venerdì 25 ottobre 2019

Portogallo. Miracolo a Lisbona.

In Portogallo la destra si trova ai minimi storici grazie alle politiche espansive e nonostante i vincoli Ue. Ne parla Francisco Louçã, economista ed esponente del Bloco de Esquerda.


Abbiamo incontrato Francisco Louçã – economista, membro del Consiglio di Stato Portoghese, già deputato e coordinatore del Bloco de Esquerda – in un seminario all’Università di Urbino. 

In questa intervista racconta di come in Portogallo la destra sia ai minimi storici grazie alle politiche espansive degli ultimi anni che hanno creato molti posti di lavoro, e riflette sulle condizioni per la costruzione di uno spazio alternativo all’interno della disciplina economica.  
Al di là dei modelli matematici e statistici, l’economia (come la politica) ha bisogno di prendere in considerazione le aspettative e le speranze delle persone, di occuparsi di povertà, emergenza abitativa e diseguaglianze.
In Italia si discute molto del «miracolo portoghese» . Quali pensa che siano i tre ingredienti fondamentali della ricetta del rilancio del paese?
Il primo dato rilevante degli ultimi quattro anni è stato il cambio di governo – un governo di minoranza socialista in alleanza con il Partito comunista e il Bloco de Esquerda – eletto col mandato di implementare una politica anti-austerità. È stato un enorme cambiamento, non in assoluto ma perché le aspettative – anche considerando il contesto europeo – erano basse, ma ha comunque fatto abbastanza per cambiare qualcosa nella vita concreta delle persone. Salari e pensioni sono stati riportati ai livelli pre-riforme di austerità imposte dalla Troika, le tasse sul lavoro sono diminuite e le circostanze politiche hanno portato all’aumento del salario minimo, alla gratuità dei libri di testo nelle scuole, a un costo del trasporto pubblico minore. Il primo ingrediente è stato dunque un cambio nel “clima sociale” e nella percezione pubblica.
Il secondo punto è il cambiamento avvenuto a livello europeo. Dopo la punizione e la distruzione dell’economia greca, perseguita per motivi politici dall’Europa contro la popolazione, l’ipotesi di un secondo confronto di quel tipo ha portato a un allentamento della pressione europea. Non che non ci sia stata pressione, c’è stata perché il Portogallo ha deviato dello 0.3% nel deficit e si è votato a livello europeo per imporre le sanzioni ma non ci sono state perché mancava un voto nella Commissione Europea; ciò nonostante la presa si è allentata, pur continuando a ribadire nei report che politiche come l’aumento del salario minimo fossero inaccettabili.
Il terzo è ovviamente il Quantitative Easing di Draghi. Il tasso di interesse sul pagamento del debito era così basso che il risparmio di due miliardi su otto ha fatto la differenza nel bilancio. D’altro canto, stando così le cose anche l’entità del debito pubblico non è stata al centro della discussione.
Queste tre condizioni combinate hanno fatto sì che cambiasse la percezione, che la disoccupazione scendesse dal 13 al 6% e che si potessero creare molti posti di lavoro (benché precari). Il risultato è che alle ultime elezioni del 6 Ottobre, il Partito socialista è passato dal 32 al 37%, il Bloco ha mantenuto circa il 10% di consenso che già aveva, e solo il Partito comunista ha avuto una leggera perdita (che loro vivono come grave) passando dall’8 al 6%. I partiti di destra hanno subito la peggiore sconfitta della loro storia, sono entrati in crisi profonda e i loro leader saranno tutti messi in discussione.

Pensa che la nuova commissione di Ursula von der Leyen avrà un atteggiamento diverso rispetto a quella precedente verso le politiche di austerità?
È presto per capire quale sia il loro punto di vista ma già lo stesso processo di formazione della Commissione è disastroso. A partire proprio dalla scelta di una figura non votata alle elezioni e proveniente dal governo tedesco. Il Partito popolare europeo è stato dominato dalla rivolta di Orbán e dei suoi sodali contro la Merkel e questo ci dice molto delle difficoltà dell’establishment. È una commissione veramente molto debole che deve affrontare fragilità di tutti i regimi nazionali, dalla Spagna alla Francia, dall’Italia alla questione della Brexit. Le crisi scoppiano e si propagano in modo sistemico perché l’Unione europea non è in grado di affrontare le emergenze sociali e i problemi economici strutturali, mentre difende i colossi finanziari che si stanno espandendo in Europa mettendone a rischio la tenuta democratica e il welfare. È da queste contraddizioni che scaturiscono la « destrizzazione delle destre» [rightwingasation of right wing parties] e il populismo di destra.

