venerdì 25 ottobre 2019

Dei delitti e delle pene dei mafiosi.

La sentenza della Cassazione che esclude l’applicabilità del reato di associazione mafiosa per “Mafia capitale” ignora ciò che decenni di indagini e di processi hanno ormai reso evidente. Ovvero che la vera forza della mafia consiste nella capacità di creare reti permanenti di relazioni collusive con membri della sfera politica e del mondo imprenditoriale.




micromega Fabio Armao
In pochi giorni, due sentenze – la prima della Corte di Cassazione sul processo denominato Mafia capitale e la seconda della Corte Costituzionale sull’accesso ai benefici di legge anche per i mafiosi all’ergastolo – sembrano aver rianimato quel fuoco fatuo che è il dibattito italiano sulla mafia.
Si tratta di due sentenze ben diverse, perché la prima, riguardando l’applicabilità a un’indagine specifica del reato di associazione mafiosa, rimette in gioco la definizione stessa di mafia; mentre la seconda si chiede se un detenuto per mafia possa essere considerato o meno come tutti gli altri.

Non si vuole entrare nel merito delle questioni giuridiche; ma mi sembra opportuno fare almeno due osservazioni preliminari: 1) come è stato per il passato – basti pensare al maxiprocesso di Palermo del 1989 – le sentenze delle corti si rivelano tanto più rilevanti, per alcuni persino “invasive”, quanto più vanno a colmare un’ormai cronica incapacità del sistema politico di affrontare il fenomeno mafioso; 2) tale incapacità non è altro che la sommatoria di un difetto di pensiero (di una conoscenza inadeguata) e di azione (della pavidità, quando non della connivenza, che ostacolano l’elaborazione di una coerente e continuativa strategia legislativa antimafia), che trova una sua conferma nel dettato degli articoli di legge.

Da un lato, infatti, gli articoli 416 bis (Associazione di tipo mafioso) e ter (Scambio elettorale politico-mafioso) – non diversamente da quanto fanno altre fonti: dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale, alle definizioni adottate dal Dipartimento di Stato statunitense o dall’Unione Europea – indugiano su elementi empirici (quali la partecipazione di tre o più persone perché si configuri un reato associativo; o la specificazione che le disposizioni dell’articolo valgono anche per la camorra, la ’ndrangheta e analoghe associazioni anche straniere) nel tentativo di delimitare il campo di applicazione; dall’altro mancano di qualificare con maggiore accuratezza la natura associativa, limitandosi ad identificarla con la forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e con la condizione di assoggettamento e di omertà che ne conseguono. Ciò che si pretende di ignorare, invece, è ciò che decenni di indagini e di processi hanno ormai reso evidente: che la vera forza della mafia consiste nella capacità di creare reti permanenti di relazioni collusive con membri della sfera politica e del mondo imprenditoriale; e che costoro a nessun titolo possono ambire al ruolo di vittime dei mafiosi, ricoprendo semmai il ruolo di complici consenzienti e consapevoli (e, in questo senso, omertosi). Le uniche vere vittime, sulle quali si scarica con tutta la sua violenza la forza di intimidazione dell’associazione mafiosa, sono coloro i cui diritti vengono effettivamente lesi dall’azione criminale: nel caso di Roma capitale, i migranti.

Proviamo allora a ripartire dalla definizione del delitto. Le mafie – il plurale è intenzionale – sono sistemi, ovvero organizzazioni più o meno strutturate a seconda dei tempi e delle esigenze, che si propongono di perseguire l’utile economico di un’élite: a) attraverso il controllo e/o la conquista di posizioni di potere politico, b) la gestione diretta e massiccia dei mercati illegali nonché l’uso strumentale di sezioni crescenti di mercati legali, c) l’annullamento dei rapporti di solidarietà civile; e tutto questo d) utilizzando come mezzo non esclusivo, ma specifico, la violenza. Sostenere che le mafie sono dei sistemi vuol dire, preliminarmente, riconoscerne la natura intrinsecamente complessa: le mafie possiedono una struttura d’autorità, sviluppano un proprio peculiare apparato di norme di comportamento, pretendono persino di elaborare un codice di valori (disvalori, in realtà). Significa, inoltre, rintracciare a fianco dei clan una vera e propria comunità mafiosa di sostegno[1].

Questo modello organizzativo riverbera inevitabilmente anche sul tipo di reati di cui si rendono responsabili i mafiosi, che non si limitano certo all’organizzazione delle tradizionali attività illegali nei quartieri di loro competenza. Per servirsi di una distinzione cara ai criminologi, oltre agli street crimes i mafiosi sono sempre più protagonisti dei power crimes – per dirla à la Foucault[2], all’illegalismo dei beni (le ruberie e i furti tipici dei bassi ceti) preferiscono sempre di più l’illegalismo dei diritti (quei veri e propri “crimini contro la società”, di natura per lo più finanziaria, che associamo ai criminali dei colletti bianchi).

