giovedì 24 ottobre 2019

La questione abitativa in Italia. Una emergenza che non consente più inerzie.

La scorsa settimana centinaia di persone provenienti da diverse città d’Italia, hanno manifestato a Roma presso il Ministero delle Infrastrutture per ribadire al nuovo governo l’assoluta urgenza di provvedimenti e politiche abitative da troppo tempo inesistenti nel paese. 
 

Una delegazione dell’Asia-Usb e dei Movimenti per il diritto all’abitare è stata ricevuta dal capo di gabinetto della ministra De Micheli aprendo una interlocuzione franca, che ha avuto il merito di mettere sul piatto diversi importanti temi.
Sul tavolo sono state messe alcune proposte per la soluzione della crescente emergenza abitativa, tra questi un nuovo piano decennale di edilizia pubblica e il finanziamento di una nuova Gescal. 
E’ stata riaffermata la necessità di tornare ad investire sul tema dell’edilizia residenziale pubblica come parte essenziale di un nuovo welfare in grado di aggredire precarietà e povertà. L’importanza di garantire che il patrimonio degli enti previdenziali come l’edilizia agevolata non venga trasformato in nuove occasioni di speculazione privatistica, ma conservi il ruolo sociale di edilizia intermedia fra l’edilizia residenziale pubblica ed il mercato. 
La necessità di cancellare il famigerato art.5 del piano casa Lupi che impedisce a chi occupa per necessità di avere la residenza e con essa il medico e l’iscrizione a scuola per i figli. 



Ma sull’emergenza abitativa incombe poi la minaccia degli sgomberi delle occupazioni abitative che, in parte, in questi anni sono state l’unica soluzione concreta per migliaia di famiglie altrimenti senza casa. In particolare c’è la necessità impellente di scongiurare, a partire dalla occupazione di via del Caravaggio, nuovi possibili sgomberi e quindi il ripetersi di scene terribili con azioni di forza, tensioni e deportazioni che non vogliamo più vedere e che oltretutto non hanno risolto in nessuna forma il problema.
Nell’incontro con la delegazione, il Ministero si è dimostrato attento e disponibile, rimarcando la volontà di investire un miliardo di euro solo in parte con la realizzazione di nuovi alloggi e allo stesso tempo di voler portare avanti una vasta operazione di rigenerazione urbana, delle case popolari e delle periferie in primis.Il problema è che nella manovra di Bilancio del governo, si stenta a trovare traccia di risorse e misure adeguate per mettere a soluzione una emergenza sociale che cresce di anno in anno e di giorno in giorno, sia nelle grandi aree metropolitane che nei centri urbani più piccoli.

E’ impossibile non denunciare come nel nostro paese siamo praticamente tornati all’anno zero del diritto all’abitare. 
Lo dimostrano gli impegni finanziari degli ultimi governi su questo settore. Il Pil impiegato attualmente dallo Stato italiano per la costruzione di alloggi popolari è intorno allo 0,02 per cento, mentre la media europea è del 3,0 per cento. In un alloggio sociale (casa popolare) in Europa ci vive un quinto delle famiglie, mentre in Italia solo il 3,5 %.


 
L’Italia infatti continua ad essere il paese europeo che spende poco o niente nei programmi di edilizia sociale, alimentando così penuria di alloggi con affitti accessibili, speculazione a tutto campo in materia di abitazioni e una conseguente ma perdurante emergenza sociale abitativa in tutti i grandi e medi centri urbani.
La questione abitativa in Italia continua ad essere aggredita da ogni punto di vista dalle misure governative che favoriscono gli interessi degli speculatori privati.

In un documento l’Asia Usb ricorda come la cancellazione di ogni politica pubblica per la casa, avvenuta a partire dagli anni novanta, ha favorito la soluzione privata al problema abitativo incentivando l’acquisto, lasciando campo libero alla speculazione edilizia e al consumo del suolo (in alcune aree metropolitane – sia al centro che al nord – a fronte di una crescita zero della popolazione abbiamo visto la triplicazione delle aree edificate).
Nei decenni passati alcuni strumenti pubblici come l’INA-Casa e successivamente la GESCAL (Gestione Case per i Lavoratori), mediante contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro, avevano permesso di dare importanti risposte ai problemi abitativi del nostro paese che usciva da anni di guerra.