Assisteremo a livello europeo e/o nazionale a una proposta politica di controllo pubblico dei processi di sviluppo tecnologico o di intervento rispetto alle loro conseguenze?
Dovrebbe essere adottata una politica europea in questo senso, ma le probabilità che ciò accada sono molto basse. Le autorità europee tendono a remare contro l’introduzione di politiche di salario minimo e reddito minimo, che sono le politiche che proteggono le persone in difficoltà (giovani, poveri, disoccupati). Anche nel settore del management dell’innovazione tecnologica, nonostante alcune parti della Commissione europea potrebbero cogliere la necessità di avere personale qualificato, l’impostazione di policy generale è ancora incentrata sull’austerità e sulle politiche che impediscono gli investimenti nella qualificazione dei lavoratori, una qualificazione che aumenterebbe anche i loro diritti.
In Portogallo c’è stata una grande discussione a questo proposito perché la Troika aveva introdotto delle misure di liberalizzazione del cosiddetto «mercato del lavoro» (espressione ingannevole), mentre il governo socialista le ha cambiate per quanto ha potuto, così da tornare alle condizioni precedenti. Quelle leggi erano impostate a partire dall’idea che il potere contrattuale dei lavoratori avrebbe ridotto il margine di profitto delle imprese – il che è vero – portando minori investimenti. In realtà, nonostante ci sia lo sfruttamento dei lavoratori, gli investimenti non crescono perché dipendono per lo più dalle aspettative dei futuri profitti e quando le imprese si convincono di avere molto potere trattano i lavoratori come se fossero macchine.

Cosa ne pensa dei piani di socializzazione della proprietà proposti sia dal responsabile economico del Labour di Jeremy Corbyn che dalla piattaforma per la candidatura 2020 di Bernie Sanders? Crede che quella della democrazia economica sia una strada percorribile per il movimento progressista?
Bisognerebbe capire quali sono le condizioni interne della politica statunitense e del Regno Unito. Supporto molto ciò che stanno facendo Jeremy Corbyn e Bernie Sanders, il loro sforzo per cambiare la sfera politica e il dibattito pubblico, ma non saprei dire se quello può essere un punto cardine di una politica progressista. Credo vi siano in questo senso molte difficoltà. Ci sono alcune esperienze (in Germania, Svezia) che dimostrano che si possono implementare delle restrizioni all’azione degli azionisti [stockholders’ representatives] ma questo non significa che si cambino il piano e gli standard di investimento, inquinamento ecc.
Se Sanders o Corbyn arrivassero mai al governo, penso che sarebbe meglio concentrarsi nel controllo della barbarie della finanza e del comportamento dei proprietari dei grandi flussi di capitale; dunque regolamentazione, capital control e misure severissime contro le diseguaglianze. A partire da una tassazione senza evasione e davvero efficace: tutti conoscono la battuta di Warren Buffet sul fatto che lui paga meno tasse della sua segretaria.

L’ultima domanda riguarda la disciplina economica. Quale pensa sia lo spazio oggi per lo studio e l’approfondimento della storia del pensiero economico, spesso sacrificata nello stesso ambito accademico, e per la costruzione di un pensiero economico alternativo?
Per vent’anni abbiamo assistito alla rivolta degli studenti francesi, e poi del movimento internazionale, che chiedono pluralismo in economia e che venga cambiato lo schema attraverso cui la si insegna; io penso che abbiano ragione e che alcuni risultati ci siano stati (modesti ma interessanti). Ritengo che serva un cambiamento radicale nell’istruzione in ambito economico e nelle scienze sociali in generale. Bisogna promuovere maggiore interdisciplinarietà, promuovendo una buona conoscenza di matematica e statistica ma anche della realtà nella sua piena complessità. Può persino essere che ci serva una matematica migliore di quella dei sistemi di equazioni simultanee che forniscono risposte a domande sbagliate, cioè l’equilibrio, mentre dovremmo guardare alle dinamiche, alle topologie, alla complessità, alla vita sociale, e ai problemi reali. Le facoltà di economia e i dottorandi dovrebbero discutere di povertà, disoccupazione, di diseguaglianze di genere e cambiamento climatico, di politiche di investimento e innovazione, nel contesto della complessità e delle teorie alternative di riferimento. Questo porterebbe a delle visioni molto più critiche, con persone che dovrebbero essere molto più realistiche e meno «sulle nuvole» . L’economia riguarda le persone, i rapporti di forza, i soggetti politici, la vita sociale, il welfare, l’occupazione e la casa. Riguarda le speranze e le aspettative, per questo bisogna costruire una visione alternativa.

*Francisco Louçã, economista e fondatore del Bloco de Esquerda. 
Rosa Fioravante, ricercatrice e teaching assistant alla Luiss Guido Carli, autrice e curatrice di Bernie Sanders. Quando è troppo è troppo! (Castelvecchi 2016, seconda edizione 2018). Collabora con Fondazione Feltrinelli e Acli Lombardia.

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