 18,9% dei consensi, a discapito dei modesti risultati di forze tradizionali come i liberali, i monarchici, i repubblicani o il Partito d’Azione, che nonostante il suo importante contributo alla Resistenza, ricevette solo l’ 1,5% dei consensi.
Una svolta decisiva verso la definizione dei rapporti di forza fu la scissione del PSIUP, il partito di sinistra di più lunga tradizione in Italia. Tale processo è riconducibile per un verso alla crescita importante e al protagonismo politico del PCI, che tendeva anche ad attrarre verso di sé una parte dei socialisti. Dal lato opposto, De Gasperi, spinto con sempre maggiore insistenza dagli Alleati a escludere i comunisti da ogni partecipazione al governo, aveva bisogno di una stampella politica che non facesse apparire la classe dirigente democristiana troppo sganciata dalla realtà delle masse lavoratrici. Una stoffa tirata da entrambi i lati, inevitabilmente si strappa. Si andò a innescare un processo simile a quello costruito da Giolitti intorno al 1906, che produsse una rottura tra riformisti e massimalisti. Maturarono quindi rapidamente due correnti sempre più distinte all’interno del PSIUP, senza che il loro leader, Pietro Nenni, se ne rendesse realmente conto. Fu così che l’ala moderata, guidata da Giuseppe Saragat, uscì dal partito dando vita al PSDI (Partito Socialdemocratico Italiano), mentre l’ala di sinistra, animata da Lelio Basso, riassunse il vecchio nome di PSI. Siamo all’11 gennaio 1947, proprio alla vigilia della discussione in aula del Progetto di Costituzione.
Dunque un quadro politico nuovo, di non agevole lettura, ma spinto da una straordinaria vocazione al rinnovamento democratico: è da qui che bisogna partire, per comprendere contenuti e linguaggi della nostra Costituzione.
(18 ottobre 2019)
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