La politica dell’epoca ha agito attraverso la realizzazione in continuazione di case popolari, mediante gli Istituti previdenziali e gli Iacp (Istituto Autonomo Case Popolari) oggi diventati regionali come l’Ater nel Lazio o l’Aler in Lombardia. In alcune città erano le stesse amministrazioni comunali a impegnare fondi per l’edilizia pubblica.
Esistevano sistemi di esenzioni fiscali indirizzate alle abitazioni di proprietà, in particolar modo a quelle realizzate attraverso la cooperazione. Sono state approvate la legge 167/62 e la legge 865/71 per mettere a disposizione aree comunali fabbricabili e finanziamenti delle Stato per realizzare case pubbliche per affrontare la questione abitativa.
Da metà degli anni novanta in poi, il modello sopra descritto è entrato in crisi: hanno iniziato a dare i primi effetti le politiche europeiste di privatizzazione, gli Enti previdenziali hanno dismesso la funzione di contenimento del mercato della casa a prezzi equi, gli Istituti per le case popolari sono stati trasformati in aziende economiche, non hanno avuto più gli strumenti necessari alla realizzazione di nuovi alloggi, né la possibilità di rispondere alle nuove esigenze che emergono dal contesto sociale urbano. La crisi di questo modello porta anche all’abbandono e alla non volontà di gestire il patrimonio pubblico fin ora realizzato, il quale è ormai divenuto dequalificato e fatiscente a causa dell’assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Quella di svuotare gli strumenti pubblici messi in piedi fino a quel momento per affrontare il problema della casa, sempre più emergente, è stata una scelta ben congegnata per favorire le rendita parassitaria e il dominio sulle città dei costruttori e dei palazzinari.



 
Ma tra le proposte in circolazione, invece che prendere di petto un impegno strategico dello Stato sulla questione abitativa, in questi giorni si parla solo del cosiddetto Fondo Salva Casa. L’obiettivo del Fondo, è quello di acquistare gli immobili pignorati e messi all’asta che, in un secondo momento, potranno essere assegnati in locazione, ad un canone sostenibile, a coloro che hanno subito il pignoramento dell’abitazione favorendone, successivamente, il riacquisto da parte degli stessi.  Il Fondo, sponsorizzato dall’organizzazione cattolica delle Acli e presentato dal senatore del M5S Daniele Pesco, intenderebbe attenuare l’impatto sociale dei circa 248 mila sfratti, che secondo le stime saranno resi esecutivi in Italia nei prossimi 5 anni (Fonte Ministero Giustizia), ma senza però penalizzare i diritti legittimi dei creditori cioè le banche. Se si considera un nucleo familiare medio, composto da 4 persone, i dati rilevano che circa 1 milione di persone a livello nazionale rischia potenzialmente di perdere la propria casa a causa del mancato pagamento dei mutui. Gli immobili che rientrano nella casistica di interesse del Fondo, come ad esempio quelli abitati e adibiti a prima casa, sono pari solo a circa 13 mila, più o meno il 5% del mercato complessivo.
Secondo le stime della Caritas sono in continuo aumento le richieste di assistenza da parte di quelle persone impoverite dalla crisi economica e che ora rischiano di perdere la propria abitazione, comprata negli anni in cui le banche erogavano con facilità “mutui prima casa”, per importi anche a totale copertura del prezzo di acquisto. Spesso gli immobili pignorati subiscono una forte svalutazione a seguito dell’acquisto al ribasso con aste giudiziarie da parte delle banche creditrici. Con questo meccanismo le famiglie, oltre a perdere la casa, restano indebitate a vita e tagliate fuori dal circuito bancario. Si consideri infatti che a fronte di circa 120 mila immobili, con un valore medio non superiore a 250 mila euro, viene recuperato solo il 33% del credito.
Ma sull’emergenza della questione abitativa dobbiamo invece confrontarci con una realtà assai più estesa, grave e complessa: sono quasi 3 milioni le famiglie italiane (11,7 % del totale) in difficoltà con le spese sulla casa, rate del mutuo, imposte, affitto e utenze, e più di trecentomila sono sotto sfratto che rischiano di finire in mezzo alla strada.
Ci sono poi migliaia di inquilini delle case popolari esistenti in estrema difficoltà e vittime dei processi di privatizzazione spinti dai governi e da alcune regioni che restringono sempre di più i criteri per l’edilizia pubblica; ci sono decine di migliaia di inquilini delle case degli enti previdenziali pubblici e privatizzati che hanno visto raddoppiare o triplicare i canoni di affitto e vengono sfrattati se non sono in grado di pagarlo o sono vittime di dismissioni a prezzi speculativi. C’è poi, spesso sottaciuto, lo scandalo di decine di migliaia di inquilini a cui sono stati affittati o venduti alloggi sociali a prezzi di mercato, truffati da cooperative e imprese, realizzati con finanziamenti e su terreni pubblici nei piani di zona di edilizia agevolata, è il caso dello scandalo dei Piani di Zona a Roma.

Il diritto all’abitare è un fattore centrale dell’emancipazione sociale di tutti e non una bancarella in più per gli appetiti dei mercati e degli speculatori. E’ la difesa del bene comune, dell’idea del recupero urbano del patrimonio sfitto e abbandonato, del consumo zero del suolo. 
Ma anche l’affermazione del diritto all’accoglienza per i migranti e alla solidarietà. Sul diritto all’abitare come sull’emergenza sociale abitativa occorre cambiare completamente registro e costringere governo e speculatori a retrocedere, con ogni mezzo.

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