Il mafioso, allora, può contare su tutti i vantaggi comparati su cui fanno affidamento “i potenti”[3]:

1. la capacità di influenzare la definizione stessa del reato attraverso l’accesso diretto o la contiguità con il sistema politico, cui spetta il compito di determinare ciò che è giuridicamente vietato;

2. la possibilità di dissimulare la natura criminale delle proprie attività giocando sulla maggiore ambiguità dei reati commessi (l’evasione fiscale, la corruzione, il riciclaggio di denaro) rispetto ai crimini di strada;

3. la possibilità di occultare le tracce del proprio reato, al punto da configurare un paradosso dell’(in)visibilità: mentre il criminale comune vive nell’ombra, per emergere nel momento in cui compie un reato che produce un danno immediato ed evidente, il responsabile dei power crime opera in piena luce, ma può contare sull’invisibilità dei propri delitti;

4. la funzionalità dei propri reati alla sopravvivenza e all’ampliamento delle zone grigie che vengono a generarsi in quegli spazi interstiziali in cui si incistano la corruzione e il voto di scambio, per fare soltanto due esempi;

5. la capacità di aggregare attorno ai propri crimini professionalità tra le più diverse – manager di grandi e piccole aziende, avvocati e commercialisti, broker finanziari, esperti di comunicazione, ecc. – e interessi tali da arrivare a produrre economie di scala e vantaggi sistemici.

Oltre a ciò, tuttavia, i mafiosi possono contare su due ulteriori vantaggi, che li pongono in una posizione dominante (se non egemonica) rispetto a qualunque attore del mondo lecito:

1. la superiore capacità di differenziare i propri prodotti, in settori diversi del mercato sia dei beni sia dei servizi (dalla droga, alle armi; dai migranti, ai rifiuti urbani);

2. la possibilità di “internalizzare” il costo della protezione dei propri membri e dei propri traffici; che è come dire che la violenza rappresenta per loro uno dei normali costi razionali d’impresa. I clan mafiosi, disponendo di armi e di soldati e non avendo scrupoli a farne uso, sono in grado di servirsene per proteggere i propri interessi e anche quelli dei propri partner criminali del mondo lecito; ma qualora tra di essi dovessero sorgere dei conflitti, saranno i secondi a soccombere, non potendo nemmeno aspirare alla protezione dello stato.

Se si applicano questi criteri, è del tutto plausibile ritenere che l’associazione criminale resasi responsabile dei reati emersi nel corso dell’inchiesta su Roma capitale rispecchiasse appieno tutte queste caratteristiche; compreso la capacità di intimidazione e di violenza di cui si rendeva garante, sulla base del proprio curriculum criminale, Massimo Carminati.

Ma alla luce di questi stessi criteri, richiede almeno una postilla anche la sentenza della Corte Costituzionale, ineccepibile nell’ottica del rispetto dei diritti umani: il fatto stesso di delegare a un giudice di sorveglianza il potere di decidere sui permessi da concedere a un mafioso, rischia di esporre quello stesso giudice all’intimidazione e al ricatto da parte dell’organizzazione. Sia chiaro: non è responsabilità della Consulta garantire la sicurezza dei magistrati; ma, d’altra parte, la nostra storia non ci autorizza a fidarci del sistema politico. Troppo spesso, infatti, si dimentica – in realtà non lo si è mai ripetuto a sufficienza – che le mafie, e Cosa nostra siciliana in particolare, hanno provocato negli anni di piombo quasi il doppio delle vittime, tra civili e rappresentanti delle istituzioni, di tutte le organizzazioni terroristiche messe insieme (612 tra il 1969 e il 1993; mentre, nello stesso periodo, il terrorismo di destra e di sinistra provoca 181 morti e le stragi 129).

È già stato osservato, da parte di alcuni magistrati, che le decisioni sui permessi andrebbero prese dai tribunali di sorveglianza nel loro insieme e non dai singoli giudici (nell’ottica del pool, cara a Chinnici e Caponnetto). Ma questo è davvero soltanto il minimo. La concessione di simili benefici a un (presunto) ex associato alla mafia richiederebbe un investimento cospicuo in termini di intelligence e di monitoraggio del territorio di appartenenza per verificare che non sussista più alcun legame – del detenuto e dei suoi familiari – con il clan di cui era membro.

NOTE

[1] F. Armao, Il sistema mafia. Dall’economia-mondo al dominio locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

[2] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993.

[3] V. Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano 2015.

(24 ottobre 2019)

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